I racconti di Satampra Zeiros: “Il talismano degli antichi” di Monica Serra

23435378_726969537512793_1146261822_n

Cari lettori, vi comunichiamo la nascita di una nuova rubrica su Hyperborea: “I racconti di Satrampa Zeiros”, interamente dedicata alla divulgazione di short story inedite, relative al genere di spada e stregoneria.

Oggi, vi proponiamo “Il talismano degli antichi” di Monica Serra, una storia di 24.000 battute spazi inclusi.

Buona lettura.


Sinossi: Una misteriosa nube si sta espandendo sulle terre di Talamh Mòr. Porta odio, guerre, carestie e secondo i sacerdoti del Tempio di Regno Sabbioso soltanto un amuleto leggendario può disperderla. Lamiroth, principe del regno, discende dagli Antichi che un tempo custodivano il potente Talismano, pertanto gli viene affidato il compito di ritrovarlo.

Dopo aver superato le insidie del Mare Nero, che trascina sul fondo i viaggiatori con le sue illusioni magiche, Lamiroth giunge alle Isole Perdute e qui trova il misterioso oggetto in cui è riposta la speranza di salvare il mondo. In realtà non si tratta di un manufatto e Lamiroth torna a casa portando con sé l’uovo da cui rinascerà la Fenice, creatura di luce, la sola in grado di respingere l’oscurità in arrivo.

L’essere fantastico stabilisce un contatto con Lamiroth, gli parla attraverso i pensieri e gli rivela che dovrà assumere una forma intermedia, prima di assurgere al pieno potere della Fenice. Il principe ha fretta di mettere al servizio del regno il potente Talismano, ma un banale incidente causa la rottura dell’uovo e una conseguente, inattesa sorpresa.

Autrice: Monica Serra, classe 1968, vive a Formello (RM) assieme a marito, due figli e due gatti che credono di essere umani; lavora da tempo immemorabile in un Istituto di credito e ama viaggiare. Legge da sempre, di tutto, e ha trasferito la sua passione per la lettura in quello che scrive. Le piace definirsi una “narratrice di mondi”.

Crede fermamente in queste parole: “Il fantasy è argentato e scarlatto, indaco e azzurro, ossidiana con venature dorate e lapislazzulo. La realtà è di linoleum e plastica, fatta di marroni fango e verde oliva. Il fantasy ha il sapore di peperoncini e miele, cannella e chiodi di garofano, di rara carne rossa e vino dolce come l’estate. La realtà sa di fagioli e tofu, e cenere alla fine.” [G. R. R. Martin]

Il suo compito, quindi, è raccontare di draghi e magie, di mondi che appartengono ad altre dimensioni, di viaggi del corpo, del cuore e dell’anima.

BIBLIOGRAFIA

Ha scritto racconti di vario genere, raccolti in antologie o pubblicati online: Che fine ha fatto Santa Claus? (ST-Books 2012), A mia figlia (Di Virgilio Editore 2013), Ali di fuoco (La Zona Morta Magazine 2013), Il varco tra i mondi(GDS – Chimera 2013), Tempi moderni (Alcheringa Edizioni 2013), Quella che chiamiamo estate (Delos Books 2014), Endless (Alcheringa Edizioni 2014), La Via dei Draghi (GDS – Chimera 2014), Bloodywood (Alcheringa Edizioni 2014), E il bosco tacque (Historica Edizioni 2014), La Mal’ombra (I Doni delle Muse 2014), La musica del cosmo (Diversa Sintonia 2015), Le sabbie delle Balakhad (Specchio Nero 2015), Plant de geneste (Alcheringa edizioni 2015), Liberi (Diversa Sintonia 2015), Die Bäckerhexe (Alcheringa Edizioni 2015), Kat la sopravvissuta(Altrimedia Edizioni 2016),  Il Mare Nero (Alcheringa Edizioni 2016), Quantum Leap (prossimamente in un’antologia per Delos Books), oltre che un romanzo fantasy, La Canzone del Drago (La Mela Avvelenata 2013), il romanzo breve Ali del futuro (EVE Edizioni 2015), il racconto lungo (in doppia versione italiano/inglese) Il duca di ferro (Astro Edizioni 2016) e i racconti Sangue alieno e Inside per la serie di fantascienza Sangue alieno (Diversa Sintonia 2013). Il suo racconto La lacrima d’argento ha ricevuto una menzione nel concorso Gialli sui Laghi 2016.

Collabora con alcuni blog letterari come recensore (Sognando Leggendo, Temperamente, Art-Litteram), è nella giuria del Premio Cittadella da alcuni anni e ha ideato e curato insieme a Filomena Cecere le tre edizioni dell’evento Fantàsya dedicato alla letteratura fantastica (Formello, 2013/2014/2015).


Il talismano degli antichi di Monica Serra

«Questa è la mia missione, capitano. Hai compiuto degnamente la tua, portandomi qua. Adesso tocca a me». Il tono del ragazzo non ammetteva repliche.

Da quando la Veela aveva gettato l’ancora nella baia e la scialuppa aveva raggiunto la spiaggia dorata, non avevano fatto altro che discuterne: Gareth non voleva lasciare che Lamiroth si avventurasse da solo sull’isola; il principe del Regno Sabbioso, invece, pretendeva di fare il contrario.

Il capitano fissò il giovane, serio. «Sembri sicuro di te».

Lamiroth annuì. «Fidati. Mi basteranno un paio di giorni al massimo. Quest’isola non sembra così grande».

Gareth gli afferrò il polso, il saluto tra amici che si usava nel Regno Sabbioso. «Ti aspetteremo ormeggiati nella baia. La Veela sarà pronta a riportarti a casa con il tuo prezioso bottino».

Il giovane ricambiò la stretta. «Due giorni, Gareth». Lo fissò con i profondi occhi scuri. «Se all’alba del terzo giorno non sarò tornato, la tua nave riprenderà il mare».

Il capitano aggrottò la fronte. «Non ho intenzione di lasciarti qui. Non lo farò.»

Lamiroth sorrise e i denti scintillarono come perle nel volto abbronzato. «È un ordine. Ricordati che sono io a pagare questo viaggio». Un’insolita serietà risuonò improvvisa nella sua voce. «Mia madre dovrà saperlo, se avrò fallito».

Gareth si arrese. «D’accordo: farò come desideri».

Il ragazzo mise in spalla la faretra e afferrò l’arco leggero.

«Quest’arma viene dalla foresta di Fa’lear, è fabbricata col legno magico degli Alver: saprò difendermi, se ce ne sarà bisogno». Rivolse un rapido saluto agli uomini della Veela e si allontanò verso gli alberi.

*

La foresta si protendeva verso il mare, fitta e scura, fin dove lo sguardo riusciva ad arrivare.
Se non fosse stato sicuro di trovarsi in tutt’altra parte del mondo, Lamiroth avrebbe pensato di essere rimasto intrappolato nell’antica foresta delle Ombre Sfuggenti. Alberi così fitti e maestosi si trovavano solo nel regno degli Alver.

Sistemò anche l’arco in spalla e si preparò a estrarre la spada. La lama scivolò con un suono estraneo alla calma che aleggiava sull’isola e Lamiroth s’incamminò sulla sabbia tiepida e finissima, in preda a mille pensieri. La prima cosa che gli venne in mente fu il volto affilato di El’hedryn.

Strane creature, gli Alver. Così formali, così eterei, eppure duri come l’acciaio. Non amavano mischiarsi agli altri popoli e conservavano antiche e complesse tradizioni. Non ne aveva mai incontrati, sino a qualche luna prima, quando lo strano viandante aveva chiesto il permesso di attraversare il Regno Sabbioso. El’hedryn era stato anche il primo da cui giungesse notizia della nube misteriosa che si stava propagando su Talamh Mòr.

«Tenebre e orrore cavalcano i venti del Sud» aveva dichiarato l’elfo, col suo strano accento musicale. «Guerra. Carestie. Morte. Tempi oscuri stanno per giungere».

Una nube foriera di male e follia, che – a detta dei sacerdoti del Tempio – solo il talismano degli Antichi poteva disperdere.

Lamiroth non era sicuro che il misterioso oggetto di cui parlavano i testi sacri esistesse. Gli oracoli profetizzavano che soltanto quell’amuleto potesse salvare il Regno Sabbioso, e forse l’intera Talamh Mòr, dall’ondata di malvagità che stava per travolgerli. Ma il principe dubitava che le cose fossero così semplici e rabbrividì all’idea di non sapere cosa lo aspettasse all’interno dell’intricata boscaglia in cui lo aveva scaraventato il suo viaggio della speranza. I sapienti di Città Azzurra avevano visto qualcosa nelle vasche di acqua consacrata in cui erano soliti leggere il destino. Pareva un uovo, ma non somigliava a quelli dei draghi né di nessun’altra creatura conosciuta. Liscio, lucente, multicolore… i riflessi cangianti della visione erano ancora impressi nella memoria di Lamiroth.  Cosa fosse, nemmeno il Gran Sacerdote aveva saputo dirlo, così come nessuno aveva la minima idea di come quell’oggetto avrebbe potuto essere usato per respingere l’ondata dilagante di malvagità che si stava diffondendo. A quel punto, il destino del mondo era finito nelle mani del giovane principe.

«Figlio mio». La voce di sua madre era sempre stata vibrante e melodiosa, come un canto. Gli aveva parlato gettando lo sguardo oltre il Mare Notturno, oltre gli Arcipelaghi del Vento, verso le leggendarie Terre di Fa’lear. «Non temere questo viaggio». Nel silenzio della notte, Lamiroth aveva scrutato anche lui l’orizzonte. «Nelle tue vene scorre il sangue degli Antichi, perciò nessuna creatura su questa terra potrà farti mai del male». Gli aveva sfiorato il viso con una lieve carezza. «Parti e raggiungi le Isole Perdute. Là si compirà il tuo destino: trova ciò che cerchi e torna a noi più forte e portando la pace».

Lamiroth l’aveva stretta forte al petto, e aveva promesso: «Tornerò, madre». Il giorno dopo era partito, con poca fede nella sua missione ma col cuore pieno di speranza.

Così riflettendo, era giunto al limite della foresta. Si volse a lanciare un ultimo sguardo agli uomini della Veela, poi abbandonò la spiaggia assolata per inoltrarsi nel cuore del bosco.

L’interno dell’isola era straordinario almeno quanto il mare che la circondava. Lamiroth avvertiva una strana eccitazione, nonostante il nervosismo. Forse adesso aveva un po’ più di fiducia nel suo viaggio: era riuscito a superare indenne le illusioni del Mare Nero e aveva raggiunto le Isole Perdute, che non comparivano più su nessuna mappa da secoli. Se le profezie erano attendibili, la sua ricerca era giunta quasi al termine.

Tutti ottimi motivi per tenere alto il morale, pensò.

Gettò uno sguardo tra le ombre verdi che parevano attenderlo: era come se un incantesimo avvolgesse il sentiero che si perdeva nell’intrico della foresta e da quel labirinto provenisse un mormorio di fronde che lo invitava ad avanzare.

«Coraggio, Lamiroth. Ce l’hai quasi fatta». Parlò ad alta voce, per farsi coraggio, e i rami più alti si agitarono, come a far eco alle sue parole.

Non si accorse subito che c’era qualcosa di strano. Aveva lasciato dei segni lungo il percorso, per evitare di perdersi sulla strada del ritorno, incidendo le cortecce degli alberi con simboli diversi.  Poi cominciò a incontrare sulla sua strada i segni che avrebbero dovuto trovarsi alle sue spalle. Dapprima pensò che qualcuno prima di lui avesse attraversato la foresta usando il suo stesso metodo per non smarrire la via. Ma quando incontrò per la seconda volta le sue iniziali incise sul tronco di un frassino si arrestò, perplesso.

Riprese a camminare, più adagio, prestando attenzione a ciò che lo circondava. E dopo alcune centinaia di passi fu di nuovo davanti al frassino che aveva segnato. Avanzava, ma era come se il sentiero si protendesse in un cerchio infinito che lo conduceva sempre nel medesimo punto della selva, quasi che gli alberi stessi tentassero di allontanarlo da ciò che stava cercando.

Si fermò a riflettere, incerto sul da farsi. Non poteva fallire, la posta in gioco era troppo alta. Trasse un respiro profondo, alla ricerca di una concentrazione che la paura cercava di disperdere, e si osservò intorno. L’albero maestro della Veela svettava oltre le cime degli alberi, alle sue spalle. Il sole aveva appena raggiunto il punto della sua massima altezza e lui si trovava di nuovo all’ingresso del bosco, come se non si fosse mai spostato da lì. Faceva molto caldo. Era un posto incredibile, eppure quella bellezza pareva rifiutarlo.

Lamiroth considerò per un istante l’idea di abbandonare il sentiero, ma gli tornarono in mente le parole di El’hedryn.

«Cose pericolose si nascondono nell’isola. Ma se resti sul sentiero, nulla ti farà del male».

S’incamminò ancora una volta lungo la strada tracciata. Da quel punto in poi la foresta sembrava volersi chiudere sopra di lui, intrecciando i rami in modo che persino il sole restasse fuori. Al suo passaggio, fiori di una bellezza minacciosa e bizzarra lo sfioravano, tentandolo con acute fragranze. Foglie sopra la sua testa bisbigliavano al soffio caldo del vento.

Con il cuore che martellava in petto affrettò il passo, avvolto dai rumori del bosco, finché il sentiero si aprì su un largo spiazzo e quel che vide lo costrinse a fermarsi un’altra volta.

Davanti a lui, il cielo sormontava il mare aperto e una piccola spiaggia di sottile sabbia bianca, incorniciata da rupi frastagliate, come un enorme arco blu.

«Cammina lungo la spiaggia» aveva detto El’hedryn. «Quando verrà il momento, capirai di aver raggiunto la meta».

Ancora dubitava di riuscire a trovare il talismano affidandosi alle indicazioni dell’Alvar, tuttavia rivolse il viso al vento e cominciò a camminare. In fondo aveva dubitato persino di riuscire a superare il Mare Nero e di trovare le Isole Perdute. E poi, fino a quel momento, tutte le indicazioni di El’hedryn si erano rivelate esatte.

Trascorse molto tempo prima che percorresse l’intera spiaggia e giungesse alla punta, dove la sabbia lasciava il posto a una minacciosa scogliera di pietra scura. Lanciò uno sguardo indietro, verso il sentiero che sbucava ben visibile dal fitto intrico della foresta, per assicurarsi ancora una volta di riuscire a ritrovare la strada, poi rinfoderò la spada e proseguì, avventurandosi con cautela sugli scogli. Il sole era caldo e non c’erano suoni, tranne i gabbiani, l’acqua e il vento.

La sua attenzione fu attratta da una fessura che si apriva nella parete di roccia, poco più in basso. Si calò nella rientranza e trovò la via sbarrata da una grata di ferro che aveva l’aria di essere lì da secoli. Afferrò la sbarra e tentò di rimuoverla. Niente da fare: era incassata nelle profondità della pietra e incrostata di ruggine e salsedine. Si avvicinò per guardare nella cavità e non vide altro che una caverna angusta, a malapena illuminata dai pochi raggi di sole che riuscivano a raggiungerne l’interno.

All’improvviso qualcosa in fondo alla grotta brillò. Incuriosito, Lamiroth afferrò le sbarre cercando di individuare la fonte dello scintillio. Non riusciva a vedere nulla, tranne le luci multicolore che scivolavano sui muri di granito. L’emozione gli bloccò il respiro: i riflessi cangianti somigliavano in modo impressionante a quelli che aveva visto nelle vasche dei sapienti.

Ce l’ho fatta!

Tentò un’altra volta di rimuovere la grata, ma riuscì solo a procurarsi altri graffi sulle mani. S’inginocchiò, deciso a non arrendersi, e ripulì il pavimento intorno al punto in cui le sbarre erano infisse nel terreno. Estrasse il coltello che portava fissato alla coscia e iniziò a grattare la pietra.

Quasi non si accorse che il sole aveva cominciato a declinare per immergersi lentamente nel mare. Aveva le mani scorticate a sangue, ma dopo l’ennesimo tentativo finalmente la grata si mosse, premiando i suoi sforzi. Stridendo e raschiando contro la pietra, l’inferriata scivolò fuori dalla sua sede. Lamiroth la gettò di lato, e quella cadde sul pavimento con un sordo suono metallico che rimbalzò sulle pareti della grotta fino a estinguersi nelle viscere della terra.

Con estrema prudenza, il giovane avanzò verso l’oggetto adagiato nella cavità di una roccia. Non ebbe più alcun dubbio.

Il talismano degli Antichi!

Le sfumature di colore che si riflettevano cangianti sulle pareti della grotta gli ricordarono un arcobaleno. Sfiorò l’amuleto con la punta delle dita. Era freddo, al tatto, e liscio come il marmo.

«Sembra proprio un uovo» mormorò; lo prese con delicatezza tra le mani e lo sollevò, constatando con sorpresa quanto fosse leggero. Poi i suoi pensieri furono spazzati via. Qualcosa gli esplose nella testa, e ogni fibra del suo corpo parve incendiarsi.

C’era una creatura all’interno del guscio, la cui essenza si fuse per un istante con l’anima di Lamiroth.

Stordito, il principe di Regno Sabbioso riuscì a poggiare di nuovo la cosa sulla roccia; indietreggiò, cadde sul pavimento e giacque ansimando.

Nulla nella sua vita l’aveva mai preparato a quell’esperienza. Ciò che aveva scorto per un breve momento andava al di là di ogni conoscenza. Incredulo, posò di nuovo lo sguardo sull’uovo. Gli Antichi l’avevano nascosto per secoli e ora lui poteva vedere con chiarezza ciò che era contenuto in quel guscio multicolore, aveva percepito la sostanza del suo cuore immortale. Il talismano destinato a salvare il mondo non era un oggetto.

Una fenice.

Lamiroth sentì le lacrime salirgli agli occhi. Era piccolo e vulnerabile davanti a quella creatura leggendaria, fatta di fuoco e di luce, ma adesso sapeva che assieme avrebbero potuto ricacciare indietro l’oscurità dilagante su Talamh Mòr.

Con uno sforzo enorme, si rialzò, si tolse la camicia e l’avvolse intorno all’uovo, attento a non toccarlo direttamente. Tenendo l’involucro stretto al petto, uscì dalla grotta e si avviò deciso verso il sentiero che lo avrebbe riportato alla Veela. La foresta era quasi scomparsa, inghiottita dalle ombre del crepuscolo, ma Lamiroth non ebbe timore di attraversarla: la luce che lui portava, nessun buio avrebbe mai potuto soffocarla.

*

La nave divorava le onde, con il vento a riempire le vele.

Navigò di notte sotto il cielo stellato e di giorno nel riverbero del sole, senza mai fermarsi. Presto la costa dorata del Regno Sabbioso fu all’orizzonte.

Lamiroth non osava credere di aver compiuto la sua missione in così poco tempo. Aveva trascorso gran parte del viaggio rinchiuso nella sua cabina, perso nella contemplazione del guscio dai colori cangianti che aveva portato via dalle Isole Perdute. Da quando la creatura gli si era mostrata, non era stato in grado di fare altro.

«Sei davvero il Talismano?».

Le aveva parlato senza attendersi nulla, riflettendo con sé stesso. E lei gli aveva risposto, con una strana voce che gli risuonò nella mente come fruscio di seta.

Lo sono. Ma non sono come tu pensi debba essere il Talismano degli Antichi.  Assumerò una forma che non immagini. È necessario, affinché io possa rinascere dalle mie ceneri con il mio vero aspetto.

Dopo un primo momento di stupore, Lamiroth evitò di soffermarsi sul fatto che discutere mentalmente con una fenice racchiusa dentro a un uovo non fosse una cosa usuale. Nemmeno la nube di oscurità che si avvicinava da sud lo era.

«Non abbiamo molto tempo. Talamh Mòr ha bisogno di te subito. Quando accadrà?»

La voce sembrò divertita.

Piccolo umano impertinente. Non posso comandare alla fenice di rinascere quando lo decidi tu. Accadrà, quando sarà il momento. Ci fu una pausa, che a Lamiroth apparve come un assurdo raccogliere le idee, poi la creatura parlò ancora. È come un cerchio, in cui la fine si salda all’inizio e tutto può ricominciare.

«Non so nulla di te. Come posso essere sicuro che non mi stai imbrogliando? Non puoi pretendere che io accetti di aspettare qualcosa che potrebbe non accadere mai».

In quel momento, dalla coffa calò il grido dell’uomo in vedetta: «Terra in vista!».

E ogni discorso fu rimandato.

*

A Regno Sabbioso il ritorno della Veela non era atteso così presto. La nave entrò nel porto alle prime luci dell’alba.

Affacciata alle bianche finestre, la regina vide suo figlio sbarcare e seguì i suoi passi nel tratto che separava il mare dagli alberi che circondavano il palazzo. Lamiroth era sceso dal ponte tenendo un fagotto tra le braccia e lei esultò nel notare con quanta cura il ragazzo lo trasportasse. Era il Talismano degli Antichi, non ebbe dubbi in proposito. Esisteva ed era stato suo figlio a ritrovarlo.

Quando Lamiroth inciampò in una radice e cadde, l’angoscia le strappò il cuore. Che andò a infrangersi sul terreno in una miriade di schegge lucenti assieme al prezioso fardello.

*

Se Lamiroth non lo avesse visto con i suoi stessi occhi, non ci avrebbe creduto. Il guscio era esploso in una luce abbagliante che lo aveva quasi accecato. Quando recuperò la vista, pensò di essere impazzito.

La creatura ricoperta di una sostanza viscida e luminescente, rannicchiata sull’erba in mezzo ai frammenti multicolore di quello che era stato l’uovo della fenice, era una ragazza.

Aveva la pelle chiara e una massa di capelli rossi sparsi in modo disordinato a ricoprire quasi totalmente la sua nudità. Teneva gli occhi chiusi. Quando alzò il viso in direzione del sole, parve illuminarsi. Un alone aureo la avvolse come un mantello, mentre tendeva le mani verso il disco di fuoco, senza riaprire gli occhi e con i palmi aperti. All’improvviso, quasi a voler afferrare la stella, strinse i pugni e li portò al cuore. Poi, con un movimento fluido e lentissimo, volse il capo verso Lamiroth e sollevò le palpebre.  Il principe ebbe un sussulto e si ritrovò, sconvolto, a fissare occhi dorati come raggi di sole, mentre un brivido gli faceva rizzare i capelli sulla nuca nonostante l’aria tiepida. Con un gesto impercettibile, fece scivolare nella mano il pugnale che portava nascosto nella manica. Strinse la presa e in quel momento un fruscio – come di seta – risuonò nella sua testa.

Ora capisci cosa intendevo?

Incapace mettere ordine nel caos che gli era esploso nella mente, il principe perse i sensi.

*

Lamiroth si risvegliò sotto lo sguardo preoccupato di sua madre. Al fianco della regina, il Gran Sacerdote lo esaminava con aria grave.

«Stai bene, principe?».

Lo sguardo del giovane vagò per la stanza in penombra. Tende di un tessuto leggero ondeggiavano al soffio del vento. Lamiroth fissò sua madre.

«Dov’è?».

La regina esitò per un istante, scambiò un’occhiata col Gran Sacerdote, poi abbassò gli occhi sulle mani, che teneva intrecciate in grembo.

«Nelle segrete».

Lamiroth si alzò, senza proferir parola, e uscì dalla stanza, ormai perfettamente guarito.

*

La prigione più segreta della città era scavata nelle profondità della terra, dove la luce del sole arrivava soltanto attraverso piccole feritoie incise sulle volte. Il principe oltrepassò sbarre e percorse lunghi corridoi, poi, davanti a una pesante porta di ferro, si fermò.

C’era un uomo di guardia, massiccio e coperto da una robusta armatura. Un’orrida cicatrice gli divideva in due il volto, rendendo ancora più inquietante il suo aspetto. «Non sembra pericolosa» sussurrò, come se avesse timore di alzare il tono. «Io sarò qua fuori, mio signore».

L’angoscia sottile intessuta in quelle parole – in netto contrasto con l’aspetto truce del carceriere – afferrò Lamiroth alla bocca dello stomaco.

«Se serve, chiederò il tuo aiuto» disse, superando ogni incertezza. Gli parve di scorgere un lampo di preoccupazione negli occhi dell’uomo. Subito dopo, la porta cigolò e poi si chiuse con un tonfo alle sue spalle, gettandolo nel silenzio della prigione.

Per diverso tempo non fu in grado di scorgere nulla. Sottili lame di luce penetravano dalle aperture sul soffitto ma non arrivavano a disperdere le ombre. La cella pareva deserta. Non si udivano rumori, tranne il suo stesso respiro.

Passò in rassegna la stanza, finché notò, nell’angolo alla sua destra, un lieve chiarore. Cercò di mettere a fuoco la sagoma appiattita contro la parete di pietra., ma la luce era troppo debole. Fece qualche passo in quella direzione, si arrestò e smise di respirare.

Se si fosse trovato di fronte un orco o persino un drago probabilmente non sarebbe stato così sconvolto. Davanti a lui, rannicchiata contro il muro, con le ginocchia strette al petto e un’aria terrorizzata dipinta sul viso, stava la ragazza dell’uovo.

Era proprio come la ricordava. Molto giovane, una massa di capelli rossi che scendeva a coprirle tutta la schiena. Le avevano fatto indossare una tunica di jathä; il tessuto aveva un colore incerto, tendente al verde, e un aspetto lucente e serico. La pelle della prigioniera aveva uno strano riflesso, quasi opalescente: era stata quella luminescenza ad aver attirato la sua attenzione. A parte quello che credeva di aver visto nella grotta sulle Isole Perdute, la ragazza aveva in tutto e per tutto le sembianze di un essere umano. Un brivido gli corse lungo la schiena.

«È davvero possibile?». Troppe domande senza risposta. «Chi sei?».

La creatura spalancò su di lui gli occhi, e l’oro nel suo sguardo lo fece sobbalzare. Lamiroth non si mosse.

«Chi sei?» ripeté in un soffio.

Ebbe la sensazione che una carezza vellutata gli sfiorasse la mente, ma non si rese subito conto di ciò che stava accadendo. Sbatté le palpebre, mentre quegli occhi implacabili restavano fissi nei suoi. Dopo qualche istante, dentro la sua testa, lei parlò. Aveva una voce morbida e profonda.

Tu sai chi sono.

Lamiroth fece un passo indietro.

«È impossibile». La voce nella sua testa rispose.

Voi umani chiamate sempre impossibile ciò che non riuscite a comprendere.

Il giovane si piegò verso di lei, avvicinando il viso al suo.

«Non puoi essere tu la creatura che ho visto nell’uovo». Non c’era timore nella sua voce. La mano della donna scattò e gli afferrò un polso. Sulla pelle abbronzata del principe cominciò a formarsi il segno di una bruciatura. Lei lo trasse più vicino, continuando a fissarlo con le iridi dorate e a parlargli nella mente.

Tu sai che sono io.

Lamiroth aveva ancora chiaro il ricordo delle immagini che gli avevano riempito la testa quando le sue dita avevano sfiorato per la prima volta l’uovo della fenice. Enormi ali multicolori che splendevano come il sole, riflettendo ogni colore presente nel mondo. Sospirò.

«Quello che ho visto sull’isola era il tuo vero aspetto?».

In un gesto molto umano, la ragazza fece cenno di no.

Non credo che riusciresti a sopportare la vista della mia vera forma. Non ancora.

Lamiroth deglutì.

«Sei così orribile?» Non riusciva a immaginare che lei potesse avere un aspetto orribile.

Non so come potresti definirlo. Sembrò riflettere. Ma spaventoso potrebbe essere un termine adeguato.

Lui era piuttosto scettico.

«Sei sicura di sapere cosa significhi per me spaventoso?».

La ragazza volse lo sguardo altrove, senza rispondere per diversi battiti del cuore.

Sono stata nella tua mente e nei tuoi ricordi. Quella strana voce era come velluto. Sì, credo di saperlo.

Lamiroth non si era ancora abituato a quel bizzarro modo di comunicare.

«Mettiamo che io ti creda. Che tu sia realmente il talismano degli antichi». Una strana sensazione gli fece drizzare i capelli sulla nuca. «Hai un nome?».

Chiamami Fenis.

Ebbe la percezione che lei gli avesse consegnato, con quel nome, un segreto potente. Continuava a guardarla e non riusciva ancora a credere che quella ragazzina impaurita dalla pelle luminosa fosse ciò che diceva di essere. Il destino del mondo dipendeva davvero da quella creatura? Gli parve che una lacrima brillasse dentro l’oro liquido del suo sguardo. E un tepore, come una carezza, avvolse i suoi pensieri sciogliendo dubbi e paure come neve al sole. Decise di fidarsi.

«D’accordo. Sei il Talismano. Che cosa succederà, adesso?».

È strano, non trovi? ribatté lei, lasciandolo andare. Si abbracciò le ginocchia e chiuse gli occhi. Sebbene gli umani pensino a me come a un essere divino, che ha su di loro potere di vita e di morte, io non posso fare a meno di loro.

Il marchio lasciato dalle dita sottili sul braccio bruciava in modo atroce, ma Lamiroth restò immobile.

Vattene. Fuggi lontano da me, il più lontano possibile. Gli occhi dorati s’infissero nei suoi. Lo capisci, vero? È solo l’inizio.

Lui si fece più vicino.

«Andarmene?». Lo disse con ironia, come se la ritenesse la cosa più assurda mai udita. «Non ne ho la minima intenzione. Verrai con me, fino ai confini del mondo, per combattere contro l’oscurità che sta divorando questa terra. Tu sei la luce che può salvarci».

Tutto questo porterà morte e dolore.

Lamiroth insisté.

«Ma Talamh Mòr sarà salva». Le sollevò il mento, in modo che lo guardasse negli occhi. «E poi tu sei un essere divino. Non puoi morire».

Oh, ti sbagli. Gli parve che la voce si velasse di tristezza. Quando non avrete più bisogno di me, morirò. È così che funziona.

Lui non volle ascoltare altro.

«Mi aiuterai, Fenis?».

Lei non rispose. Lo allontanò e si alzò, piano. La catena agganciata al ceppo che le stringeva la caviglia produsse un sinistro clangore e i capelli le scivolarono addosso, ricoprendola come un manto. Le parti che la rozza tunica lasciava scoperte – il volto, le braccia, i piedi – brillarono. Un fascio di luce disperse le ombre che opprimevano la cella e investì Lamiroth; la pelle del suo viso bruciò, come se fosse esposta a un sole troppo forte.

Non ho altra scelta.

Allora il giovane si avvicinò alla porta.

«Guardia!».

L’uomo entrò con la spada sguainata, ma fu costretto a lasciarla cadere per coprirsi gli occhi, abbagliato dallo splendore che invadeva il cubicolo.

«Liberala» ordinò il principe.

Il mondo, adesso, aveva una speranza.

Rispondi

%d