Howard, un guerriero del Walhalla

Articolo tratto dal sito Centro Studi La Runa, relativo al libro di Mariella Bernacchi Viaggio nel fantastico. La narrativa dell’immaginario dal punto di vista simbolico, Centro Studi La Runa, Chiavari 1997.

Il presente articolo era stato pubblicato in prima battuta su Yorick n. 4-5 1989. Risultò secondo classificato nella sezione articoli al Premio Italia 1989.


17988Ho letto e riletto più volte, restandone sempre in egual modo affascinata e trascinata in dimensioni correlate a tempi dimenticati, Guerrieri del Walhalla, una storia purtroppo ancora inedita in Italia, pubblicata postuma negli Stati Uniti e apparsa nel 1986, in Spagna su iniziativa della casa editrice Martinez Roca (S.A. Gran Via 774, 7?, 08013 Barcellona), che l’ha inclusa nell’antologia El valle del Gusano, raccolta che prende spunto dal racconto La valle del verme, dato alle stampe pure nel nostro Paese dalla Nord, unitamente al pregevole volume Skull-Face. Lo scritto fa parte di uno fra gli ultimi cicli ideati da Robert Ervin Howard prima della morte.

Weinberg e Blosser, appassionati ricercatori e apprezzati critici della produzione howardiana, hanno coniato per questa serie (composta, come ci comunica dagli Stati Uniti Glenn Lord, da The Garden of Fear, Marchers of Walhalla, The Valley of the Worm, Brachan the Kelt, nonché da un breve frammento frequentemente identificato con il titolo di Genseric’s Son, cui si aggiunge un altro racconto completato da Lin Carter, The Tower of Time) la didascalia di “Ciclo della memoria razziale”, o, se preferiamo, “Del ricordo ancestrale”. Detto ciclo, o serie, prende forma solamente due anni prima del suicidio dell’autore ed esprime il profondo disgusto per la realtà in cui vive, sensazione che lo porta ad identificarsi in un discendente di una stirpe di intrepidi barbari, fautori di gesta eroiche, quasi sovrumane. Il protagonista è James Allison, un texano reso infermo da un male incurabile, che nei frequenti delirii rivive esperienze passate, vite il cui filo conduttore è l’appartenenza dell’eroe alla stirpe celtica.

E’ da evidenziare, nonostante l’alter-ego di James Allison trovi morte eroica in mille battaglie della storia e della preistoria fantastica, come sia presente la sensazione di una proiezione verso un eterno futuro quale entità spirituale, ben al di là degli infinitesimi limiti dell’involucro fisico. Non a caso, Howard era l’amico di Howard Phillips Lovecraft, immaginifico cultore di esoterismo e del senso dell’abissalità cosmica del tempo, e cosciente pure dell’occultista, nonché scrittore, Frank Thurston Torbett, col quale collaborò al racconto Un suono di tromba.

E fu, con molta probabilità, proprio Frank Thurston Torbett che gli presentò la dottrina3477422 della reincarnazione come soluzione esistenziale e spunto letterario. Risulta palese quanto James Allison, immobilizzato nel presente, sia una proiezione del disagio di Howard, confinato nella solitudine della piccola Cross Plains, cittadina sperduta nelle montuose e polverose pianure del Texas. La fantasia dell’autore, viceversa, galoppa vertiginosamente nei millenni, creando mondi – seppure mai esistiti – pervasi da un’incredibile concretezza e coerenza, al punto di assumere tangibili contorni per lo stesso creatore, che può così sfuggire a una vita solitaria e poco ricca di presenze femminili, se si esclude quella determinante della madre. Infatti, sua unica fidanzata, a quanto ci è dato sapere, fu una tale Novalyne Price, di professione insegnante, che ha scritto un libro dal titolo Robert Howard: A Man Who Walked Alone.

James Allison, pur menomato dalla mancanza di un piede, non rinucia a lunghe e solitarie passeggiate in uno scenario texano, che Howard descrive lugubre, desertico, angosciante. Ed è durante una di queste escursioni che il protagonista incontra una ragazza sconosciuta, bella e inquietante, la quale lo aiuta nel ricordare l’antica identità, l’arcaica storia misteriosa di quei luoghi. Dove oggi si stendono le brulle praterie texane, in tempi memorabili v’era un antico mare, sulle cui rive sorgeva la cupa città di Kemu, abitata da discendenti dell’antica Lemuria. In Howard ogni civiltà s’innesta su tracce ancor più antiche, dando in tal modo inizio a una regressione infinita, che porta a regni dimenticati, razze ritenute scomparse. A Kemu giunge Hialmar, biondo barbaro aesir e i suoi 500 compagni d’avventura della medesima razza, più il pitto Kelka, fidato selvaggio fratello di sangue.

I guerrieri sono i soli superstiti di una migrazione di mille uomini, spinti dal desiderio di avventure e battaglia, durata decine di anni, la quale li ha portati, al passo delle poderose gambe, lungo tutto l’arco del globo, fino alla città fatale. I barbari diffidano, vorrebbero evitarla, ma la brama di razzia è troppo forte. Gli abitanti non reggono il selvaggio assalto, i soldati sono sopraffatti, tuttavia, allo scopo di scongiurare la distruzione e il saccheggio, vengono offerte ai vincitori donne e cibo. L’offerta è accolta e Akkeba, sacerdote e re di Kemu, strabiliato per il valore in battaglia dei barbari, pensa di tessere amichevoli contatti, poiché incombe l’invasione di popoli neri. Ben presto sotto le mura di Kemu il sangue scorre nuovamente a fiumi, i nemici sono respinti e gli aesir trionfalmente accolti in città.

Marchers_of_valhallaHoward identifica genericamente la civiltà urbana con la corruzione e il vizio, e Marchers of Walhalla non fa eccezione. Fra le mura di Kemu, infatti, si praticano culti tenebrosi e sacrifici di fanciulle. Hialmar, addentrandosi in templi affollati da bellissime sacerdotesse, conosce e si innamora di Aluna, una schiava di origine aesir, che rivela come nella città sia rinchiusa la dea vivente Ishtar, alla quale vengono immolate le vittime. Intanto il re Akkeba prepara una trappola mortale per disfarsi dell’orda barbara, ormai divenuta superflua dopo lo sterminio dei nemici.

Imbandisce un pranzo con vino avvelenato, fa trucidare i feriti e circondare il palazzo. Hialmar fiuta qualcosa di sospetto nel banchetto e si precipita a cercare Aluna. Teme per la vita della ragazza, poiché l’ha sottratta a un vizioso sacerdote che si compiaceva nel fustigarla: una perversione erotica, questa, che troviamo in altre opere. Il peggio si scatena. Aluna è trovata morente sull’altare di un tempio, in cui alcune donne l’hanno sacrificata. Prima di spirare, riesce a posare un leggero bacio sulle labbra di Hialmar, e questo, confessa il guerriero, è il solo contatto con l’amore che ha provato in un’esistenza di sangue e battaglie. Traspare nuovamente identificazione con Howard e la sua timidezza con le donne. Eliminate le assassine, torna alla sala del banchetto nella quale infuria il massacro. Procaci cortigiane hanno disarmato gli aesir, tranne il pitto Kelka, refrattario alle femmine ma amante del vino, che mortalmente avvelenato combatte spavaldo e torcendosi per il dolore: le guardie hanno la meglio sugli aesir, Kelka muore da valoroso sotto un cumulo di corpi straziati, al fine di permettere la fuga di Hialmar. Il barbaro, accecato dal furore, cerca la dea vivente Ishtar, alla quale è stata sacrificata Aluna. Una sconcertante rivelazione lo attende: Ishtar, figlia del re del mare, è tenuta segregata, e i sacerdoti – non lei! – hanno perpetrato le nefande offerte umane. Aluna era l’ancella preferita, Ishtar giura vendetta in cambio della libertà. E mentre il tenace aesir affronta la milizia di Kemu, e ormai morente si avventa sul perfido re Akkeba, Ishtar da un’alta torre invoca il padre e la collera divina. Le onde si alzano e un terremoto scaraventa la città nell’abisso: Hialmar muore trafiggendo Akkeba, e il tremendo cataclisma trasforma mare, città e fertile pianura adiacente nel tetro deserto del Texas.

La ragazza si trasfigura, e Hialmar riconosce in lei Ishtar, la déa eterna, adorata attraverso i secoli come Venere, Freiya, Afrodite, Iside, e ritrovata dopo una spirale infinita di decessi e rinascite. Nel volgere dei millenni gli aesir hanno originato i Celti, e questi gli Irlandesi, che emigrando in America vi hanno riportato un sangue antichissimo.

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Per l’ennesima volta Robert Ervin Howard trova identificazione in questo mito. Egli era d’origine irlandese, e dodici irlandesi, tra cui un suo antenato, perirono nell’assedio di Fort Alamo, durante il quale tutti i ribelli statunitensi vennero sterminati dal generale spagnolo Santa-Ana. E, presumibilmente, il fatto storico è alla base di questo stupendo racconto.

In Guerrieri del Walhalla, Howard si inebria nell’eccitazione della battaglia, i combattimenti sono più crudi di quanto non si legga nelle storie di Conan, a volte addolcite, probabilmente, per rendere il prodotto maggiormente commerciale, da Lyon Sprague de Camp, Lin Carter e altri. Ma è questo il vero Howard, febbrile, incalzante, con le sue crudeltà, le città perdute, le bellissime e sfuggenti donne, l’erotismo raffinato, appena lambito. Senza poi tralasciare il senso celtico della saga e la celebrazione della morte eroica, autentico simbolo del superamento dell’umana debolezza e dell’attaccamento alla carne, per gettarsi in imprese impossibili, quasi sempre mortali.

Il Walhalla è il paradiso che gli eroi nordici si guadagnavano solo morendo in battaglia in seguito a ferite al petto o alla fronte. Allora le Valchirie, figlie di Odino, li guidavano tra gli déi, ove attendevano banchettando e duellando il “Crepuscolo degli déi”, il Ragnarökkr. Gli avventurieri aesir, che non rifuggono il fatale appuntamento con la morte, si assicurano quindi questo premio divino, e secondo l’ideale eroico celtico, divengono “Guerrieri del Walhalla”. Non è escluso che Howard spinse all’estremo l’identificazione con il guerriero celta, sino a sacrificare se stesso alla madre, simbolo eterno della Grande Dea Ishtar. E se questo racconto, in realtà, non fosse la sua vita? Un interrogativo innegabilmente suggestivo!

Mariella Bernacchi

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