La Strega è uno dei personaggi antagonisti più celebri e frequenti nelle fiabe e nei racconti del folclore. Eredita molti elementi dalla sua rappresentazione “classica”, come il suo legame con la sfera dei sortilegi, delle nenie magiche e delle maledizioni lascia intuire.
Dopo aver parlato della strix e della striga, è il caso di trattare di una “maga”, nella cui rappresentazione, tuttavia, molti tratti tipici della strega sembrano essere messi in gioco: si tratta di Medea.
La terra di Colchide dà i natali a questa “maga” dell’antichità. Nella tragedia di Euripide, Medea non viene mai definita con un trasparente epiteto che riconduca al significato moderno di strega, ma più volte nel testo si fa riferimento al suo essere “sapiente” ed “esperta di molti mali”. Come le strigae di cui parla Laura Cherubini nel suo lavoro, anche Medea è caratterizzata dalla conoscenza, una conoscenza un po’ più ampia del consueto, ma anche connotata dal “male”.
Medea è nota al grande pubblico per l’assassinio dei due figli avuti da Giasone, il quale, dopo aver rubato al padre di lei il vello d’oro, assistito da Medea stessa, finisce per ripudiarla per sposare Creusa, la figlia del re Creonte. Nella tragedia di Seneca, il filosofo, che era anche un grande e “truculento” drammaturgo, Medea, in collera per il ripudio, decide di vendicarsi.
La vendetta è uno dei tratti peculiari di questi personaggi, che non accettano alcun affronto. E la nostra “strega” antica decide di punire Giasone colpendo quelli che gli stanno intorno, per prima cosa la stessa rivale. Per farlo Medea sceglie lo strumento del “dono avvelenato”, che ricorda la mela di un’altra storia:
ME. Tu, fida nutrice, compagna del mio dolore e delle mie vicende, collabora al progetto di una sventurata. Ho un mantello, dono del cielo, vanto del regno, dato ad Eéta dal Sole come pegno della sua origine; ho anche una collana tessuta d’oro e un diadema, anch’esso d’oro, tempestato di gemme. Sono questi i doni che i miei figli porteranno alla nuova sposa, ma intinti prima di un veleno mortale.
(Medea, 568-576)
Come una matrigna delle fiabe più tetre dei Grimm ,Medea finge di piegarsi al volere di Giasone e di preparare un dono di nozze per Creusa, ma il suo disegno è ben diverso. Il mantello e il diadema saranno imbevuti di un veleno mortale. Ma qual è l’effetto di questo mantello stregato?
ME. Tu ora imbevi le vesti di Creùsa: non appena le indossi, una fiamma serpeggi fin nelle midolla e le bruci. È in agguato nel fulvo oro un fuoco segreto, dono di chi espia il furto fatto al cielo, coi visceri che sempre rinascono, e mi ha insegnato l’arte di nasconderne la forza, Prometeo.
(Medea, 817-39)
Il mantello ha dentro di sé un fuoco divoratore nascosto: indossando la veste, Creusa verrà avvolta tra le fiamme e soccomberà orribilmente. L’oggetto magico del personaggio antagonista è dono di un “aiutante” mitico: Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dèi per venire in soccorso degli uomini. Un furto per punire Giasone, reo di un altro furto, e un dono che è a sua volta frutto di un altro dono. Il contrappasso è sempre in agguato nel mondo antico. Ma perché il maleficio si compia, occorrono anche parole magiche e specifici rituali:
ME. Si invochi Écate. Prepara il sacrificio di morte. S’innalzino gli altari, risuoni in tutta la casa il crepitio della fiamma.
(Medea, 577-578)
Il rito che Medea deve seguire viene chiamato “sacrifico di morte” e perché sia eseguito in modo corretto Medea invoca le creature degli Inferi e una dea specifica: Ecate. Ma chi è questa divinità cui la donna sembra affidarsi?
Ecate è una dea spesso confusa con Artemide e associata alla Luna, una delle più antiche divinità, persino più antica di Zeus, che infatti la rispetta e la tutela. Governa il cielo, la terra e il mare, estendendo i suoi poteri di benefattrice o distruttrice su ogni campo, diversamente dagli dèi olimpici, che sono più “giovani” di lei. Medea sceglie di affidarsi a Ecate in virtù della sua caratterizzazione come nume che presiede ai rituali magici, legata al mondo delle Ombre e capace di invocarle. Anzi, secondo alcune credenze, Ecate è l’inventrice della stregoneria, la divinità protettrice di maghi e streghe, ai quali appare con torce accese nelle mani o sottoforma di diversi animali.
Nel mondo antico esistevano dei luoghi considerati “stregati” o “magici” per antonomasia, e fra questi vi erano i crocicchi. Ecate ne era la signora. Chi voleva invocarla o tenerla buona, innalzava una sua statua all’incrocio di un quadrivio. Nelle campagne ve ne erano moltissime.
Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare: Medea ed Ecate sono parenti, e lo sono tramite un’altra celeberrima figura di “maga ammaliatrice”: Circe, colei che tramutò i compagni di Ulisse in porci con una “bacchetta magica”. Secondo la tradizione, è zia di Medea in quanto sorella del padre di lei (per altri addirittura madre) e figlia di Ecate. Così le tre maghe vengono inserite in una stessa famiglia.
Seneca compone la sua tragedia “Medea” pressappoco nel I sec. d. C. Esiste un’altra tragedia, molto famosa, temuta perfino a causa di una qualche superstizione (si dice che porti sfortuna nominarla). Una tragedia che si apre con la figura di tre Streghe che intonano formule magiche, come tre Furie, o al pari delle Parche che filano i destini e le vite degli uomini. E a queste tre fattucchiere, intente a preparare intrugli malefici in un calderone, appare nel bel mezzo del dramma una dea a noi nota, proprio lei: Ecate! Così si rivolge loro:
ECATE: Lodo il vostro lavoro e perciò
vi ricompenserò. Come fate
ed elfi ora cantate
intorno al calderone,
che il sortilegio giunga a conclusione.
Ecate appare per favorire il maleficio delle tre Streghe, o qualunque azione stiano macchinando, come se fosse la loro protettrice. Ecate invoca le fate e gli elfi, ed entra in scena, lo dice il poeta, accompagnata da uno stuolo di streghe. Gli elfi, addirittura, che non sono noti all’antichità classica e appartengono a un repertorio mitico nordico (forse, un giorno ci torneremo…)
Ma sapete qual è la terra che, secondo le leggende, ospita allo stesso tempo fate, streghe ed elfi? Non è la Grecia di Euripide o la Roma di Seneca, né quella Spagna dove il filosofo era nato. Si tratta della Scozia.
Questa è la tragedia scozzese per eccellenza, di un autore che forse credeva ai sortilegi o forse no, poco importa, il buon William, sì proprio lui, proprio Shakespeare. Shakespeare amava molto Seneca e le sue tragedie, al punto da riproporne una nel suo Tito Andronico. Ecate si trova nel suo “dramma scozzese” come anello di congiunzione tra i miti di quella terra, brulicante di elfi e streghe, e quelli classici che William conosceva, nella loro versione più tarda, probabilmente. La traduzione dall’inglese è quella di un grande del nostro teatro e anche del nostro cinema, Vittorio Gassman. Della tragedia in questione non vi dirò il nome, che ormai mi par quasi di aver rivelato, ma vi citerò i versi più celebri:
la vita è soltanto
un’ombra errante, un guitto che in scena
s’agita un’ora pavoneggiandosi, e poi
tace per sempre: una storia narrata
da un idiota, colma di suoni e di furia,
senza significato.
Lavinia Scolari