La violenza, celata sotto il nome di “spada”, è uno dei cardini su cui si muove gran parte della narrativa Sword&Sorcery.
Le avventure e le storie che siamo soliti catalogare in questo filone presuppongono infatti una dose ben evidente di violenza, opportunamente inserita in vesti letterarie acconce.
Cosa significa questo? La violenza, o più genericamente “lo scontro”, non sono forse, molto semplicemente, la base del racconto d’avventura, e quindi anche dello S&S?
La risposta più semplice potrebbe essere che, sì, in fondo ci troviamo di fronte esclusivamente ad una estremizzazione di un topos inevitabile, l’utilizzo speziato di un ingrediente ben noto; non ci sono forse morti e feriti anche nei vecchi romanzi di cappa e spada? E il sangue non scorre forse anche in storie fantastiche che certo non sono S&S ?
Ovviamente, di nuovo, la risposta è affermativa.
Eppure qualcosa che rende diversa, in termini narrativi ma non solo, la violenza presente nelle opere S&S c’è: il suo essere un mezzo estetico, e il suo senso morale. Fattori, questi, che ci portano ad affermare che la violenza in questione abbia un ruolo ben preciso, calibrato di volta in volta in maniera diversa, ma sempre rilevante.
Prendiamo ad esempio due dei più famosi personaggi di R.E.Howard, Conan il Cimmero e Kull di Valusia.
Nelle loro storie il sangue, la violenza e la morte sono quasi onnipresenti, se non nelle dirette vicende dei protagonisti, quantomeno sullo sfondo delle loro avventure.
Il modo in cui si dispiegano nell’economia dei due è simile, ma differente. In Conan la violenza emerge come forza vitalistica connaturata alla barbarie, una energia che negli uomini civili è degenerata in crudeltà, ed assume connotazioni morali palesemente diverse: Conan uccide anche per scopi individuali, e non certo per mera autodifesa, ma la sua violenza è quasi impersonale, priva di odio, simile a quella di una belva feroce che è stata provocata. Amorale, insomma.
I suoi nemici sono invece spesso schiavi del gusto del sangue; avendo assaporato il frutto proibito della civiltà, sono consci dell’abisso che separa bene e male, e a vario titolo scelgono scientemente il secondo.
Il caso di Kull è ancora diverso. Catapultato dal fato in un ruolo che spesso gli risulta incomprensibile, re Kull – al pari dei suoi contemporanei – usa la violenza con maggiore facilità dei pur rudi uomini dell’Era Hyboriana. Nella sua età ferrea, l’ebbrezza del sangue è comune, e ancor più slegata da qualunque considerazione etica. In circostanze laddove Conan, qualora non in pericolo di vita, avrebbe la fronte aggrottata da un pur flebile dubbio morale, Kull agisce spinto da una primordiale sete di sangue che lo rende davvero poco distinguibile dalle maschere omicide dei suoi nemici.
Nel suo mondo primevo, bene e male sono concetti ancora senza nome, e l’onore – che è ciò che conta – si fonda sul sangue versato, senza esserne intaccato.
In entrambi i casi citati comunque, la componente estetica della violenza è fondamentale: descritta con pennellate vigorose e sgargianti, finisce con l’assumere un ruolo quasi “cinematografico”, visualmente imponente, anche grazie ad un linguaggio secco e potente. Così avviene per Conan straziato dalla crocifissione, o per il sangue che imbratta le pareti dopo che Kull ha compiuto un massacro: può far inorridire per un attimo, ma il lettore è tentato più di ammirare la grandiosità del quadro che le sue sfumature etiche. In Howard bene e male esistono, e contano, ma il loro sbilanciamento ha anche una funzione estetica.
Questa tendenza ha il suo compimento in Clark Ashton Smith, uno degli autori caposaldo del genere, che alcuni oggi indicano come iniziatore di un filone più oscuro di S&S; certo è che la cornice di Smith, resa in un linguaggio magniloquente e per certi versi affine ad alcuni percorsi lovecraftiani, dona alla violenza un flavour quasi esclusivamente estetizzante.
Tutte considerazioni, queste, che vengono spesso ribaltate nella visione di altri autori, dove la violenza e il sangue assumono valenze assai diverse.
Pensiamo ai personaggi di Jack Vance, così poco abituati al sangue, eppure pronti a sfoggiare un disarmante e cinico sorriso di fronte alla realtà della morte, quasi irridessero l’ingenua innocenza di alcuni lettori.
Il loro comportamento pare sottintendere, al pari di quello di eleganti dandyies d’antan, che essi conoscano il segreto che si cela dietro l’inevitabilità del dolore e della violenza, e che giudicano inutile, se non noioso, preoccuparsene troppo. Ecco perché i maghi rivali del Meraviglioso Rhialto – come egli stesso, del resto – infliggono con i loro incantesimi i peggiori tormenti senza battere ciglio.
Proprio per questo, la morte di un personaggio viene descritta da Vance in termini allusivi, quasi con una strizzata d’occhio, senza soffermarcisi troppo. La violenza sfuma in un contesto più ampio, dove conta il prosieguo della narrazione, e non chi in esso viene raccontato.
Preoccupazioni e afflizioni costituiscono invece l’essenza di un personaggio totalmente diverso, e cioè Elric, il principe albino di Melnibonè.
Al pari degli uomini “veri”, Elric è completamente conscio della ricaduta morale dell’uso della violenza. Nel suo mondo, dei e forze soprannaturali sono presenti personalmente, ma altrettanto palemente amorali: Caos e Legge non offrono appiglio alcuno a chi volesse in essi trovare un riferimento tramite cui orientare le proprie azioni, ed Elric stesso finisce per diventare, tramite Tempestosa e la sua sete d’anime, dipendente da una violenza che lo disgusta ma di cui non può fare a meno. Di più: la violenza che Tempestosa gli permette di porre in atto, si rivela col tempo essere solo uno dei tanti “lati segreti” della personalità del Lupo Bianco; al di là di ogni alibi, la spada del Caos fa emergere l’altro grande caos che è l’anima sfaccettata di Elric, la vera fonte di quella dipendenza, di quel legame. Elric scopre con orrore di aver sempre avuto, come noi, un’altra scelta.
E’ per questo che, quando leggiamo Moorcock descriverci gli strazi operati dalla lama infernale, vediamo in controluce degli strazi spirituali. Tempestosa si apre una via non solo nelle viscere carnali degli uomini, ma anche nelle viscere dello spirito, abissi che la scrittura nervosa di Moorcock presenta come visioni lisergiche mai del tutto comprensibili a chi non ha compiuto lo stesso “viaggio”. In questo senso, mostrare Elric che uccide, offre a Moorcock la possibilità di mostrare in quale maniera egli intenda il dispiegarsi dei conflitti interiori, e il nostro troppo rapido passare dallo sgomento per i nostri errori all’abitudine del Male.
Alla luce di questi esempi, si coglie come lo S&S abbia un approccio alla violenza complesso, stratificato, che utilizza la “spada” al di là della sua immediata – e pur necessaria e non certo disprezzabile! – funzione pulp. La violenza diventa il tramite narrativo per esporre visioni del mondo non tradizionali, usando linguaggi diversi, che oltrepassano il discrimine estetico del realismo (o presunto tale) verso cui è poi degenerata, perdendo in sense of wonder, tanta scrittura sedicente fantastica.
Il gusto attuale, purtroppo, è però ormai in larga parte desensibilizzato non tanto alla descrizione della violenza (che non è certo una novità) quanto alla capacità che ha il suo utilizzo narrativo di stupire, stimolare, affascinare offrendo una comprensione inedita dell’avventura.
Il sangue è diventato un corollario neutro della narrazione: appaga un desiderio immediato, ma ha perso peculiarità estetica e peso intellettuale. Si uccide – o meglio i personaggi uccidono – perché si deve, insomma, come se il racconto fosse la trasposizione romanzata, con qualche iperbole, di un fatto di cronaca.
Ma niente paura: per chi, riposto con qualche fatica l’ennesimo volume di “fantasy per adulti” sullo scaffale, dovesse iniziare a sentire il peso della noia e della ripetitività, le vecchie armi dello S&S sono sempre a disposizione. Un po’ impolverate, un po’ trascurate; ma dalla lama ancora bene affilata.
Andrea Gualchierotti