Condividiamo un interessante articolo dedicato al fantasy orientale scritto Davide Mana e apparso su Strategie Evolutive.
Buona lettura.
Curiose coincidenze.
Ho appena ricevuto la mia copia della riproduzione anastatica del primo volume di Oriental Stories, datata Ottobre-Novembre 1930.
Ho già parlato delle riproduzioni targate Wildside Press, e la strana meraviglia che si prova nel ritrovarsi fra le mani un pulp d’antan, illustrazioni, pagina della posta, pubblicità e tutto.
La coincidenza è che ieri sera, chiacchierando con alcuni amici, ho avuto la ventura dis coprire ciò che viene spacciato ai lettori nazionali per oriental fantasy.
Ed è vero che io non uso spesso l’espressione “raccapriccio” – ma “raccapriccio” rende abbastanza bene l’idea.
Ora, non confondiamoci – chiunque è libero di scrivere e di leggere ciò che preferisce.
E se ci sono persone così malamente conciate da sdilinquirsi per romanzi patetici su prodi guerrieri dai nomi improbabili, che si innamorano di diafane fanciulle dai nomi ancora più improbabili, in un mondo fatato in cui si mangia con le bacchette, ci sono gli oni anziché i più banali orchetti, e si praticano religioni confuse ma “molto mistiche”… beh, affar loro, no?
Ciò che mi urta è che per questo ciarpame – perché di ciarpame si tratta – venga usurpata una categoria antica e meritevole di rispetto.
Perché può anche darsi che vi abbiano raccontato che il fantasy lo ha inventato Peter Jackson leggendo un libro noioso scritto da un certo Tolkien, e poi sono arrivati i manga ed è nato l’oriental fantasy – ma non è così.
La passione per l’oriente e per le sue narrative, in Europa, comincia per lo meno nel diciassettesimo secolo – quando le spedizioni in Cina dei gesuiti di Matteo Ricci, le avventure proto-coloniali di inglesi e olandesi e la la fondazione di una accademia di orientalistica a Napoli, causano un primo risveglio della curiosità.
Che sarà ampiamente alimentata nel secolo successivo – con l’arrivo nei primi anni del ‘700 delle prime traduzioni de Le Mille e Una Notte.
E poi avanti – il gotico orientale di William Beckford, con i suoi regni orientali popolati di donne crudeli, uomini ambiziosi e demoni infidi. E dopo ancora, la passione dei vittoriani per l’Oriente come luogo nel quale le regole sono sospese e regna una realtà altra.
Le società antiquarie – per cui, per gli inglesi ma anche per i sabaudi, l’”Oriente” include anche l’Egitto.
E le storie sul giappone spettrale di Lafcadio Hearn, o le storie improbabili dell’India di Kipling, e l’occasionale uscita asiatica di Henry Rider-Haggard.
E poi, con il ventesimo secolo, la comparsa del Pericolo Giallo, l’avventura orientale di Harold Lamb e la fantasia mistica di Talbot Mundy, la Shangri-La di James Hilton…
E poi certo, Howard, E. Hoffman-Price, Clark Ashton Smith, O.A. Kline…
Tutto questo va ad amalgamarsi in una specie di sottogenere che può venire etichettato sbrigativamente come “Oriental Fantasy”
Riviste come Oriental Adventures o Magic Carpet ammaniscono al pubblico dei pulp una miscela di azione e avventura, talvolta con elementi mistici o magici.
E ancora, avanti, fino alle fantasie cinesi di Barry Hughart, o alle avventure fantasy-storiche di ambientazione araba di Howard Andrew Jones, il Dread Empire di Glen Cook (che usa un setting pseudo-orientale per creare un mondo secondario) o il recente Yamada Monogatari, o i sofisticati fantasy giapponesi di Kij Johnson.
E abbiamo appena scalfito la superficie – e non abbiamo parlato del cinema.
Ora, specie quando parliamo dei pulp, non possiamo onestamente sostenere che fossero tutti capolavori inarrivabili. Agli autori leggendari citati qui sopra si affiancavano innumerevoli pennivendoli desiderosi di pagarsi l’affitto.
Anche quello era un loro diritto.
Tuttavia i migliori autori di Oriental Fantasy – da Mundy a Jones, passando per Howard e la Johnson – avevano dalla loro tre elementi sostanziali
. delle solide trame…
. … popolate di personaggi memorabili…
. … e ambientate in mondi molto ben realizzati e documentati.
Sono disponibili in rete le lettere che il giovanissimo Howard scriveva a Adventure Magazine, per informarsi – da autori come Lamb e Mundy, ma anche dagli altri lettori – su dettagli più o meno approfonditi delle culture che intendeva ritrarre nelle proprie storie.
E se l’intercambiabilità di trame e personaggi era un caposaldo del pulp – per cui Black Vulmea’s Vengeance, una storia di pirati, può diventare The Black Stranger, uno sword & sorcery interpretato da Conan – è anche vero che l’intercambiabilità non è costruita con una semplice falsautenticazione (= seppellire il lettore di dettagli sgargianti in modo che non si renda conto che i fondali sono di cartapesta), ma dall’uso intelligente e letterario di elementi esotici, quando era necessario, e piazzandoli nei posti giusti.
Insomma, quando mi avvicino a qualcosa che viene etichettato come Oriental Adventure, non mi aspetto un trattato di etnoantropologia.
Ma neanche una storiella imbastita sui soliti quattro libri*, e popolata di personaggi che sono orientali perché hanno nomi sillabici (se avessero nomi che terminano in -wen e -oyn, sarebbe fantasy “classico”).
O se volete metterla in maniera ancora diversa – mi piace che i miei autori lavorino sodo per intrattenermi.
Argomento del quale credo dovrò parlare ancora.
Provo raccapriccio per certe cose che si trovano ora sugli scaffali – e orrore all’idea di come una intera generazione di lettori venga munta inesorabilmente, e si perda l’opportunità di leggere il tanto materiale infinitamente migliore che si potrebbe trovare senza eccessiva difficoltà.
Se solo si sapesse che esiste.
Davide Mana
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* . L’Arte della Guerra di Sun Tzu, le Storie di Spettri Giapponesi di Hearn, Siddharta di Hesse e la versione Adelphi de Lo Scimmiotto.
Più Sette Anni in Tibet, qualche film horror giapponese, e tanti fumetti.
E Titanic, perché poi è sempre la storia di un amore tragico tra lui bello e grezzo e lei sofisticata ma infelice.
Da ricovero.