Far Far Away… I Classici della Fiaba: “Biancaneve e i Sette Nani”

Biancaneve-e-i-sette-NaniLa fiaba di Biancaneve è una delle più note, ma anche delle più antiche. Nei miti dell’antica Grecia, infatti, troviamo diversi racconti di fanciulle chiamate Chione, che in greco significa “neve”. Si tratta per lo più di racconti “eziologici”, volti cioè a spiegare l’origine della neve, che poco o nulla hanno a che fare con la trama di Biancaneve così come la conosciamo.

Servio, antico commentatore dell’Eneide di Virgilio, ci racconta che una fanciulla di nome Chione fu rapita da un contadino. Il dio Hermes, per salvarla, la prese con sé e la condusse in cielo, sulle nuvole, dove la giovane si trasformò in neve.

Il motivo della persecuzione torna anche in altri racconti dell’antichità classica: più spesso, però, la fanciulla è perseguitata da un’antagonista femminile, sua rivale, che nei miti è rappresentata per lo più dalla dea Artemide. In alcune di queste fiabe, la dea è offesa da Chione, che in un caso ritiene di esserne superiore come madre, in altri di essere più bella di lei. Ateneo, antico autore greco, ci racconta la storia di Gerana, una giovane che viveva in mezzo ai Pigmei, dei piccoli uomini selvaggi che potremmo mettere a paragone con i nani della fiaba dei Grimm. In questa versione, Gerana è una donna che non tiene conto degli dèi e si ritiene più avvenente di Era e di Artemide. Stavolta, però, è Era, moglie di Zeus, a indignarsi e a trasformarla per punizione in un uccello sgradevole alla vista e avverso proprio ai Pigmei, che un tempo ne adoravano la bellezza.

Un altro motivo peculiare della storia di Biancaneve è, ovviamente, la mela avvelenata, che alcuni studiosi della fiaba mettono in rapporto con il mito del pomo della discordia, la mela d’oro che la dea Eris (la Discordia, per l’appunto) fece rotolare in mezzo alle dee durante un banchetto. Nel mito greco, la mela non è avvelenata né provoca la morte di chi la addenta, però rappresenta in qualche modo il casus belli della più grande e luttuosa guerra mai rappresentata in letteratura: la guerra di Troia.

Della fiaba di Biancaneve esistono innumerevoli versioni, molte delle quali sono varianti regionali italiane in cui l’eroina è perseguitata ora da una matrigna, ora da una signora di cui è servitrice, ora da sorellastre gelose. Certo, una delle versioni più celebri è quella che ci offrono i fratelli Grimm. L’inizio è concentrato sulla regina, la vera madre di Biancaneve, che, in un giorno d’inverno, mentre fuori fiocca la neve, è intenta a cucire vicino alla finestra, ma ad un tratto si punge a un dito. Il rosso del sangue, il bianco della neve e il nero dell’ebano della finestra le ispirano un desiderio: «Avessi un bambino, bianco come la neve, rosso come il sangue e nero come il legno della finestra!». Così fu. Nacque Biancaneve: la sua pelle era bianca come la neve, le sue guance rosse come il sangue e i suoi capelli neri come l’ebano. Ma nel darla alla luce, la regina morì. Il padre di Biancaneve si risposò ben presto con una donna bella quanto vanesia, che possedeva uno specchio magico.

snow-white-magic-mirrorSpesso la neo regina lo interrogava per controllare il suo primato di bellezza nel regno. Intanto, però, Biancaneve cresceva bellissima anche lei, e venne il giorno in cui lo specchio proclamò:

«Biancaneve dalla chioma corvina

è molto più bella della regina»

I Grimm ci dicono che, a questo punto della storia, Biancaneve era appena una bambina di sette anni, ma già, a quanto sembra, temibile rivale. La regina fu presa dall’odio più feroce, e così, per sbarazzarsi della bimba, ordinò a un cacciatore di condurla nel bosco, ucciderla, e portarle indietro il cuore e il fegato come prova della sua morte. Il cacciatore obbedì, ma quando Biancaneve lo supplicò di essere risparmiata, egli la lasciò andare, pensando che le belve feroci del bosco l’avrebbero comunque uccisa al posto suo. Alla regina portò dunque i polmoni e il fegato non di un cerbiatto, come spesso si dice, ma di un cinghialetto. La regina li fece cucinare e li mangiò, credendo che fossero le interiore di Biancaneve. In molte culture, infatti, mangiare il cuore o gli organi interni di un nemico significa acquisirne il potere, la forza vitale. Dunque è come se la matrigna tenti di acquisire la bellezza di Biancaneve mangiandone il cuore.

Intanto, la piccola raggiunge una capanna nel bosco che, a differenza di come ci aspetteremmo, è «straordinariamente linda e aggraziata», apparecchiata con sette piattini, tazzine, posate e così via. Biancaneve mangia un po’ da ogni piatto e si distende sul settimo lettino. Quando i nani tornano dalla montagna, trovando la bambina addormentata, si mostrano felici e la lasciano dormire. Al suo risveglio, le si presentano e le propongono di rimanere con loro, a patto che si dedichi alla pulizia della casa e alla cucina. La fanciulla accetta.

Sono i nani stessi, cui Biancaneve ha raccontato la sua storia, a raccomandarle di non aprire a nessuno, proprio per timore che la regina possa trovarla e farle del male. I nani non si sbagliano. La matrigna, infatti, interrogando lo specchio, scopre che Biancaneve è ancora viva e decide di travestirsi e presentarsi alla casetta nel bosco.

Il motivo del travestimento e della visita della regina sotto mentite spoglie, nella fiaba dei Grimm, è ripetuto per tre volte. Infatti, la regina si traveste da vecchia merciaia e al primo incontro offre a Biancaneve una «stringa di seta variopinta». La giovane, convinta di non avere nulla da temere, fa entrare in casa la vecchia e le compra una stringa. Ma quella insiste per legargliela alla vita e, così facendo, la stringe tanto che a Biancaneve mancò il respiro e «cadde a terra come morta». Quando i nani tornarono e trovarono Biancaneve a terra svenuta, si accorsero della stringa troppo stretta, l’allentarono e la piccola rinvenne. Sono ancora i nani a mettere in guardia Biancaneve, certi che la vecchia merciaia non sia altro che la regina cattiva: i sette le raccomandano ancora di non aprire a nessuno.

Schneewitchen1Ed ecco che la regina, venuta a sapere, grazie alle specchio, di non essersi ancora liberata della figliastra, torna da lei travestita da una vecchia diversa dalla prima e stavolta le vende un pettine avvelenato. Biancaneve si lascia ingannare ancora e permette alla straniera non solo di entrare, ma anche di pettinarla. Il veleno del pettine penetra così nella sua pelle e la fa cadere a terra come morta. Una volta ritornati, sono ancora i nani a salvare Biancaneve rimuovendo il pettine dal suo capo.

Il terzo tentativo della matrigna è quello più noto: l’espediente della mela avvelenata. Il veleno si trovava soltanto nella parte rossa della mela, mentre la parte bianca era perfettamente commestibile. Così la regina si tinse il viso e, travestita da contadina, andò da Biancaneve. Questa volta la fanciulla non volle farla entrare, ma la contadina le offrì di regalarle la mela passandogliela dalla finestra. Ma siccome la giovane esitava, per convincerla che non c’era nulla da temere, divise la mela in due parti e lei stessa diede un morso, ma dalla parte bianca. Così Biancaneve si fece di nuovo ingannare, prese la mela, che tanto la ingolosiva, e le diede un morso. Subito cadde a terra morta. «E il cuore invidioso finalmente ebbe pace, se ci può essere pace per un cuore invidioso».

Quando i nani tornarono e trovarono la piccina a terra come morta, pensando a un qualche trucco della strega, la lavarono con acqua e vino, la pettinarono e fecero di tutto per cercare che cosa l’avesse stregata, ma fu inutile. La piccola era morta e i nani la piansero per tre lunghi giorni. Poi, vedendo che era ancora così bella e rosea, le costruirono una bara di cristallo, vi incisero sopra una scritta d’oro che ne indicava il nome e ricordava ch’era figlia di re, e la posero sul monte perché tutti potessero vederla. Anche gli animali del bosco vennero a piangerla. Benché morta, Biancaneve era ancora «bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano».

Ma chi sveglierà la bella dal suo sonno di morte? Il bacio del principe, direte voi. Non è proprio così. State a sentire. Un principe giunse per davvero, e tanto fu colpito da Biancaneve nella sua teca di cristallo che la volle portar via, ma i nani non volevano cederla a nessun prezzo. Il principe disse di essersene follemente innamorato e alla fine quei poveretti si commossero e lasciarono che il giovane la portasse via. Ma mentre l’aiutavano a trasportare la teca, inciamparono in uno sterpo e il contraccolpo fece sobbalzare la bara al punto che dalla gola di Biancaneve saltò fuori il pezzo di mela avvelenata. Nessun bacio del primo amore o roba simile.

Solo un involontario scossone che permette a Biancaneve di espellere il pomo malefico. EFranz_Jttner_Schneewittchen1 così il principe la prese con sé nel suo castello e decise di sposarla. Non è questa però la fine della fiaba. Alle nozze venne invitata anche la regina, la quale, curiosa di vedere la nuova sposa del principe, che lo specchio dichiarava fosse più bella di lei, andò livida di invidia. Vale la pena riportare per filo e per segno la conclusione della storia:

«Entrando, vide che non si trattava d’altri che di Biancaneve e impietrì per l’orrore. Ma sulla brace erano già pronte due pantofole di ferro: quando furono incandescenti gliele portarono, ed ella fu costretta a calzare le scarpe roventi e a ballarvi finché le si bruciarono miseramente i piedi e cadde a terra morta».

Della storia di Biancaneve esiste una versione ebreo-egiziana in cui il nome della protagonista è Melograno. Melograno è un fanciulla perseguitata dalla matrigna (altre volte da una sorellastra cattiva di cui è servitrice). Quando finalmente Melograno riesce a scappare, finisce nelle mani di quaranta ladroni, che la conducono con loro e per i quali si occupa delle faccende di casa. Ma intanto un vecchio mago si è messo sulle sue tracce, inviato dalla matrigna per ucciderla con un braccialetto e un anello stregati. È a causa di questi che la giovane, ingannata, cade in un sonno di morte e viene posta in una bara di cristallo. Un principe la nota e la libera dalla bara, ma proprio quando il lieto fine sembra alle porte, il vecchio mago trasforma Melograno in una colomba appuntandole una spina sul capo. Scomparsa Melograno, il principe, pensando di averla perduta per sempre, decide di sposare una serva imbrogliona. Sarà grazie a un nastro al collo della colomba che Melograno verrà riconosciuta e riuscirà a recuperare le sue forme umane e a sposare il principe.

Fiabe-ItalianeMa la fiaba di Biancaneve incontra il frutto del melograno anche in un’altra versione, quella abruzzese riscritta da Calvino nelle sue Fiabe Italiane: «L’amore delle tre Melegrane».

Questa fiaba viene accostata a quella di Biancaneve per via del suo motivo iniziale. Infatti, si racconta che un figlio di re, mentre tagliava la ricotta, si ferì a un dito e una goccia di sangue stillò sul formaggio. Al vederla, il principe espresse un desiderio a sua madre, dicendo che avrebbe tanto voluto una fanciulla «bianca come il latte e rossa come il sangue». La donna gli fece notare che non poteva esistere una fanciulla che fosse allo stesso tempo sia bianca che rossa, ma gli diede la sua benedizione. Il principe allora si mise in cammino, deciso a trovare la fanciulla che sognava. Incontrò un vecchio e gli chiese consiglio e questi gli diede tre melagrane. Il principe aprì la prima e ne venne fuori una fanciulla bellissima, bianca come il latte e rossa come il sangue. La ragazza gli chiese dell’acqua, perché moriva di sete, ma il principe non arrivò in tempo e la giovane morì. Aperta la seconda melagrana, ne uscì una fanciulla altrettanto bella, ma anche lei morì prima che il principe potesse dissetarla. Dalla terza melagrana venne fuori una fanciulla ancora più bella delle prime due e perché non morisse di sete, il principe le spruzzò l’acqua in viso. La giovane era tutta nuda e il principe le offrì il suo cappotto, le disse di arrampicarsi su un albero e di attenderlo lì vicino a una fonte. Sarebbe tornato con dei vestiti per lei e una carrozza per portarla con sé al palazzo e farne la sua sposa.

La fanciulla obbedì, ma prima del ritorno di quello, alla fonte giunse la Brutta Saracina ad attingere l’acqua. Quando si sporse sulla fonte e invece del suo volto vide riflesso quello della fanciulla sull’albero, la Brutta Saracina si trovò bellissima e pensò che fosse ingiustamente costretta a raccogliere l’acqua: gettò a terra la brocca e se ne andò. Giunta a casa, la padrona la redarguì e la costrinse a tornare alla fonte. Ma accadde lo stesso della volta precedente. Al terzo tentativo, la fanciulla della melagrana non poté trattenere le risate e la Brutta Saracina si accorse finalmente di lei. La fece scendere e prese a pettinarla. Così, trovo che sul capo di quella c’era uno spillo. Lo prese e le punse un orecchio. Ne fuoriuscì una goccia di sangue e la fanciulla della melagrana ne morì. Ma dalla goccia di sangue nacque una colombella, che volò via. Intanto, il principe faceva ritorno, e invece della sua bella, trovava sull’albero la Brutta Saracina. Pur insospettito, fu convinto dalla Saracina che il sole l’avesse bruciata e il vento le avesse cambiato voce e bellezza, e così decise di mantener fede alla parola data e di portarla al castello. Ma ogni mattina la colomba nata dalla goccia di sangue si faceva viva presso le cucine e chiedeva del principe e della Brutta Saracina. Il cuoco le rispondeva, e in cambio di un po’ di “zuppettella”, riceveva puntualmente delle piume d’oro. Dopo qualche tempo, il cuoco decise che la cosa andava riferita al principe. Quello ordinò che la colombella venisse condotta al suo cospetto, ma quando l’uccellino riapparve, la Brutta Saracina, che aveva sentito tutto, fu più rapida del cuoco e, temendo per sé, uccise la colomba con uno spiedo. La colombella morì, ma dalla goccia del suo sangue nacque un albero di melograno. I frutti dell’albero erano taumaturgici e molti sudditi venivano a domandarli: chi ne mangiava, infatti, guariva da ogni male.

Alla fine rimase solo una melagrana, la più grande e succosa, e quando si presentò una vecchina a chiederla per guarire il marito sul punto di morte, la Brutta Saracina glielaSnow-White_thumb1 negò. Fu il principe a ordinarle di cederla. Ma quando la vecchia tornò a casa con la melagrana, suo marito era già morto. Da quel momento, però, quando l’anziana signora faceva ritorno dalla messa giornaliera, trovava la casa pulita e il pranzo pronto. Un giorno, invece di andare a messa, la vecchina si nascose dietro la porta e scoprì che a preparare la tavola e a spazzare la casa era una bellissima fanciulla senza nulla addosso. La donna le chiese chi fosse e da dove venisse, e lei disse di essere uscita dalla melagrana e raccontò la sua storia. La vecchia allora la vestì da contadina e di domenica la portò con sé a Messa. Lì, si trovava anche il principe, che, quando la vide, la riconobbe subito. La fanciulla raccontò tutto quello che la Brutta Saracina aveva fatto e così il principe la prese con sé e la portò al palazzo. La Brutta Saracina si condannò da sola, dato che il principe non voleva essere lui a condannarla: e così si fece fare una camicia di pece e si lasciò bruciare in mezzo alla piazza. Morta la cattiva rivale, il principe poté infine sposare la sua amata, bianca come il latte e rossa come il sangue, proprio come aveva desiderato.

Esistono innumerevoli altre versioni, senesi, aretine, sarde, alcune francesi o italiane, tutte molto simili tra loro. Scegliamo di raccontarvi la versione mantovana della figlia dell’ostessa e quella palermitana dal titolo LaNfanta Margarita.

La fiaba mantovana unisce in sé il racconto della fanciulla Melograno alla fiaba dei Grimm: in essa troviamo i motivi dello specchio magico, della rivalità femminile e del misterioso aiutante “casalingo”. Qui la cattiva è una madre ostessa, non una matrigna, e al posto della capanna dei nani, la protagonista finisce nel covo di ventiquattro ladroni. Non sapendo dove andare, si nasconde lì e inizia le faccende di casa. I ladroni trovano ogni giorno il loro nascondiglio bello che pulito e decidono di scoprire l’identità del loro benefattore. Quando scoprono la fanciulla, mossi a pietà, decidono di tenerla con loro. Ma l’ostessa viene a sapere dal suo specchio magico che sua figlia è viva e così ingaggia una strega che finalmente la uccida. La fanciulla della fiaba mantovana non si lascia ingannare dalla strega travestita da merciaia, da cui non vuole comprare nulla, perché ha già tutto quello di cui ha bisogno. Ma la vecchia si introduce lo stesso in casa, le si avvicina non vista e le conficca un pettine avvelenato sulla testa. La ragazza cade a terra come morta e il capo dei ladri la trova e si dispera. Decide quindi di comporla in una bara, ma chinatosi per baciarla in fronte, trova il pettine e lo rimuove, facendola rinvenire.

Franz_Jttner_Schneewittchen_61L’ostessa non si arrende e stavolta assolda un mago. Questo suscita una gran tempesta e chiede rifugio alla fanciulla. La giovane accoglie il vecchio nella casa dei briganti, e lì quello le mostra la sua borsa piena di gioielli e le fa indossare per prova un anello fatato, che non appena le è al dito, la fa cadere esanime. Il ladrone, tornato a casa, credendola morta e stavolta disperandosi ancora di più, la veste di bianco, la sistema in una bara di cristallo e l’affida alla corrente del fiume. Accadde però che il principe fosse a caccia con una muta di cani e questi abbaiarono sulla riva del fiume, perché si erano accorti della bara. Il figlio del re, ammirando la bellezza della fanciulla che vi stava dentro, la portò con sé a palazzo e non si staccava mai da lei, come estasiato. Finalmente gli amici riuscirono a portarlo fuori e a fargli prendere un po’ d’aria. Proprio allora delle donne entrarono nel luogo dove riposava la fanciulla misteriosa, videro l’anello al suo dito e glielo sfilarono per provarlo. Fu allora che la giovane si destò come da un sonno profondo e il principe, più felice che mai, poté averla in sposa.

L’ultima versione che esaminiamo insieme è quella palermitana, in cui la protagonista, Margherita, ha a che fare con la maestra di scuola. Attraverso la bimba, questa crudele maestra riesce a farsi sposare dal padre di lei, ma inizia subito a tramare contro le figlie del nuovo marito. Così, per sfuggire alla matrigna, Margherita finisce nel palazzo di una donna ferita e insanguinata sulla testa. Margherita la soccorre subito e la donna l’accoglie in casa e le si affeziona. Pertanto, prima di morire, le lascia il suo bel palazzo in eredità. Quando la matrigna le fa visita per la prima volta, seguendo i consigli dello specchio (qui infatti è lui che escogita i vari espedienti malefici), la fa cadere morta applicandole sulla testa un “torci-capelli stregato”. A questo punto, è proprio l’anima della vecchia signora ferita a tornare dall’aldilà e liberare Margherita dal primo incantesimo, raccomandandosi così: «Sta accura pi’ n’atra vota, cà iu nun pozzu scinniri cchiù pi fariti arrivisciri» (Sta attenta per la prossima volta, ché io non posso più scendere per farti resuscitare). Il secondo espediente è uno spillo avvelenato, e a salvare Margherita stavolta è un “reuzzo” che lo rimuove. Svegliatasi e trovatasi da sola con un uomo, la fanciulla è piuttosto impaurita, ma il principe la tranquillizza e si offre di sposarla. Tutto qui? Niente affatto. La fiaba è siciliana, e uno spazio non da poco deve anche avere la madre del reuzzo, vale a dire la suocera. Il figlio le chiede infatti il permesso di sposare Margherita e la donna commenta: «Haju capitu. Jamula a vidiri e poi si nni parra» (Ho capito. Andiamo e vederla e poi ne parliamo). Fortunatamente Margherita fa breccia nel cuore della suocera, che dà il suo consenso alle nozze. Ma che ne è della crudele maestra? Interrogato lo specchio, scopre che Margherita è viva e vegeta e la sua ira esplode, ma non serve più a nulla. Lo specchio le consiglia infatti di desistere:

«“Ormai non c’hai cchiu chi fari, ca si la pigghia lu riuzzu, e tu po’ cantari monacu”. (“Ormai non hai più nulla da fare, perché se l’è presa il reuzzo, e tu poi anche lamentarti, ma è inutile”)

La matrigna è dunque sconfitta e non la prende proprio benissimo:

«E comu idda sente accussì, si rumpi a testa mura mura». (E come quella sente così, si rompe la testa contro il muro).

E intanto le nozze furono celebrate, e quando Margherita fu regina, dal momento che aveva anche altre sorelle, chiese al suo reale sposo che venissero a vivere a corte con lei, per liberarle così dalla povertà e dalle vessazioni della matrigna. Così fu. Il principe le mandò a chiamare e insieme «ficiru tutta a vita ri principissi» (Passarono tutta la vita come principesse).

Lavinia Scolari

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