L’età dell’oro

C’era una volta l’Età dell’Oro, o almeno una delle sue più riuscite incarnazioni: quella che si è presa una buona fetta dei leggendari Anni Ottanta. Leggendari non certo per l’abbigliamento o le acconciature (brrrr), e men che mai per il fatto che lo scrivente, ormai canuto, fosse all’epoca un imberbe tredicenne col vezzo di sognare sui libri. A rendere mitologica un’epoca sotto molti altri aspetti imbarazzante fu invece – almeno nella prospettiva di questa piccola riflessione – l’opportunità, per l’adolescente foruncoloso in questione, di godersi con migliaia di conterranei un periodo della nostra storia editoriale che negromanti, barbari e spadaccine percorsero in lungo e in largo con un passaporto (anche) italiano nella bisaccia. Erano infatti tempi in cui l’Editrice Nord, ancora lontana dagli stravolgimenti legati a ben due infelici connubi editoriali, navigava in splendido isolamento regalando agli appassionati del Belpaese le saghe di Moorcock, Howard, Sprague de Camp, Zelazny, Leiber, Le Guin, Carter e tanti altri maestri della cosiddetta “heroic fantasy”.

Erano i tempi in cui il timoniere Renato Fanucci conduceva la sua Casa editrice verso i lidi dell’immortale e dimenticata rivista Weird Tales, ristampandone i racconti migliori in una collana ad hoc. Erano anche i tempi in cui la fantascienza cinematografica dei computer e delle astronavi si ibridava con spade, cavalieri e poteri mentali, producendo l’epocale successo di Star Wars e dando inizio ad una lunga relazione clandestina tra “famiglie” rivali, che da ultimo costrinse persino un pilastro dell’ortodossia SF come Urania a farsi un giro a Canossa con una collana “spin off” consacrata agli autori del fantasy. Erano infine i tempi in cui la fiamma seducente ed in se ipsa inarrivabile del professor Tolkien risplendeva ancora come un fuoco fatuo nella notte delle italiche fantasie, come i riflessi di gemme preziose in uno scrigno che ancora pochi e motivati visitatori si risolvevano a violare. Prima, insomma, che quella luce diventasse suo malgrado – mercé le abili mistificazioni di Hollywood – un faro piatto ed accecante votato all’annullamento di ogni altro riflesso, di ogni altra luce. Ma prima anche che le truppe cammellate di un piccolo schermo divenuto ipertrofico nei mezzi e nella presunzione delineassero ad uso delle masse televisive – quasi fosse un’alternativa obbligata tra “volere e volare” –  l’antitesi designata dell’epos del medievista oxoniano nella saga del “Trono di Spade” di George R.R. Martin: opera verista che l’invadenza delle telecamere ha reso voyeuristica, tutta fango e stupri, denti cariati e realpolitik. Senza negare il valore e l’importanza delle prime due vie, ne è possibile una terza? Certo, e magari anche di più.

Tutto sta nell’andare oltre l’artificiale tirannia del bianco e del nero, recuperando lamichael_whelan__stormbringer-1 ricchezza di quello spettro cromatico che nell’ecosistema letterario ha reso il genere fantasy un fenomeno dalle sfumature uniche, al pari di un’ala  di farfalla o di un arazzo antico. Per restituire anche ai lettori di oggi l’opulenta ed avvincente complessità di questa stagione – modernissima e primordiale insieme – della scrittura, è dunque quanto mai necessario che anche il sottogenere “sword and sorcery” si svegli da suo letargo ultraventennale ed offra nuovamente il suo contributo espressivo, con tutto il suo corredo barocco di armi sanguinanti, regine ingioiellate, ardimenti e negromanzie. Un armamentario che come gli archetipi junghiani non potrà mai invecchiare o passare di moda, fintanto che parlerà a ciò che in noi resta di un sentimento antico ed eterno già ai tempi Omero. Torni dunque la freschezza di mondi e di visioni vecchie e nuove, di autori consolidati e giovani promesse: la fantasia eroica, mercé la passione di un pugno di amici e sodali, può ancora risollevarsi. E risollevare anche una parte bella ed intensa di noi stessi. Quella che – parafrasando Terry Pratchett, altro bardo dimenticato –  ha sulla gente lo stesso effetto dei  racconti basati sull’immaginazione: manda in collera quanti ne sono privi.

Adriano Monti Buzzetti 

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