I racconti di Satampra Zeiros: “La Mandibola Verde” di Ivan Bard

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Nel sesto appuntamento della rubrica “I racconti di Satampra Zeiros”, abbiamo il piacere di ospitare Ivan Bard, pseudonimo di Vittorio Marco Ivan Cirino, che ci presenta la Mandibola Verde, short story di circa 27.000 battute spazi inclusi.

Buona lettura.


17098602_10212034352923023_9024030284814810877_nAutore: Ivan Bard è un narratore e scrive da quando ha memoria. Inventare storie o andare a caccia di bizzarrie per poterle raccontare è la sua ragione di vita. Non esiste occupazione, anche la più consueta, che non diventi insolita quando viene filtrata dal suo sguardo.

Perché non si capisse che il narratore non è di queste parti, ha dovuto inventarsi un alter ego sociale, Vittorio Cirino e, per fare in modo che risultasse credibile, gli ha dato amici, passioni, un’occupazione. A quanto pare, Vittorio è nato nel 1983 e, perché non si allontani troppo dal seminato, lavora come editore digitale, con un amore viscerale per la narrativa di genere, la musica, il cinema e lo sport. Ma lui direbbe che la sua unica vera passione risiede nell’auto-miglioramento, qualunque sia l’ambito in cui venga declinato.


Sinossi: In un luogo sospeso tra giungle lussureggianti e bazar polverosi in cui i mendicanti barattano la vita, due compagni di viaggio consumano la loro ricerca. Lei è una bambina, o forse no, apprendista nell’arte di rubare la magia celata in oggetti comuni; lui un barbaro che proviene da inaccessibili picchi a Est, nei quali si dice che la conoscenza arcana non si tramandi su pergamene, ma si verghi nella carne. Pare che quel che cerchino sia in un tempio che fa di tutto per non essere raggiunto. Non devo spiegare cosa succede a chi vìola la dimora di un Dio sopito, vero?


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La Mandibola Verde

di Ivan Bard

 

1

“Nessuno conosce l’esatta ubicazione della Mandibola. Non perché chi ci sia stato non abbia fatto ritorno o tutte le balle che si dicono sui templi abbandonati. No, no – cough cough – niente del genere! Per Ness, non che io c’andrei mai se mi fosse rimasta un’altra scelta al mondo, come chiunque abbia buon senso. Solo che nessuno può ritrovare la strada per tornarci una seconda volta, perché il sentiero, praticamente, ti scompare da sotto i piedi!”

Lo straccione ubriaco prese fiato, emise un rantolo catarroso, poi sputò in terra e il colore diceva con chiarezza che non avrebbe vissuto a lungo. A dispetto delle sue condizioni si accese una sigaretta nera, prese una boccata di fumo e proseguì “– cough cough – Quel postaccio sorge ai margini di una radura paludosa, nell’intrico di una foresta di mangrovie. Fitte, ti dico. Così fitte che se ci tiri in mezzo una freccia ti rimbalza in faccia. E tu che fai per passare? Le tagli, no? Ma Loro, le mangrovie, ricrescono a vista d’occhio.”

La concitazione gli indusse un profondo accesso di tosse.

“Non sembri stare bene, sai?” disse la bimba, nell’atto di avvicinarsi. L’uomo alle sue spalle la trattenne con decisione per la veste color del cielo. Si voltò indispettita, ma decise di non lamentarsi quando notò lo sguardo risoluto negli occhi del suo protettore spostarsi rapidamente da lei al mendicante come invitandola a seguirne il percorso. Vide quel che lo aveva allarmato: la camicia del mendicante. C’era qualcosa che si muoveva sotto di essa, qualcosa che strisciava.

“E tu? Come fai a sapere come arrivarci?”

Il barbaro ruppe il silenzio risultando alterato, a dispetto delle sue intenzioni. Le pitture tribali che screziavano il corpo seminudo si mossero con la contrazione dei muscoli, come parole incomprensibili pronunciate dalla sua pelle scura. Il mendicante, rannicchiato in terra, scrollò le spalle curve.

“Non ho mai detto di sapere come arrivarci, infatti. Ma posso dirvi che direzione seguire una volta attraversato il fiume. Se avrete un’andatura costante e molta fortuna, forse ce la farete.”

La “cosa” sotto la camicia premette, rigonfiando il tessuto all’altezza dello sterno.

“E se non saremo fortunati? Che c’è da quella parte, se manchiamo il tempio?”

Il mendicante scosse il capo.

“Assolutamente niente per giorni. Che io sappia, là in mezzo non c’è neanche lo spazio per piantare un chiodo – cough cough – figurati una tenda. E i rami delle mangrovie sono troppo sottili per reggere il peso di un uomo. Quindi, o sapete dormire in piedi come i cavalli o pregate di trovare La Mandibola al primo colpo!” L’affermazione suonò volutamente lugubre uscendo dal ghigno torto dello straccione. Un accesso di tosse prolungato squassò il corpo gracile. Estrasse tremando un fazzoletto sporco dai pantaloni di tela e lo portò alle labbra screpolate. Mentre la pezza veniva riposta nella tasca, il barbaro notò che una macchia color rosso scuro si era aggiunta ad altre, nuova tinta su quel malsano arazzo.

“E quanto vuoi per indicarci la direzione?” continuò il barbaro tatuato fingendo disinteresse.

“Soldi? – cough cough – e che me ne farei? Nossignore. Io ti dico come arrivarci, ma tu devi promettere di portarmi una cosa, al ritorno.”

Il movimento della creatura che strisciava sotto la camicia era così forte da non potere più essere ignorato, quasi che il cuore stesse martellando per uscire dalla fragile gabbia toracica.

Il guerriero portò una mano al pugnale col manico d’osso che teneva alla cintura, dietro al fianco sinistro. Lo straccione stava per parlare, quando un rantolo fece cadere la cenere di sigaretta sulla camicia e tutti notarono che il primo bottone sembrava sul punto di saltare via, sotto la pressione di quella cosa strisciante. “E’ l’ora della potatura!” riuscì a dire tra gli spasmi, estraendo delle forbici arrugginite dal suo sacco di iuta. Aprì la camicia a fatica, scosso da fremiti. Alla vista, la bimba si ritrasse trattenendo un grido tra le piccole mani. Il barbaro si frappose tra lei e il mendicante snudando il pugnale, ma l’uomo non si curò di loro e continuò meticolosamente la sua attività, soffocando i colpi di tosse. Alla base del petto dello straccione si apriva un foro grande come una moneta, dal quale usciva il ramo contorto di una mangrovia. L’appendice verde sembrava pulsare, mentre gemme disseminate lungo tutta la sua lunghezza si schiudevano sotto i loro occhi increduli divenendo ampie foglie bordate di ocra e nero, marcescenti, come fossero nate già in procinto di morire.

“Vedete tre anni fa, quando decisi di andare alla Mandibola, avevo già un piede nella fossa…” proseguì assorto il mendicante, mentre con le forbici sfoltiva alcune porzioni del ramo “…dicevano che avevo i giorni contati. Ero scampato al boia e alla gilda di Tahun, ma alla fine sarei morto a causa dei miei vizi. Arrivò un tizio del sud, uno stregone, e mi pagò per accompagnarlo là. Forse sapeva che in passato ero stato un avventuriero, o forse non aveva trovato nessun altro. Io non avevo niente da perdere e pensai che gli avrei estorto una cura, a missione finita. Ma lui – che ironia! – è morto per il morso di un serpente, lungo il ritorno.”

La bimba aveva messo mano alla borsa lilla che portava a tracolla e rovistava rumorosamente al suo interno, mentre il guerriero non perdeva di vista la pianta tenendo la mano sinistra stretta sull’elsa del pugnale.

“Quando morì, mi ritrovai solo nella giungla. Tossivo sangue, avevo la febbre alta e la via si era richiusa attorno a me. Non volevo morire di fame e malattia così ho preso il coltello, ho bestemmiato Fiodr e le sue vergini celesti, e mi sono pugnalato alla bocca dello stomaco. Sono morto, o così ho creduto. Non so quanto sia rimasto lì, ma quando mi sono svegliato ero steso supino, schiacciato da una pianta di sei cubiti che usciva da questo foro. Credo che qualche insetto sia entrato dentro di me, che mi abbia… seminato. Non vi dico quanto sia stato difficile tagliare il ramo col coltello e scampare alla giungla. Ma, per Ness, ce l’ho fatta. E da allora…” il mendicante aspirò profondamente l’ultimo tiro della sua sigaretta e le foglie di mangrovia rimaste si annerirono completamente, accartocciandosi “…da allora è lei a occuparsi di me.”

Ciò detto, recise il ramo in modo che sporgesse di poco dal petto, posò la forbice nel sacco e infine riabbottonò la camicia con gesti controllati. L’uomo notò che lo straccione non aveva tossito nemmeno una volta, durante l’ultimo sproloquio. Anche il colore della sua pelle, prima giallo pergamena, ora appariva più salubre. Nel frattempo, la bimba aveva estratto dalla borsa un bicchiere d’ambra e osservava il mendicante usando il fondo come filtro. Ancora una volta, l’Opalescenza schiuse le linee della vera vista rivelandole cosa si celasse dentro di lui e quello che scrutò la fece rabbrividire.

“Allora, che diavolo vuoi da noi, Kazìm? Un modo di liberarti da quella cosa?” Il barbaro sbuffò sprezzante.

“Liberarmene? Eh eh, non dire stupidaggini! Io ti dirò come raggiungere la Mandibola ma, se tornerai indietro, devi promettere di portarmene un altro”

“Un altro… cosa?” domandò incerta la bimba, sporgendosi da dietro al barbaro.

Kazìm estrasse dal suo sacco una bottiglia di liquore e bevette un sorso che sembrò eterno. Poi si asciugò la bocca con una manica sorridendo e i pochi denti grigio opaco che aveva sembrarono i cocci sbeccati di un’ anfora di creta.

“Un altro seme, ovviamente. Da un po’ di tempo ho un tremendo dolore al fegato, al mattino appena sveglio. Sapete, i miei vizi mi uccideranno un giorno e la mia piccola non riesce più a fare tutto da sola!” concluse ridendo tetro, mentre con la mano si accarezzava il petto ossuto.

2

Il vociare del bazar al tramonto si spense lentamente alle loro spalle quando il barbaro e la bimba svoltarono per il sentiero che serpeggiava tra le basse case composte da blocchi color sabbia. Le geometrie di quegli edifici dalla base quadrata, con ampi teli di seta dai colori sgargianti  usati come verande, sembravano ripetersi all’infinito sempre uguali seppur diverse, soprattutto al calar del sole quando il vento caldo del sud sollevava la polvere dal suolo.

“Tah’mon, dove stiamo andando?” domandò la bimba, senza traccia di lamentela nella voce.

“Tra poco farà buio, partiremo all’alba” fu la risposta laconica del barbaro dipinto.

“Quindi stanotte dormiamo al…”

“Si!” la interruppe seccamente, continuando a guardare avanti a sé.

 Lei sorrise, scosse appena le spalle e continuò “Assoldiamo una scorta?”

“Sì, tre uomini del posto, bene armati” tagliò corto.

“Oh…” la testolina bionda annuì vistosamente.

Proseguirono in silenzio per un po’ in quel reticolo di vicoli deserti che si faceva largo tra i banchetti di legno dai tendaggi vistosi, quando Tah’mon svoltò in un sentiero laterale. Poco dopo, dai bassi tetti delle case, ombre velate si gettarono su di loro. Ombre che brandivano sciabole.

La bimba non fece neppure in tempo ad accorgersi dell’agguato: la lama del predone penetrò in profondità tra collo e spalla senza trovare alcuna resistenza. Cadde al suolo senza emettere un grido, mentre l’assalitore rotolava sul selciato polveroso attutendo la caduta. Tah’mon reagì abbastanza in fretta da ruotare su sé stesso schivando l’assalto che proveniva dall’alto e, nella rotazione, brandì il suo martello da guerra. Lo sguardo si posò sulla sua piccola compagna che giaceva al suolo senza vita. Spalancò la bocca, deformandola in un muto grido di dolore. Alzò gli occhi al cielo e sembrò sul punto di esplodere nell’ira, ma non poté far nulla perché un terzo uomo lo raggiunse alle spalle affondando la sciabola nella sua schiena fino al manico.

Tah’mon cadde in ginocchio guardandosi sorpreso il ventre perforato, poi si accasciò su un lato dove giacque immobile con gli occhi sbarrati.

I predoni dalle braccia nude e volti nascosti da veli color sabbia fischiarono imitando il verso di un animale, riunendosi al centro del vicolo. Attesero in silenzio che la sabbia sollevata dalla lotta si fosse depositata, poi si scambiarono brevi frasi nella lingua locale piena di suoni gutturali e inguainarono le armi.

La tenda rossa che copriva l’ingresso di una abitazione si mosse fulminea in direzione dei predoni, gonfiandosi verso l’esterno spinta da una forza sconosciuta. Prima che se accorgesse, la tenda colpì il volto velato del più vicino e i due tessuti, vermiglio su ocra, si fusero insieme col rumore secco di ossa che si spezzano. Il drappo si ritrasse, rapido come era giunto. I due predoni, sgomenti, osservarono il compagno gorgogliare in un rantolo di morte con metà del viso incassato nell’altra metà, per poi cadere al suolo senza vita.

Tah’mon scostò la tenda e uscì dalla casa con un ghigno dipinto sul volto bruno e il maglio da guerra sulla spalla. “Come?” disse il più basso degli assalitori in un pessimo Tahuniano, indicando il barbaro morto ai loro piedi identico a quello che ora li fronteggiava sogghignando. Alla finestra quadrata senza vetri della stessa casa si affacciò la bimba bionda. Le mani erano impegnate a giocare con un lungo elastico che tracciava trame tra le dita, come ragnatele.“Scusate… colpa mia!” rispose la piccola, lasciandosi andare a una risata limpida che a Tah’mon ricordò lo scrosciare di un torrente montano. Poi giunse tra loro le mani e i fili chiari si rilassarono attorno alle dita. Le due trame illusorie che campeggiavano sul suolo polveroso scomparvero istantaneamente. Il predone sembrò rendersi conto all’istante di quanto fosse avvenuto. Emise un urlo belluino e si scagliò sul barbaro sfoderando la scimitarra. Tah’mon, sorpreso dall’assalto, balzò indietro per schivare l’ampio fendente, finendo così contro la parete della casa. Mentre lo scontro riprendeva, pensò che non avrebbe potuto battere il predone: era rapido e dal fisico nervoso, sembrava abituato a combattere in spazi stretti con la sua lama corta, mentre lui faticava a maneggiare il maglio da guerra in quel vicolo angusto. Tutto quel che poteva fare era parare i colpi frenetici che il nemico gli sferrava usando il manico rinforzato che continuava a perdere schegge di legno e brandelli di cuoio.

Nel frattempo, il terzo predone aveva inserito un dardo piumato in una cerbottana e cercava di prendere la mira per non colpire il suo compagno. Tah’mon prese una decisione azzardata: lasciò cadere il maglio e attese con le braccia alzate l’assalto del nemico, che non si fece attendere. Mentre la scimitarra compiva un arco obliquo in direzione del suo petto, Tah’mon si torse sul busto facendo scorrere il colpo di poco alla sua destra poi, sfruttando la foga del predone, afferrò il braccio armato e lo spinse con forza contro il muro. Il rumore del collo spezzato riecheggiò nel vicolo, sovrastando per un attimo quello del vento. Da poco distante la cerbottana sibilò, ma il dardo mancò la spalla del barbaro. Il terzo predone si girò dandosi alla fuga, rapido come un gatto, ma il pugnale dal manico d’osso lo raggiunse al centro della schiena poco prima che svoltasse l’angolo.

Farfugliò un’incomprensibile maledizione, poi morì.

Tah’mon perquisì i corpi e li nascose nella casa vuota. Sulla porta, la bimba lo osservava incuriosita, col suo enigmatico sorriso.

“Sahìra, sai bene che non assoldo mai mercenari!” disse, fingendosi sorpreso.

“Tre uomini del posto, ben armati!… Sì, lo so bene!” rispose lei, facendogli l’occhiolino.

3

“Cane! Hai detto che la Mandibola era in rovina! Che non ci sono più cultisti!” sibilò Tah’mon tenendo l’oste inchiodato alla parete per il collo.

“ E’ così! V-ve lo giuro! Sono spariti da anni!” L’uomo tarchiato, s’affrettò a rispondere balbettando, livido per lo spavento. Il fiato caldo odorava di Garum rancido e vino rosso e le sopracciglia ad arco incorniciavano occhi sgranati dalla sorpresa. Uno dei due era di vetro, ma Tah’mon si specchiò in quello buono, reso lucido dall’alcol. Non mentiva.

“Allora cosa sono queste?” ringhiò, posandolo a terra. Estrasse dalla scarsella tre collane e le avvicinò all’oste così rapidamente che questi si protesse nel timore di venire colpito, ma non accadde. Quindi aprì gli occhi e osservò: erano collane di corda nera con un enorme molare, forse di gorilla, legato al centro. Ritrasse subito il capo e fece un gesto scaramantico con la mano. “I Denti della Mandibola! Fiodr ci protegga! Il simbolo di Luk-Lak, il Dio-bestia furente!”

La voce gli tremava, così prese un fiasco di vino e ne tracannò un sorso macchiandosi la tunica. “Quando ero piccolo, tutti avevano paura di avvicinarsi al fiume. Si diceva che i cultisti fossero per metà scimmia, nati da riti blasfemi nei quali accoppiavano bestie e giovani donne rapite dai villaggi della riva. E nelle notti senza luna, potevamo sentirlo!”

“Sentire cosa?” incalzò Sahìra da dietro le gambe del barbaro.

“L’urlo della bestia. Un verso abominevole che sovrastava persino i pensieri. Quando urlava, in città si sbarravano porte e finestre e noi bambini ci nascondevamo sotto i letti. E il mattino dopo, qualcuno era sparito e nessuno lo vedeva più. Poi ci fu una volta in cui le urla continuarono incessanti per tre notti, ma nessuno sparì. Non si sa cosa sia capitato, ma quella fu l’ultima volta in cui Lui urlò. Dicono che i cultisti abbiano fallito un rituale e che l’ira del dio furente li abbia distrutti. Da allora, un’oscura magia è calata sulla giungla. Sembra che le piante impediscano di avvicinarsi alla Mandibola.”

L’oste fece una breve pausa, si guardò intorno, poi proseguì: “Due o tre anni fa è venuto qui uno stregone, M’dina mi pare si chiamasse. Faceva un sacco di domande, poi è ripartito. Sembra che sia r…” ci fu un sibilo sordo, poi un dardo piumato perforò la gola dell’oste, che portò di riflesso le mani al collo cercando invano di respirare. In pochi istanti s’irrigidì e cadde al suolo con la bava alla bocca. Sahìra balzò su di lui, ma capì subito che era già tardi. Tah’mon si voltò di scatto, ma la taverna era deserta. Solo le tende della finestra parvero muoversi appena, ma forse era stato soltanto il vento caldo della notte.

4

“La vedo, Tah! Ce l’abbiamo fatta!” cinguettò Sahìra dal ramo di un albero. L’uomo si fece largo fino alla radura tagliando gli ultimi arbusti che gli impedivano la vista. “Kazìm non ha mentito, su questo” disse, infilando il kukri nella cintura. Davanti a loro si apriva un’immensa macchia paludosa. Il terreno umido era disseminato di cadaveri mummificati disposti a cerchio attorno alla Mandibola. Alcuni di essi sembravano morti di recente.

Il tempio in parte crollato si ergeva sopra di loro cadente eppur maestoso, volto corrotto di quella giungla antica. Colonne monolitiche dal suolo salivano ad altezze irregolari a celare una grotta che penetrava nel ventre della terra. L’ingresso era così cupo che sembrava fagocitare la luce del sole. I Menhir erano avvolti da liane che si contorcevano ondeggiano. Sahìra si chiese se non fosse stata la Mandibola stessa a vomitare la giungla fuori dalla sua gola senza fine, negli eoni.

Tah’mon avanzò sicuro e la bambina lo seguì a breve distanza, scavalcando cadaveri la cui sorte era ignota.“E’ meglio se ti fermi!” disse Sahìra indicando la linea oltre la quale non vi erano cadaveri, dopodiché estrasse il bicchiere d’ambra e scrutò il tempio.

“Sembra che ci sia stata una potente esplosione arcana qui, in passato, e un residuo di rabbia ora circonda la Mandibola. Chi si avvicina ne viene consumato. Forse è così che si alimenta la crescita delle piante: consumando la vita. Non possiamo proseguire se… aspetta!”

Sahìra tese una mano,“lì si può passare. C’è un tunnel di luce che porta fino all’ingresso. Qualcuno deve aver perforato la barriera, ma il passaggio è molto piccolo.”

“Lo stregone. Dev’essere stato lui!” sentenziò Tah’mon

“Già! Andiamo, ti guido io. Però devi chinarti, o non credo che ci passerai” concluse prendendolo per mano.

Il passaggio li condusse attraverso i denti della Mandibola fino alla tetra entrata. Tah’mon fece tutto il percorso rannicchiato difendendosi da una minaccia che non poteva vedere né comprendere. Davanti a loro si apriva la bocca del tempio, voragine dalla quale usciva un’aria malsana. L’uomo pose piede sul primo dei molti scalini che scendevano nell’oscurità, sempre rimanendo chinato. “Posso alzarmi, adesso?” chiese

“potevi già prima, ma sei così buffo” rispose Sahìra, sorridendo. Tah’mon non replicò e scese giù nella gola del mostro di pietra, ergendosi in tutta la sua imponente statura.

5

Il buio delle catacombe odorava di antico dolore. L’unica debole luce proveniva dalla sfera di vetro che Sahìra reggeva tra le mani. Piccole saette tracciavano simboli nel vapore azzurro sospeso dentro di essa.“Sei sicura che sia ancora qui?” domandò l’uomo, sottovoce.

“Sì. Il Visore dice che la Mosca di Giada è vicina. Che emozione! Porterò tutti gli oggetti alla torre-cubo e finirò il mio apprendistato. Grazie, Tah.”

“Dovere” rispose truce il barbaro, lieto che la penombra celasse il suo sorriso.

Proseguirono lentamente tra resti di colonne coperte di muschio e muri crollati lungo i quali si muovevano topi, che spesso mettevano in allarme i sensi del barbaro. A un tratto, il vapore nella sfera si arrossò.

“Ci siamo. E’ lì dentro!” esclamò Sahìra.

Tah’mon rimosse una torcia dall’alloggiamento accanto al portale di pietra e l’accese. Sopra la volta composta da imponenti blocchi di granito era incisa una scritta i cui caratteri erano stati quasi cancellati dal tempo. “Chissà cosa c’è s…”

La porta è aperta, ma la via è chiusa. Chiudi la porta e aprirai la via.” La voce ultraterrena proveniva da Tah’mon ma non era la sua. Il tatuaggio runico sulla sua gola sembrò rifulgere per poi spegnersi alla luce della torcia. Sahìra si stupì ma non disse nulla. C’erano cose di lui che non capiva, ed era meglio così. Lui passò sotto l’arco di pietra annusando l’aria, “Qualcosa vive qui sotto, ne sento l’odore. Tu va’ a prendere la Mosca!”

“E tu?”

“Distrarrò il guardiano!” terminò gettandosi nell’oscurità.

Un urlo furente e lo sferragliare di catene risposero alla sua voce, ma lui avanzò fino al centro dell’immensa cripta, attendendo un attacco che non arrivò.

La torcia proiettava luce pochi metri attorno:sarcofaghi di pietra erano rovesciati a terra e ossa coperte di stracci s’inchinavano a Luk-Lak nel loro ultimo tributo, coi teschi dalle orbite cave prostrati in eterno.

Un debole clangore riecheggiò nella cripta. La creatura si stava avvicinando, ma l’eco rendeva impossibile intuire da dove. Ancora silenzio.

Poi ci fu un tonfo sordo, una lapide si frantumò nel buio e schegge di pietra colpirono in volto Tah’mon, che si mise in guardia. Silenzio.

Una risata gutturale si innalzò da una gola inumana. Un sibilo, poi un capitello scagliato con forza inaudita s’infranse accanto ai piedi del barbaro. Silenzio.

“Mostrati!” urlò Tah’mon estraendo una fiaschetta dalla tasca. Si riempì le guance col liquido che conteneva e soffiò sulla torcia. Una fiammata illuminò per un attimo la stanza a giorno. Con la coda dell’occhio, colse un’enorme sagoma ritrarsi, così scagliò la torcia in quella direzione e, finalmente, lo vide. Il gigantesco primate si ergeva sulla cripta come obelisco del dio furente. Il vello era scuro e folto tranne che attorno ai polsi abrasi dalle catene titaniche che lo imprigionavano, i cui capi uncinati giacevano sradicati dalla parete. La bestia gridò di rabbia e le labbra si arricciarono a snudare enormi zanne gialle. L’uomo cercò lo sguardo del mostro, senza trovarlo. I suoi occhi avevano pupille lattiginose e spente: la bestia cieca! La natura barbarica di Tah’mon lo scosse, così si gettò all’attacco brandendo il maglio da guerra. Il mostro piegò il capo all’ascolto, poi alzò un braccio e la catena saettò verso il petto del barbaro, che d’istinto roteò mandando a vuoto il colpo.

Invece no: la bestia richiamò a sé la lunga catena che nella sua corsa si conficcò nel retro della spalla dell’uomo, che gemette a labbra serrate perdendo la sua arma. La scimmia emise un urlo trionfale tirando a sé la preda, come un pescatore con la lenza. Tah’mon sapeva che non poteva opporsi a quella forza inumana. Così afferrò la catena, tirandola a sé il tanto che serviva a liberarsi mentre veniva trascinato ma, quando ci riuscì, la scimmia torreggiava sopra di lui. Le narici dilatate sbuffavano vapore mentre le enormi mani brune cercavano la preda con impazienza. D’improvviso, Tah’mon strattonò la catena. La bestia rispose tirando con forza e fu a quel punto che Tah’mon lasciò la presa. Il contraccolpo fiondò l’arto della scimmia indietro e Tah’mon le piantò a due mani il kukri nel fianco scoperto.

L’esperienza gli diceva che il suo affondo era mortale. Ma l’esperienza, a volte, inganna.

Le braccia del mostro si serrarono sul barbaro che si trovò schiacciato in una presa d’acciaio. Tentò di forzare la morsa facendo leva sulle gambe e per un momento sembrò poterci riuscire, ma poi la scimmia lo sollevò da terra negandogli l’appoggio e strinse con maggior forza. Tah’mon soffocò un lamento quando le costole si spezzarono. La bestia lo portò lentamente all’altezza del volto, forse per percepire la sua vittima da dietro le cataratte figlie del buio eterno. Un tributo alla prima preda che gli avesse resistito, seppur poco. Tah’mon ci sperava. Appena fu all’altezza giusta, sputò il poco etere che ancora serbava in bocca sugli occhi del mostro che portò le mani al viso, lasciandolo cadere. Atterrò prono, accanto alla torcia accesa. La raccolse, si alzò e, gemendo, la scagliò sul volto del nemico. L’etere s’incendiò e l’urlo della bestia in fiamme gli fece gelare il sangue.

“Ce l’ho! Andiamo!” Sentì la voce della bimba e voltando lo sguardo notò la debole luce del Visore, sotto l’arco di pietra. Sgusciò via mentre il mostro si dimenava tentando, invano, di afferrarlo. Al limitare della cripta, il barbaro incespicò su una pietra. Il mostro lo sentì e, folle dal dolore, si lanciò nella sua direzione in una carica cieca. Il corpo mastodontico s’abbatté contro l’arco di pietra, proprio nell’istante in cui i due stavano uscendo dalla cripta. Le antiche colonne andarono in briciole e l’intera volta cadde separandoli dalla bestia ferita. Sahìra protese il Visore davanti a sé, illuminando la loro corsa sugli scalini che portavano all’uscita. La luce del sole li abbagliò, ma il sibilare di numerosi dardi disse loro che erano in pericolo.“La porta è crollata, la via è aperta!” suggerì Sahìra, indicando i cultisti che si avvicinavano a ventaglio.

Tah’mon afferrò la mano della bimba e corse sul retro del tempio. Le costole rotte gli mozzavano il fiato, ma non c’era tempo per provare dolore.

Un sentiero serpeggiava tra le mangrovie in direzione ignota. Sahìra correva agilmente tra i rami, mentre il barbaro li spezzava con la sua mole. Ma la via terminò poco distante in una piccola radura al cui centro giaceva uno scheletro con indosso la tunica degli stregoni del sud. La cassa toracica era invasa da mangrovie diverse dalle altre: erano rosse e il loro crescere incessante non saliva verso la luce, bensì strisciava al suolo. Tah’mon notò un pugnale ricurvo piantato in profondità tra le scapole dello scheletro. “E’ lo stregone M’dina!” esclamò Sahìra.

“Kazìm, quel bugiardo assassino!” Il barbaro sputò in terra.

Dietro di loro, nella giungla riecheggiarono le grida dei cultisti. Tah’mon estrasse il pugnale.

“Scappa, io li terrò occupati!”

“No, non ti lascio. E senza sapere da che parte andare, morirei in un’ora.”

Tah’mon annuì.“Allora vieni, piccola. Qualcuno ci precederà nell’oltretomba!” Sahìra lo affiancò, in una mano stringeva la Mosca di Giada, mentre sul palmo dell’altra vorticava una trottola dorata.

Poi, dietro di loro, si udì uno scricchiolio di ossa. La cassa toracica dello stregone si era spaccata a metà e al suo interno c’era un fiore vermiglio. Sopra allo scheletro aleggiava uno spettro silenzioso: un uomo di mezz’età, col volto smunto e un’espressione di profonda inquietudine negli occhi. Tah’mon sostenne lo sguardo.

“Cosa vuoi, spettro?” disse con fermezza.

Lo stregone guardò il proprio scheletro in pezzi e il pugnale che gli aveva tolto la vita. Rivolse al barbaro uno sguardo di supplica, ed egli capì.

Si chinò sul cadavere. Il fiore si schiuse rivelando un seme e Tah’mon lo mise in tasca. Tornò a guardare lo stregone, in un tacito giuramento. Lo spettro accennò un sorriso, alzò un braccio indicando loro la via di fuga, poi svanì.

Il barbaro fece un cenno.“Andiamo Sahìra. Ho due promesse da mantenere”, disse inoltrandosi nella giungla.

 

Un grido soffocato si spense nella notte, tra le tende colorate del bazar.

Il cadavere venne trovato all’alba. Di lui non rimaneva che pelle e tendini su una stuola. Accanto al corpo, un sacco di iuta aperto rivelava il suo misero contenuto: una bottiglia vuota di liquore, una cerbottana, forbici arrugginite e una bizzarra collana con un molare di una scimmia. Nessuno seppe dire chi fosse, stritolato tra rami di mangrovia rossa che marcivano alla luce del nuovo sole.

 

 

 

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