E.R. Eddison

Articolo di Davide Mana, tratto dal sito Strategie Evolutive.


Cosa penso di Eddison.
Io non penso a Eddison.
Mi limito a evitare il più possibile l’alcova che contiene la sua statua, in nero basalto, ed a genuflettermi lì davanti di quando in quando, conscio che non sarò mai come Eddison, e forse è una fortuna.
Io sono solo uno che suona il piano al piano bar del fantastico.

Oggi lo conoscono in pochi, E.R. Eddison.

C.S. Lewis lo lodava sperticatamente.
A John R.R. Tolkien piaceva come scriveva, ma trovava la moralità della sua narrativa discutibile.
(non avevamo appena lasciato questa festa?)
Dal canto suo, Eddison considerava l’opera di Tolkien “moscia” (beh, ok, lui era un gentleman, usava termini più forbiti. Ma la considerava moscia).

Per alcuni autori – Leiber tra loro, ma anche Silverberg, e K.E. Wagner – nulla di più eccelso venne mai scritto, nell’ambito del fantasy, quanto The Worm Ouroboros, che Eddison pubblicò nel 1922.
Persino Moorcock ne parla bene, e ne loda l’abilità nel tracciare cattivi tridimensionali.
E M. John Harrison ha ammesso una certa influenza, in gioventù.
Io, tanto per fare come al solito il bastian contrario, preferisco i tre romanzi di Zimiamvia.

Eddison non aveva tempo per inventarsi strani linguaggi e scriverci poesiole leziose.
Mistress of Mistresses, l’unico volume della trilogia ziamiamviana correntemente di facile reperimento, con quel suo titolo un po’ equivoco (buttatelo in Google e vedrete!) si apre con una dedica

W.G.E.
a te, madonna mia
ed al mio amico
Edward Abbe Niles
io dedico
questa
visione di Zimiamvia.

E poi, bang!, una pagina di Baudelaire.

E poi il primo capitolo, con il suo stile da monologo, scritto in seconda persona

Lascia che io raccolga i miei pensieri un poco, seduto qui da solo con te per l’ultima volta, in quest’alta finestra occidentale del tuo castello che hai costruito così tanti anni or sono, perché incombesse come il nido di un’aquila di mare sulle pareti grigie d’acqua del tuo Raftsund. Siamo fortunati, che questo sia dovuto accadere nella stagione della piena estate, piuttosto che in qualche notte infestata di troll dell’Inverno Artico. Almeno, io sono fortunato. Perché c’è pace in queste noti di Luglio Artico, in cui il sole a malapena s’inchina sotto all’orizzonte per svegliare con un bacio la lunga alba. E su di me, seduto nel bovindo sui tuoi cuscini di tessuto d’oro ed i tuoi tappeti di Samarkanda che spezzano il gelo del granito, qualcosa spande la pace, come quei grandi gigli dal colore sulfureo nel tuo vaso Ming spandono il loro profumo nell’aria.

E tanti saluti agli Hobbit ed ai loro buchi, saremmo tentati di dire.
Era il 1935.

Gli eroi di Eddison sono tutti nobili e sprezzanti nei confronti della plebe, le loro donne sono tutte bellissime ed orgogliose della propria bellezza. e volere è potere nelle terre di dei Tre Regni di Zimiamvia.
Ed in effetti, nascere meno che eroi in Zimiamvia significa venire calpestati dalla cavalleria o fatti a fette dai fanti, ma comunque avere una vita breve, e priva di significato.
Cosa narra Mistress?
Una guerra di successione.
Il vecchio re Messentius era un uomo di polso, ma il suo erede è un debole (e anche abbastanza bastardo), e gli intrighi si intrecciano e si sovrappongono, mentre i nobili pianificano il proprio sanguinoso percorso di ascesa sociale, e la gelida, Lady Fiorina decide di giocare la propria mano – poiché cosa possono gli uomini contro le arti di una donna?
Non aspettatevi sesso e sciabole, non aspetatevi la commediaccia, non aspettatevi nulla se non la più cupa meditazione sulla fallibilità umana, e la più esilarata celebrazione delle armi, della volontà, del destino.
Il testo fluisce con una cadenza pre-dickensiana, usando le parole per costruire strutture meravigliose, mentre la tragedia – esiste forse un’altra forma narrativa che possa soddisfare i signori di Zimiamvia? – si dipana come un meccanismo ineluttabile fra paesaggi barocchi, dialoghi dotti ed eleganti, ed imprese eroiche.
Al centro dell’azione, Lessingham, l’unico uomo fidato a corte, rischia di fare la fine di Rosencrantz e Guildernstern – perché se uno spettro infesta le pagine di Eddison, certo non è quello di un pulcioso scaldo dell’età del ferro, ma appartiene a Bill Shakes in persona, il Bardo di Stratford.

Ecco, io leggo tre pagine di Eddison e mi fa questo effetto.
Pensate in che condizioni mi può ridurre attraversare le quasi mille pagine della trilogia di Zimiamvia.

E dire che la trilogia è incompleta – Eddison morì prima di completare The Mezentian Gate.
Che sarebbe poi il primo dei tre libri, cronologicamente.
Primo, pubblicato per ultimo, e incompiuto.
Che ci sta anche – considerando che il lavoro più popolare e facilmente reperibile di Eddison, The Worm Ouroboros, si chiude su se stesso tornando a cominciare da capo.
Era fatto così, Eddison.
Quanto doveva trovare noiose, quelle lunghe ore in ufficio!

Eddison era un dipendente dell’Ente per il Commercio, e ricevette un cavalierato per i suoi servigi – ma è chiaro che sotto sotto covava qualcosa di molto più feroce e belligerante della vita in mezzemaniche.
Non per nulla aveva interessi ampi e variegati – amava l’arte (possedeva un Matisse) ed era uno scalatore, un frequentatore dei balletti e dei concerti, un fautore della vita all’aria aperta. Aveva studiato l’Islandese per leggersi di prima mano le saghe nordiche.
Come si conviene, Ouroboros è un colossale baraccone pieno di battaglie, tradimenti, politica e colpi di scena, per tacere della passione che spazza i protagonisti come un uragano estivo.
Il testo completo è disponibile tramite il progetto Gutenberg – ed è un bene, perché Eddison tocca leggerlo in originale, o non rende niente.
La vecchia edizione Fanucci è quasi illeggibile (e non invidio chi si è dovuto sobbarcare la traduzione, perché è uno di quei lavori che ti segnano per sempre).

Ouroboros usa un framing device abbastanza trito, che colloca la storia su Mercurio e passa in rassegna un vasto cast di nobili protagonisti, impigliatio in una situazione politica che scivola in poche (relativamente) pagine, in guerra guerreggiata.
L’avvio è lento, poco piacevole, legnosetto anziché no.
Poi Eddison trova il ritmo.
E poi, fuoco alle polveri.
Dopo svariate centinaia di scontri epici, ammazzamenti in tutte le salse, tradimenti orribili, scontri con mostri leggendari, cerche per artefatti meravigliosi, ancora ammazzamenti e tradimenti, i protagonisti decidono che in fondo è stato un gran bel divertimento, ed implorano gli dei di poter ricominciare da capo.
E la storia riparte dal secondo capitolo – o giù di lì.
Il che è agghiacciante, se considerate che venne pubblicato quattro anni dopo la mattanza della Grande Guerra.
Ma è proprio nel suo anacronismo assoluto – di linguaggio, contenuti ed intenti – che fa grande l’opera di Eddison.

Chiaro che uno come Tolkien (e non solo lui) davanti ad una cosa del genere, si trovava coi calzini arrotolati alle caviglie.
Per non parlare della snervante abitudine di Eddison di inventarsi i nomi dei personaggi a capocchia – anziché curare lì’aspetto etnolinguistico della questione – e di infarcire la narrazione con opesie scritte da altri (Omero, Saffo, Webster) invece di scriversi le sue (magari previa definizione di una lingua ed una grammatica fittizie ma coerenti, e la stesura di quei sei o settecento anni di background storico assolutamente essenziali…)

C’è in Eddison, mescolata all’erudizione ovvia, la passione per la narrazione.
Eddison è un emotivo, che ama personaggi colossali che compiono scelte categoriche.
Non per nulla Lyon Spague de Camp lo definì “Superuomo in bombetta” nel fondamentale Literary Swordsmen and Sorcerers.

Ed ora qualcuno potrebbe dirmi, ah, ma allora fai tante storie per il razzismo di Tolkien, e poi ti leggi un libro di un fascio come Eddison.
Ma sarebbe un’osservazione sciocca.
Poiché Eddison non desidera insegnarmi nulla, non ha un intento morale, considera probabilmente la morale una cosa per i contadini, il Bene e il Male concetti vuoti nell’esistenza dei grandi, e la sola giustificazione della sua arte è l’arte, l’unica giustificazione dell’avventura è l’avventura, l’unica giustificazione della passione è la passione.
E comunque, gli eroi e gli antieroi di Eddison – e le sue donne! – non hanno bisogno di giustificazioni.

Leggetelo, se osate.
E leggetelo ad alta voce.

Davide Mana

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