La letteratura Sword&Sorcery affonda per gran parte le sue radici nei miti e nelle leggende delle più antiche civiltà del mondo. Per i grandi autori di Heroic Fantasy, infatti, le saghe nordiche, ma anche (come vedremo) la storia e le mitologie delle popolazioni arcaiche del mediterraneo, rappresentano le principali fonti di ispirazione letteraria, i modelli da cui partire per dare forma e spessore alle loro opere.
Lo scopo di FantaMithology sarà dunque quello di individuare i modelli mitologici più importanti dei grandi romanzi Heroic Fantasy e S&S, analizzandone i temi mitici. Non si tratterà, quindi, delle classiche (e sempre utili) recensioni, cui al contrario spesso ci appoggeremo, ma di una rubrica tematica di fanta-mitologia, una sorta di appendice ai testi fantasy con cui svelare qualche piccolo mistero di “riscrittura” e soddisfare – si spera piacevolmente – le vostre curiosità. Siete pronti? Incominciamo!
FantaMithology: L’Anello del Tritone di L. Sprague de Camp
Nato della penna di L. Sprague de Camp, L’Anello del Tritone, primo libro del ciclo di Pusadian, fu il secondo romanzo di genere Heroic Fantasy pubblicato dalla storica Fantacollana Nord (in Italia nel 1973, ed. orig. 1951). Nel libro si raccontano le vicende di Vakar del Lorsk e del suo viaggio in cerca di un magico anello astrale, unica difesa contro l’ira degli dèi.
Iniziando la lettura, il primo elemento “spiazzante” per chi sia nuovo del genere è certamente l’ambientazione. De Camp, infatti, colloca le vicende narrate in un’epoca protostorica antecedente al fiorire delle grandi civiltà del bacino del mediterraneo, ma con un corredo culturale e socio-economico a metà fra una fantastica età del bronzo e il periodo immediatamente precedente. A dispetto di quanto una simile impalcatura di fondo potrebbe far pensare, i toni del romanzo delineano un’atmosfera umoristica brillante e coinvolgente. La storia, inoltre, è ricca di azione e di colpi di scena, e immerge in una caleidoscopica avventura sull’asse narrativo del viaggio e della quest.
LA TRAMA
Radunati in concilio, gli dèi avvertono una greve minaccia su di loro: la fine del loro tempo si avvicina, e a causarla, secondo Drax, dio tritoniano della guerra, sarà uno dei membri della famiglia reale del Lorsk, uno stato del continente di Poseidonis (o di Pusahd), in procinto di inabissarsi. Così, manifestatisi al re Zeluud, signore delle isole Gorgadi, le divinità si preparano ad appoggiare la conquista gorgoniana di Poseidonis. Ma nel Lorsk, la strega Gra avverte il pericolo e, interrogata dal re e dai suoi figli, indica la soluzione: “Inviate il principe Vakar a cercare la cosa più temuta dagli dèi.” Il principe, in un viaggio ricco di avventure, creature fantastiche, alleanze e duelli, scoprirà presto che ciò che gli dèi temono è il Tahakh, una stella caduta dal cielo, dalla quale è stato forgiato il leggendario Anello del Tritone.
Per un approfondimento sulla trama cfr. La recensione di Francesco La Manno(http://italianswordandsorcery.altervista.org/recensione-lanello-del-tritone-the-tritonian-ring-1951-di-lyon-sprague-de-camp/)
L’ambientazione, la mitologia, i cenni storico-antropologici e i modelli filosofici sottesi al romanzo si ispirano a quelli dei popoli antichi del mediterraneo, di cui De Camp si rivela esperto conoscitore: troviamo sacrifici e libagioni agli dèi, creature mitiche, divinità ellenizzanti, sibille, indovini e streghe (come Gra, il cui nome ricorda le Graie, mitiche sorelle delle Gorgoni), luoghi, istituzioni e nomi mitici. Gli elementi tratti dal mondo classico sono davvero tantissimi. Abbiamo pensato di scegliere i più importanti e di esaminarne forme e riscritture. Buona lettura!
Il Concilio degli Dèi
Il romanzo inizia con una classicheggiante assemblea divina dagli accenti un po’ briosi, che ci ricorda, con le dovute differenze, lo stile parodistico del Concilio degli dèi di Luciano di Samosata, un autore greco del II d.C. La parodia di De Camp, però, fa per lo più il verso ai grandi concili degli dèi omerici – nello specifico, a quello dei primi versi dell’Odissea (I, 32-95).
Nel brano omerico, Atena perora la causa di Ulisse chiedendo a Zeus di aiutare l’eroe a ritornare finalmente a casa. Il Padre degli dèi acconsente alla richiesta, impegnandosi a placare la collera di Poseidone, adirato con l’Itacese a causa dell’accecamento del figlio Polifemo.
Nell’assemblea divina di De Camp, invece, gli accenti sono assai meno aulici. Gli dèi di questo Heroic fantasy sono spiritosi e suscettibili, si scambiano insulti, si zittiscono, si rivolgono l’uno all’altro con toni sarcastici, chiamandosi “collega” e “faccia di seppia”, usano nomignoli ancor meno lusinghieri, e infine, specie quelli marini, si grattano le incrostazioni.
Il motivo della loro riunione, a differenza di quello del consesso olimpico, non è volto a proteggere il loro favorito, bensì a distruggere un mortale insidioso e tutto il suo popolo. Inoltre, se nel testo omerico gli dèi decidono le sorti umane e si volgono in loro aiuto, inviando ad esempio Hermes, il messaggero degli dèi, a consigliarne le scelte, gli dèi di De Camp non solo sono preoccupati che proprio dai mortali giunga la causa della fine divina, ma non riescono neppure a comunicare con loro. È quanto accade a Drax, dio tritoniano della guerra, il quale vorrebbe manifestarsi in sogno al re dei Tritoni, Ximenon, ma ammette seccamente:
«[…] da quando re Ximenon è venuto in possesso di quel maledetto anello, non riesco più a entrare in contatto con lui o con i suoi».
Anche il principe del Lorsk, Vakar, futuro responsabile della fine degli dèi d’Occidente, è «così ottuso, spiritualmente parlando» che comunicare con lui, per le divinità, risulta impossibile:
«I tentacoli di Entigta fremettero:
– Se non possiamo comunicare con questo mortale, come faremo a convincerlo a cambiar strada?
– Potremmo chiedere consiglio ai nostri dèi… – propose scherzando il dio dei coraniani, un piccoletto con orecchie da pipistrello. Tutti gli dèi risero, da perfetti scettici incalliti».
Le divinità dell’Anello del Tritone sono dèi che, paradossalmente, non credono agli dèi. Sembrano rappresentare l’inversione parodistica delle divinità classiche: brutti e mostruosi, con tre occhi e aspetti grotteschi, più vicini a mosaici animaleschi che ai bellissimi corpi antropomorfi delle divinità greche, chiamano “scienza” i loro poteri divini e chiacchierano con un linguaggio scanzonato e derisorio. Ritorneranno alle fine del romanzo, come nella chiusa dei drammi attici, ma ben lontani dal riportare nel mondo un assetto ordinato di saggezza e pace.
Il continente sommerso: Atlantide e Poseidonis
Nel secondo capitolo del romanzo, il dio tentacolare Entigta appare in sogno al re gorgoniano Zeluud per convincerlo a muovere guerra al Lorsk e conquistare il continente Poseidonis. L’impresa però, è assai audace: un re di tre piccole isole contro un intero continente dalla rinomata fama guerresca.
«Cosa succederà se falliremo?
— Il regno degli dèi finirà. A meno che la Poseidonis non sprofondi nel mare.
— Cosa?
— Non sai che il continente si sta abbassando? Che le acque sono già salite di tre piedi nello scorso secolo? Noi possiamo accelerare questo processo, e in capo a tre secoli più nulla sporgerà dalle acque, se non le cime più alte. — Le pupille verticali del dio si persero nel vuoto. — […] E non sarà tutto. Senza il rame della Poseidonis, forse gli uomini dimenticheranno l’arte di lavorare i metalli e ritorneranno alla pietra».
Poseidonis – è evidente – è la riscrittura fantasy della più famosa Atlantide, l’antico continente sommerso di cui ci parla Platone nel Timeo e nel Crizia, fatto inabissare ora dagli dèi, in collera per la tracotanza dei suoi abitanti, ora in seguito a un terribile terremoto, di origine più o meno divina.
Come Poseidonis, anche Atlantide era un’isola di conquistatori e flotte navali, una civiltà avanzatissima, in cui si trovava un metallo più che prezioso, il mitico oricalco, il “rame di monte” (da oros “monte”, e chalcós, “rame”), paragonabile all’oro – in latino si dirà infatti aurichalcum, ovvero “rame d’oro” (aurum).
Anche il nome scelto da De Camp per il suo continente sommerso non è causale: Platone, infatti, racconta che quando gli dèi si spartirono le terre emerse, proprio a Poseidone, il dio del mare, toccò in sorte Atlantide. Presa in moglie la bella mortale Cleito, il dio divenne padre di ben cinque coppie di gemelli maschi (anche Vakar, il protagonista del romanzo, ha un gemello, l’infido Kuros), cui spartì la terra di Atlantide, divisa in cerchi concentrici di terra e acqua. Ma quando i discendenti di Poseidone furono corrotti dal vizio e dalla superbia, Zeus radunò sull’Olimpo gli dèi immortali ed essi, in assemblea, stabilirono la fine di Atlantide. Proprio come gli dèi di De Camp.
Porfia e Calipso: le signore di Ogygia
A Sederado, capitale di Ogygia, nelle Hesperidi, vive la regina Porfia. Le Hesperidi sono un altro luogo della memoria mitica: nel mito greco, infatti, Esperidi sono le «Ninfe del Tramonto», che abitano l’estremo occidente, il cui compito è quello di stare a guardia dei pomi d’oro, frutti divini che crescono nel loro omonimo giardino.
Ma anche la bellissima Porfia ci ricorda qualcuno: seducente e voluttuosa, questa regina senza sposo accoglie Vakar presso la sua corte, il quale ne rimane invaghito e ne è ricambiato. Lei lo tiene con sé per un po’, nel regno di Ogygia. Ogygia, però, è anche il nome dell’isola in cui, secondo il mito, viveva la ninfa Calipso (in greco “colei che nasconde”), la quale ospitò il naufrago Ulisse per dieci lunghi anni (secondo altri per sette o per uno solo), offrendogli di diventare immortale e di prenderla come sposa. Ma Ulisse finì per abbandonare la ninfa, desiderando più di ogni altra cosa di ritornare a casa.
Nei capitoli finali del romanzo, Vakar fa ritorno a Ogygia, dove incontra di nuovo la bella Porfia, che gli si offre in sposa, proprio come Calipso. Ma prima di tutto, il principe deve compiere il suo dovere: tornare nel Lorsk e salvarlo dai gorgoniani. A poco valgono le rimostranze della bella regina, preoccupata per le ambigue parole di un oracolo:
« [Vakar] Le restituì altrettanta passione, ma si rifiutò ostinatamente di rimandare la partenza, anche solo di un paio di giorni. Era ancora addormentata quando lui e Ryn uscirono silenziosamente da palazzo, prima che sorgesse l’alba. Mentre la galea dello Zhysk usciva lentamente, cigolando, dal porto di Sederado, Vakar si appoggiò alla murata poppiera e guardò tristemente la bella città, rosata dal sole nascente».
Come Vakar, anche Ulisse, dopo la lunga notte di amore passata con Calipso, costruisce una zattera per lasciare l’isola, come è nel disegno degli dèi. Se in De Camp è l’oracolo poco chiaro di un mago a parlare del ritorno del protagonista, in Omero è un dio, Hermes, che ordina a Calipso di lasciare andare l’eroe, secondo il volere di Zeus.
Ma il passo citato del romanzo, e anzi l’intero brano della discussione tra i due amanti, sembra riecheggiare ancor di più alcuni celebri versi dell’Eneide (cfr. libri IV e V), in cui si narra della silenziosa fuga di Enea dalla regina Didone:
«E intanto Enea con la nave teneva sicuro la rotta
e tagliava le onde, torbide per il vento d’aquilone,
volgendosi a guardare le mura che già rilucevano
delle fiamme dell’infelice Didone» (Virgilio, Eneide, V, 1-4).
La Filosofia
Ogygia, nel romanzo, è chiamata «l’Isola dei Filosofi». Questo attira molto il principe Vakar, che è un eroe sui generis, desideroso non tanto di mostrare il suo valore in duello o di conquistare reami stranieri, bensì di ritirarsi a vita privata per dedicarsi allo studio contemplativo.
A Ogygia, facciamo così la conoscenza di Rethilio, un saggio che introduce alcuni dei più famosi temi filosofici dell’antichità: il problema dell’origine della vita, il mito dell’uovo cosmico primordiale, il dibattito sull’immortalità dell’anima e sulla metempsicosi (la reincarnazione – o trasmigrazione – delle anime) e altro ancora:
«Molti miei colleghi — continuava Rethilio, — pensano che se i re si volessero dedicare allo studio della filosofia, o se la gente fosse disposta a farsi governare dai filosofi, il mondo non sarebbe così brutto. In realtà, però, sembra che ai re ne manchi o il tempo o la disposizione».
Questa non è altro che la teoria del governo dei filosofi come base della città ideale, un tema caro al pensiero filosofico greco: lo leggiamo, ad esempio, nella Repubblica di Platone. Rethilio sembra un platonico incallito. Lo dimostra un’altra celebre teoria che il filosofo di Ogygia presenta nei capitoli finali del libro, quando Vakar chiede informazioni sulla possibilità di seguirne gli insegnamenti, anche “a pagamento”, come si faceva in Grecia ai tempi dei Sofisti. Ma De Camp rende l’usanza ancor più realistica facendo dire a Rethilio che «corsi pubblici» e «lezioni private» hanno un prezzo ovviamente diverso…
Ma andiamo all’ultima dottrina “platonica” del filosofo:
«Molti uomini hanno una sorta di voce interiore, che suggerisce loro la strada giusta da seguire. Alcuni pensano che si tratti di uno spirito custode, altri di un dio favorito, e altri ancora ritengono che sia l’anima stessa. Non so quale di queste interpretazioni sia quella giusta, ma so che, quando non sì presta ascolto alla voce, lo si fa a proprio rischio e pericolo, perché essa poi si vendica. Così, se voi rubate nonostante la proibizione della voce interiore, essa vi farà inciampare quando le guardie vi inseguiranno, e in tal modo vi metterà nelle mani della giustizia».
Si tratta chiaramente della teoria del daimon di Socrate, riportata da Platone nell’Apologia (XIX) e nella Repubblica(X), una sorta di voce interiore o spirito guida che ciascuna anima, prima di incarnarsi in un corpo mortale, sceglie per sé insieme al suo destino, e che impedisce e allontana l’individuo dal compiere il male, per quanto le è possibile. Uno “spirito” presente in tutti gli uomini, benché in gradi e forme diverse, che li indirizza nel destino prescelto e che è importante assecondare.
Ma Rethilio non è l’unico filosofo del romanzo. Un mito platonico si ritrova anche sulle labbra di Abeggu di Tokalet, venuto da lontano per studiare filosofia alla scuola di Ogygia. Questi riporta un’informazione interessante:
«Qui [a Gamphasantia] pensano che la scrittura sia una pericolosa innovazione straniera; tutta la conoscenza viene trasmessa per via orale».
La diatriba sull’utilità o dannosità della scrittura era un argomento centrale nel mito di Theuth e Thamus. Nel Fedro(274 c-276 a), Platone racconta che il dio Theuth fu l’inventore dell’alfabeto e di altre innovazioni. Venne dunque al cospetto del re d’Egitto, Thamus, è gli presentò le sue invenzioni. Di ognuna il re chiedeva l’utilità, e quando Theuth giunse a presentare la scrittura come una scienza che avrebbe reso gli Egiziani «più sapienti» arricchendone la memoria, il re rispose più o meno così:
«Hai esposto il contrario del vero. La scrittura ingenererà oblio, non memoria. Infatti, chi l’apprenderà cesserà di esercitare la memoria, perché, fidandosi dello scritto, richiamerà le cose alla mente non più dall’interno di sé, ma dell’esterno, grazie a dei segni estranei. Tu, dunque, non offri memoria e saggezza, ma solo ingannevole apparenza ai tuoi discepoli. Costoro, grazie a te, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla».
Un altro filosofo del romanzo è il mago Kurtevano, taumaturgo e incantatore, che introduce il quesito su dove risieda nell’uomo l’intelletto:
«Vedete — proseguì Kurtevan, — ci sono tre correnti di pensiero, per quanto riguarda la sede dell’intelligenza. Alcuni dicono che si trova nella testa; altri nel cuore; altri ancora nel fegato. Ora, a quanto pare, Awoqqas ha dimostrato che la prima delle tre ipotesi è quella giusta».
Lo stesso quesito attanagliava gli antichi Greci, e noi moderni che ne studiamo la cultura. A differenza di quanto ritengono i maghi del romanzo, per «l’uomo omerico» l’anima era concepita come l’insieme di tre entità che corrispondono a tre luoghi o organi del corpo: la psyché (anima o soffio vitale), il nóos (l’intelletto), e il thymòs(l’animo o il cuore). Le cose sono però certamente più complesse di così, e non è questa la sede per approfondirle, ma è evidente che De Camp conosca le più importanti diatribe delle filosofie greche ed ellenistiche e le riscriva e distribuisca con cura nel suo fantasy, inventando un’originale forma di “magia filosofica”.
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