l’Unicorno. Nato tra l’India e la Cina, il mito dell’unicorno si radica nell’Occidente medievale conservando gli elementi simbolici fondamentali: la scontrosità, il carattere mirabile del corno, il rapporto con la salute, con le acque, con la vergine, con l’albero. Ma d’altra parte, il simbolo è per sua natura ambivalente: e così, al pari di altri animali, anche all’unicorno spetta di rappresentare talora il Cristo, talaltra il suo avversario.
L’Unicorno non è fenomeno ben definito, ma un essere favoloso dalle molteplici forme: cavalli, asini, pesci, draghi, scarabei ecc., tutti unicorni. Si tratta quindi, per essere più esatti, del “motivo” dell’ Unicorno (liocorno o alicorno).
L ‘unicorno sembra esser nato fra Cina e India: in queste aree, quanto meno, si radicano le prime testimonianze di esso o di qualcosa che gli somiglia; mentre in Occidente esso è soltanto un emigrante, qualcosa d’importato. Per il Li-Ki, i quattro animali benevoli sono il drago, la feroce, la tartaruga e il “K’i-lin”, nome che sembra riassumere il principio maschile e quello femminile e che è raffigurato come un grande cervo con coda di bue e zoccoli di cavallo, armato di un solo corno, dai peli dorsali di cinque colori e da quelli del ventre gialli o bruni; non calpesta erba viva né uccide animali viventi; compare quando appaiono sovrani perfetti, e la sua comparsa è di cattivo auspicio se viene ferito; nessuna confusione nella cultura cinese era possibile tra il rinoceronte, animale ben conosciuto, e il K’i-lin, animale mitico la cui comparsa era associata a eventi straordinari. Il rapporto fra animale cornuto -interpretabile come unicorno – e guarigione da certe malattie si trova in un inno dell ‘ Atharvaveda, dove sembra si alluda a una specie di antilope-unicorno; nel Satapatha Brahmana, il pesce-unicorno che salva Manu dal diluvio universale è un avatar di Visnu (ancora una volta, l’associazione tra corno, acqua e salute) ; infine, è al Mahābarāta che bisogna risalire per incontrarsi con l’episodio del rapporto fra la vergine e l’unicorno: l’eremita Rishyashringa (“Corno di Gazzella”), figlio di Ekasringa (“Unicorno”), viene indotto a uscire dal suo romitorio dalla figlia del re, che lo sposa (ma, secondo una diversa versione, viene sedotto da un’etera: l’episodio è comunque di ardua datazione, poiché tutto l’immenso poema è stato composto per stratificazioni tra IV secolo a.C. e III d.C.). Nella tradizione mazdaica persiana, tramandataci nel Bundahishn, si parla invece di un immenso onagrobianco unicorno, a tre zampe, che purifica l’oceano orinandovi e che ha una qualche affinità con l’albero Gokard, anch’esso sorgente nell’oceano, e che è considerato il rimedio contro tutti i mali.
Ctesia di Cnido, medico, storico e viaggiatore vissuto fra Ve IV secolo a.C., che fu uomo di fiducia del Gran Re di Persia Artaserse II: tra le sue opere, egli ne compose una, Indikà, sull’India «In India ci sono degli asini selvatici grandi come cavalli e anche di più. Hanno il corpo bianco, la testa rossa e gli occhi blu. Sulla fronte hanno un corno lungo circa un piede e mezzo. La polvere di questo corno macinato si prepara in pozione ed è un antidoto contro i veleni mortali. La base del corno, circa due palmi sopra la fronte, è candida; l’altra estremità è appuntita e di colore cremisi; la parte di mezzo è nera. Coloro che bevono utilizzando questi corni come coppe, non vanno soggetti, si dice, alle convulsioni o agli attacchi di epilessia. Inoltre sono anche immuni da veleni se, prima o dopo averli ingeriti, bevono vino, acqua o qualsiasi altra cosa da queste coppe. Gli altri asini, sia quelli domestici sia quelli selvatici, nonché tutti gli animali con lo zoccolo indiviso, non hanno ne astragalo ne fiele, ma questi hanno sia l’uno sia l’altro. Il loro astragalo, il più bello che io abbia mai visto, è simile a quello del bue come aspetto generale e dimensioni, ma è pesante come piombo e completamente color cinabro».
Queste parole – delle quali ignoriamo che parte spetti a Ctesia o a posteriori rielaboratori e che parte invece a Fozio – hanno fatto versare i soliti fiumi d’inchiostro, I colori, anzitutto: Ctesia ha forse visto animali parati a festa e dipinti per l’occasione (come, per l’appunto, è uso indiano), oppure immagini di essi, magari su stoffe? O si sta adeguando a un codice simbolico (e si ricorderà che anche il k’i-lin cinese è colorato)? E poi, a che animale si riferisce?
Ecco altri tipi di animale, che evidentemente Plinio considerava affini, ma non identici rispetto al rinoceronte :
“In India conoscono anche buoi dagli zoccoli compatti, con un solo corno (unicornes) …La bestia più feroce è il monoceros, nel resto del corpo simile al cavallo, nella testa al cervo, nelle zampe all’elefante, nella coda al cinghiale, dal muggito profondo, con un unico corno nero che sporge dalla metà della fronte per due cubiti. Dicono che questa bestia non può essere catturata viva”.
È evidente che qui Plinio si rifà a Ctesia e a quello che Aristotele aveva chiamato l’asino indiano; e che rinoceronte e monoceronte non potevano che essere per lui due animali diversi lo stesso si può dire – per il testo di un altro naturalista romano che però scriveva in greco, Eliano, il quale nel III secolo d.C. conosceva bene il rinoceronte e sapeva che anche i Suoi lettori lo conoscevano – al punto tale che riteneva inutile descriverlo – mentre parlava dell’unicorno come di un animale che viveva nell’interno dell’India, ch’era grande come un cavallo, di pelo rossiccio e che gli indigeni chiamavano kartàzonos. Il suo corno era nero e dotato di anelli (o spirali) ; era scontroso, e lottava anche con le femmine della sua specie salvo nel periodo degli amori.
Dalle dimensioni equine all’aspetto di terribile cavallo, il passo era breve: lo avrebbe fatto – mischiando Plinio ed Eliano – il responsabile di tante creazioni teratologiche del nostro medioevo, Giulio Solino, parlando del monoceros come un mostro dal corpo di cavallo, la testa di cervo, le zampe di elefante, la coda di maiale e un corno di meraviglioso splendore in mezzo alla fronte.
Che cosa può aver giustificato il fatto che l’unicorno è divenuto una figura simbolica di primaria importanza nell’immaginario cristiano?
Essenzialmente, la sua presenza – ancora sulla base di alcuni malintesi linguistici – nella Bibbia. Nei libri dei Numeri, del Deuteronomio, dei Salmi, di Giobbe, di Isaia, si parla spesso del Re’em. Si tratta di un animale arduo da identificare, ma che è stato messo in rapporto almeno etimologico-linguistlco con il rim arabo (l’orice) o con il rimu assiro (il grande uro).
A una specie di grande bufalo, talora rappresentato come unicorno, ha fatto ricorso la tradizione talmudica. n Il fatto è che la versione biblica in lingua greca, detta “dei Settanta” (sec. m d.C.) non esitò a rendere il termine re’em con la parola monòkeros e che tale traduzione, che ebbe fortuna, inserì l’unicorno fra gli animali della Bibbia.
È dal Physiologus greco, dove gli animali sono riportati all’unità di misura simbolica costituita da Gesù Cristo, che i dati proposti dalla precedente tradizione classica e la figura del forte animale biblico si armonizzano in una realtà mitica nuova: e compare la leggenda della vergine che può ammansire la fiera.
Già Tertulliano aveva paragonato la ferocia dell’unicorno al rigore del Cristo in quanto giudice, e il suo corno alla croce; Ambrogio e Basilio avvicinano il mistero dell’unicorno a quello dell’Unigenito, e Onorio di Autun, nello Speculum de mysteriis Ecclesiae, scrive :
«Per mezzo di questo animale viene rappresentato il Cristo, e per mezzo del suo corno la sua indomabile forza. Colui che si posò in grembo alla Vergine, fu catturato dai cacciatori; ovvero fu scoperto in forma umana dai suoi amatori».
Fra XII e XIII secolo, l’unicorno raggiunge il suo aspetto “classico”: è ormai – sia pure con parecchie varianti possibili – un candido cavallo dal mento barbato e dagli zoccoli bifidi (due attributi caprini), e reca sulla fronte un corno di narvalo. Si sottolinea il suo carattere di guaritore, sia perché il suo corno purifica le acque e allontana i veleni, sia perché – come si vede nell’unicorno donato da Candace, regina di Etiopia ad Alessandro nell’ Alexanderlied, oppure nel Parsival di Wolfram von Eschenbach incastonata nella sua fronte c’è una pietra preziosa, il carbonchio, dal magico potere. Il corno, il candore, l’elemento acqua avvicinano d’altronde l’unicorno al regime femmineo del simbolo, e di esso si fa talora non solo il simbolo del Cristo, ma anche della vergine stessa.
Il Physiologus Graecus narra che quando un serpente ha avvelenato l’acqua dell’abbeveratoio, gli altri animali, accortisi del veleno, aspettano che sia sceso nell’acqua un Unicorno, “poiché con il suo corno esso simboleggia la croce” e perché, bevendo, fa svanire l’efficacia del veleno. Il calice d’Unicorno, il calice che guarisce non è senza rapporto con il “calice della salvezza”, cioè col Calice Eucaristico, nonché con il calice utilizzato per gli oracoli.
Un punto solo resta ben saldo e garantisce la solidità dell’immagine stessa dell’Unicorno: il corno unico, come conferma il nome stesso dell’animale. L’unicorno costituisce «l’esempio più eclatante di quel processo di formazione mitica dei mostri» che Izzi definisce “processo di iperdeterminazione”, in cui un singolo elemento di un essere viene focalizzato e su di esso vengono addensati tutti i valori simbolici che si vogliono mettere in luce. Nel caso dell’unicorno tutti i poteri e le valenze simboliche sono racchiuse nel corno, perciò il resto dell’animale perde ogni valore, diventa evanescente e si presta a qualsiasi elaborazione formale.
D’altronde, il simbolo è per sua natura ambivalente: e così, al pari di altri animali nobili quanto lui, anche all’Unicorno spettò di rappresentare talora il Cristo, ma tal altra anche il suo avversario. La sua ferocia poteva essere interpretata come simbolo di malvagità; e san Basilio non aveva dubbi nell’intendere l’unicorno come il demonio, allo stesso modo del Libellus de natura animalium, che sentenziava: «L’alicornus indica il diavolo, in quanto così terribile e malvagio da non poter essere catturato se non dall’odore della verginità, cioè dalle buone opere e dalle virtù Il Physiologus Graecus dice, a proposito dell’Unicorno, che è “un animale dalla corsa veloce, che ha un corno solo, e che nutre malanimo verso gli uomini”.
La lingua ecclesiastica ha mutuato l’allegorismo dell’Unicorno dai Salmi, dove l’Unicorno (in realtà il bufalo) rappresenta anzitutto la potenza di Dio, come per esempio nel Salmo 28. 6 : “Et comminuet eas tamquam vitulum Libani et dilectus quemadmodum filius unicornium”;
nonché la forza vitale dell’uomo, come nel Salmo 91.11: “Et exaltabitur sicut unicornis cornu meum.” Alla forza dell’Unicorno è assimilata anche la potenza del male, per esempio nel Salmo 21. 22: “Salva me ex ore leonis; et a cornibus unicornium humilitatem meam.” Su queste metafore è basata l’allusione a Cristo di Tertulliano: “Di toro è la sua bellezza, corno dell’unicorno son le sue corna.” Egli sta qui parlando della benedizione di Mosè.
Il Talmud racconta come l’Unicorno sfuggì al diluvio universale: era attaccato esternamente all’arca perché, a causa delle sue dimensioni gigantesche, non poteva essere accolto all’interno. Allo stesso modo sopravvisse al diluvio Og, re di Basan. Non è escluso che tra Og e l’Unicorno esista un rapporto stretto: entrambi sfuggono al diluvio, essendo in qualche modo aggrappati all’esterno dell’arca; entrambi son giganteschi. Abbiamo poi visto che l’Unicorno è paragonato al monte Tabor e che anche Og è associato a una montagna: egli sradicò una montagna per scaraventarla sull’accampamento degli Israeliti.
In un midràsh il parallelo si spinge ancor oltre: l’Unicorno è un monte e viene minacciato da un leone; ora, nella storia precedentemente citata, Og è ucciso da Mosè, “servo di Yahwèh”, che nell’Antico Testamento è così spesso paragonato a un leone. Il midràsh dice:
Disse R. Huna bar Idi : “Ai tempi in cui David custodiva ancora i greggi, andò e trovò l’Unicorno (re’em) che dormiva nel deserto, e pensando che fosse un monte, vi salì sopra e vi pascolò (il gregge). Allora l’Unicorno si scosse e si alzò. E Davide lo cavalcò e arrivò fino al cielo. In quell’ora Davide parlò (a Dio) : “Se mi fai scendere da quest’Unicorno, ti costruirò un tempio di cento cubiti, come il corno dell’Unicorno.”[…] Cosa fece il Santissimo, che sempre sia lodato, per lui? Fece venire un leone, e quando l’Unicorno vide il leone, ne ebbe paura, si accovacciò davanti al leone, che è il suo re, e Davide scese a terra.
Un altro midràsh mostra l’Unicorno – che qui è chiamato esplicitamente “unicorno” (ha-unicorius) e non re’em – in lotta contro il leone. Dice il passo :
E nel nostro paese esiste anche l’Unicorno (ha-unicorius) che ha un grande corno sulla fronte. E vi sono anche molti leoni. E quando un Unicorno vede un leone, lo trascina in prossimità di un albero e vuole abbattere il leone. Ma il leone cambia posto e l’Unicorno colpisce con il suo corno l’albero, e il suo corno si configge così profondamente nell’albero che l’Unicorno non può più estrarlo, e allora il leone viene e lo uccide, e qualche volta accade il contrario.
Marco Polo, che aveva veduto degli “unicorni”, cioè dei rinoceronti, avvertiva che si trattava di brutte e grosse bestiacce, e che la storia della fanciulla vergine non rispondeva a verità.
Allora perché, fino ai medici del Rinascimento, ai cacciatori del Nuovo Mondo e agli psicologi del profondo, si è continuato a cercar l’unicorno? Evidentemente, perché Marco Polo e i bestiari parlavano due lingue diverse, e il rinoceronte visto dal primo non cancellava affatto la creatura mitico-allegorica proposta dal secondo, è questo diverso modo d’intendere la realtà che noi dobbiamo comprendere: questo, e questo solo, è il “disincanto” che bisogna realizzare rispetto alle radici del nostro Immaginario.
UNICORNO IN ALCHIMIA
Nelle Nozze chimiche di Rosencreutz appare un Unicorno d’un candore niveo, che fa la sua riverenza davanti a un leone. L’Unicorno, come il leone, è simbolo di Mercurio. Un po’ più tardi l’Unicorno si trasforma in “colomba” bianca, un altro simbolo di Mercurio, la cui forma volatile, lo spirihzs, è un parallelo dello Spirito Santo.
l’Unicorno, assieme al leone, all’aquila e al drago, è assimilato all’oro. L’aurum non vulgi è un sinonimo di Mercurio, come il leone, l’aquila e il drago.
In un poema intitolato Von dei Mateii und Prattik des Steins si legge:
Ich bin das iecht Einhom dei Alten,
W er mich kan von einandei spalten
Und widei zusammen Leymbt und ticht,
Das mein Leichnam nicht mehi aufibiicht…
[Io sono il vero Unicorno degli antichi,
Chi può scindere in due
E nuovamente saldare insieme il mio corpo,
Cosicché il mio cadavere non s’apra più…]
La vergine rappresenta la sua controparte femminile, passiva; l’Unicorno, invece, o il leone, la forza, selvaggia, indomita, maschile, penetrante, dello spiritus mercurialis. Poiché il simbolo dell’Unicorno fu utilizzato per tutto il Medioevo come allegoria Christi e dello Spirito Santo, tale relazione era nota anche agli alchimisti, cosicché, quando ricorrevano a questo simbolo, dovevano certo aver presente l’affinità, anzi l’identità, di Mercurio e Cristo.
È degno di nota il fatto che l’Unicorno maschile si chiami k’i, quello femminile Lin : l’unione dei due caratteri (k’i-lin) designa il genere in quanto tale. E ciò conferisce all’Unicorno una certa androginia. Il corno, in quanto segno di forza e potenza, ha carattere maschile; è però contemporaneamente anche un calice che, in quanto recipiente, ha significato femminile. Si tratta dunque di un “simbolo unificatore” che esprime la polarità dell’archetipo, l’Unicorno è L’Uno, in una immagine del “de lapide philosophico” Lambsprink ci pone una incisione dove in un leggiadro boschetto un cervo (Anima) e un Unicorno (Spirito) incedono fieri ma amichevoli l’uno verso l’altro. Il cervo ha la testa piegata di lato, a simboleggiare la sua resa all’unicorno che viene. L’unicorno, a testa alta, è la dignità dell’Uno a cui la molteplicità delle impalcature delle corna del cervo si riconsegna”. Mercurio, zolfo e sale, ovvero anima, spirito e materia, andavano cioè liberati dal loro aspetto fisico e trasfigurati in un senso spirituale. Gli esperimenti fisici su di essi fornivano la chiave analogica con cui interpretare i fenomeni psicologici dell’anima. L’analogia era infatti il principio filosofico che consentiva di desumere dal comportamento fisico di un elemento le proprietà spirituali ad esso corrispondenti
L’Unicorno mercuriale è uno dei simboli dell’Opera al Bianco, l’albedo, Rappresenta l’alba e la rinascita, Viene assimilata anche all’elemento acqua per la sua valenza purificatrice, e per il fatto che scopo finale dell’albedo è la creazione di un fluido o di un liquido vitale dalle virtù rigeneratrici, affine al mercurio o all’argento vivo, conosciuto come l’elisir di lunga vita.
Lo Spirito penetra, feconda la Materia e dalla stessa viene definito, determinato, liberato al suo “osservatore”, attraverso il suo “adsorbimento” (rendi fisso il volatile e volatile il fisso). La circolarità del processo inoltre ricorda molto l’immagine della Temperanza dei tarocchi, con il suo travaso di vasi d’oro e d’argento, quella stessa “complementarietà” dei due poli (spirito-materia) che si risolve in quel movimento che determina la vita, dall’alto al basso e dal basso all’alto, ben rappresentato infine dalle due “metà” sessuali dell’immagine; quel complesso “circolare, uroborotico” che li comprende entrambi e che normalmente chiamiamo Anima.
L’Unicorno come elemento maschile invece sta alla Vergine quindi come l’Eroe (zolfo) al Drago, in una evidente inversione di polarità dell’azione sessuale, per cui nel primo, l’elemento maschile (unicorno) viene addomesticato da quello femminile (vergine), nel secondo è l’elemento maschile (eroe) a domare quello femminile (drago). Gli aspetti “filosofali” della Vergine e l’Eroe infatti domano la controparte sessuale.
UNICORNO – ARCHETIPO
Come abbiamo visto l’Unicorno è equiparato in alchimia all’Opera al Bianco, l’Albedo. Nell’ambito della psicologia analitica, Jung equipara l’albedo alla rivelazione dell’archetipo dell’anima negli uomini, e dell’animus nelle donne. Il soggetto, secondo Jung, dopo essere divenuto consapevole degli aspetti negativi della propria Ombra, ha imparato a non proiettarli più all’esterno, bensì a confrontarsi costruttivamente con essi, uscendo dall’identificazione inconscia con la psiche collettiva indifferenziata, e ripiegandosi coscientemente, tramite la riflessione, nel processo di individuazione di sé. L’albedo consiste in definitiva nella distillazione dell’Io dall’inconscio.