Articolo di Gabriele C. Zweilawyer, tratto dal sito Zhistorica.
La Crociata Albigese rappresenta un episodio fondamentale nella storia d’Europa, dei rapporti fra eresia e religione e anche in quelli fra istituzioni civili ed ecclesiastiche.
Sull’Inquisizione è stato scritto molto. Basta andare in una qualsiasi libreria per trovarsi di fronte intere pile di libri dai titoli sensazionalistica, ma con poca attinenza all’effettivo fluire storico. In realtà, il discorso sull’organizzazione di una struttura stabile che avesse il compito di stanare e processare gli eretici è molto complesso, ed è impossibile scindere il discorso dal contesto socio-culturale in cui tutto ebbe inizio.
Come fonte principale ho scelto un testo del 1817-1818, La Storia dell’Inquisizione dell’abate Tamburini. Non fatevi fuorviare dalla carica ecclesiastica dello scrittore, Tamburini era un illuminista purosangue ed era mosso da una netta avversione verso gli inquisitori, tanto che il suo libro fu pubblicato solo nel 1862 postumo e rimase nell’Index Librorum Proibitorum fino a una cinquantina di anni fa (Concilio Vaticano II).
Abbiamo quindi un membro del clero, con tutti i vantaggi che ne derivano in termini di reperimento di documenti e testimonianze, che analizza la Crociata Albigese e la nascita dell’Inquisizione da una prospettiva nettamente critica. Uno storico non potrebbe chiedere di meglio.
Vista la portata geografica e cronologica dell’argomento, la cosa migliore è partire dalla nascita dell’Inquisizione, avvenuta in un periodo preciso, e capire per quale motivo la Chiesa Cattolica abbia deciso di passare da un sistema basato sulle indagini dei vescovi a uno fondato su veri e propri segugi dell’eresia.
È comunque bene sottolineare che, prima di questa data, non esisteva alcun tipo di struttura centrale volta a perseguitare gli eretici:
Il gusto per le interpretazioni allegoriche della sacra Scrittura aveva nel XIII secolo fatti cosi giganteschi progressi, che il senso letterale ormai contava per nulla. L’espressa regola data alla Chiesa rispetto alla condotta da tenersi cogli eretici, limitandosi alla proiezione di avere con loro comunicazione dopo averli replicatamele ammoniti, si pensò che fosse insufficiente e che duopo era perseguitarli, istituendo un numero di persone particolarmente destinato a scoprirli con ogni mezzo possibile, a denunciarli senza averli prima personalmente avvisati, ed a far loro subire gravissime pene, che, a dir vero, la Chiesa non aveva il diritto di ordinare, ma che faceva imporre dalla podestà laica,minacciandola di scagliare contro di lei i suoi fulmini che più d’una volta balzarono dal trono legittimi principi.
Non si sospettava allora nemmeno che tale condotta fosse contraria allo spirito del Vangelo, perché si giustificava colle allegorie delle due spade di san Pietro, della morte di Anania e di Satira, o di altri simili tratti, che non offrivano il benchè minimo rapporto colla nuova dottrina a chiunque leggeva la sacra Srittura colla buona fede de’cristiani dei primi tre secoli della Chiesa.
Da questo passo introduttivo possiamo comprender come il fatto di portare l’abito talare non precludesse a Tamburini di assumere delle posizioni che ancora oggi, dopo due secoli, possiamo considerare all’avanguardia.
Il periodo di cui parla Tamburini è quello dell’ascesa al soglio pontificio di Innocenzo III, un papa dotto, campione del potere temporale e della supremazia del papato sull’Impero. Si può quindi ben capire come Innocenzo III non avesse la minima intenzione di soprassedere sulle vicende d’oltralpe, dove l’eresia degli albigesi stava facendo eccellenti proseliti.

Per di più, gli albigesi avevano la protezione di alcune figure importanti, quali i Conti di Tolosa e di Foix. Fu proprio questo a convincere il Papa ad inviare dei commissari speciali, riteneva infatti che i vescovi della Linguadoca fossero intimoriti da quei nobili francesi favorevoli agli albigesi.
I sommi pontefici, supplir volendo in qualche maniera alla mancanza e trascuratezza de’vescovi, per lo innanzi simoniaci e concubinarii, ora per lo più sonnacchiosi e negligenti, e dar loro come uno stimolo ed aiuto che li soccorresse sotto il grave incarico delle pastorali cure e li eccitasse a scuotere la gola, il sonno, le oziose piume, risvegliando la sbandita sacerdotale vigilanza in tempo di tanti sconvolgimenti della Chiesa, pensarono costituire certi giudici delegati e ordinari, i quali accorressero come ausiliari ai prelati, che pure bramavano esterminare le eresie…
La missione fu un successo, e diede ad Innocenzo III la certezza che degli inquisitori indipendenti dai vescovi fossero la soluzione migliore per combattere gli eretici. La novità era proprio questa, fare in modo che gli inquisitori avessero il diritto di procedere contro gli eretici in qualità di delegati della Santa Sede.
Innocenzo III nel 1204 inviò nella Linguadoca e paesi adiacenti Arnaud Amaury, Pietro da Castel Nuovo e Ridolfo, monaci cisterciensi, con pienissima autorità di procedere contro i suddetti eretici albigesi, come apparisce dalla sua bolla o lettera in data del 19 maggio di detto anno, come dicemmo, e questo è il principio e l’incominciamento dell’Inquisizione nella Chiesa, essendo stato per lo spazio di dodici secoli incarico de’vescovi e de’prelati l’invigilare e adoprarsi alla repressione delle eresie e all’estirpazione degli errori, come a proposito osservano l’erudito Vanespen, il padre Richini e fra Paolo Sarpi.
Il loro compito era uno solo: ricondurre gli eretici albigesi alla fede cattolica e consegnare all’autorità laica coloro che si fossero rifiutati. A differenza di quanto si crede infatti, gli inquisitori si limitavano a constatare l’eresia, e, solo successivamente, l’eretico veniva passato al “braccio secolare”, ovvero alle istituzioni laiche, perché lo condannassero ed eseguissero la pena prevista.
la quale pena dovea essere associata alla confisca della loro sostanza ed alla proscrizione (intesa come esilio) delle loro persone.
Era quindi impossibile agire senza il benestare delle istituzioni statali che governavano un determinato territorio. Non a caso, gli inquisitori appena nominati cercarono di convincere (in nome del Papa) Filippo II e i nobili francesi a perseguitare gli albigesi, promettendo loro l’indulgenza plenaria.
Anche Innocenzo III non rimase con le mani in mano, visto che intrattenne con Filippo II un rapporto epistolare in cui chiedeva al sovrano di coadiuvare l’azione degli inquisitori, magari facendo sequestrare i beni dei nobili che favoreggiavano l’eresia o si rifiutavano di combatterla. Arrivò addirittura a suggerire che il delfino di Francia, Ludovico, marciasse sugli albigesi alla testa di un’armata:
onde spaventarli almeno colla spada temporale, se gli anatemi della Chiesa non bastavano a convertirli.
Inizialmente, le cose si misero davvero male per gli zelanti legati papali. Filippo II (avvolto in una ragnatela di conflitti e giochi di potere con i sovrani inglesi, i nobili francesi e l’Imperatore di Germania) non aveva intenzione di impegnarsi troppo, mentre i nobili della zona interessata, fra cui i conti di Tolosa, Carcassone e Foix, non volevano inimicarsi una fetta così ampia della popolazione, specie quando quest’ultima poteva essere d’aiuto a supportare l’indipendenza dalla Corona Francese e dalla Chiesa.
Vedendo che la loro missione era sul punto di fallire, iniziarono a esserci malcontenti anche fra gli inquisitori. Pietro, un monaco di indole quieta e amante della solitudine, scrisse addirittura a Innocenzo III, chiedendogli il permesso di rientrare nel monastero di Fonte-fredda. Nulla da fare, il Papa non voleva arrendersi, anzi, nel 1205 esortò ancora una volta Pietro a continuare la sua opera, e parallelamente sommerse di missive Filippo II e le sedi vescovili di Narbona e Bèziers, biasimando tutto e tutti per la condotta tenuta nei confronti degli eretici e dei suoi legati.
Qui di solito la storiografia ufficiale passa direttamente al massacro degli albigesi, e in parte la giustifico: cosa sarebbero i libri di storia senza battaglie e massacri?
Dicevamo, Pietro e Raoul presero contatti con gli albigesi, organizzando conferenze e parlando anche con i loro capi, chiamati “perfetti”. Purtroppo per loro, riuscirono a far tornare sulla retta via solo poche persone.
Sempre in quel periodo, iniziò ad essere attivo nella zona dei catari Domenico di Guzman (colui che, dieci anni dopo, fonderà l’Ordine Domenicano), vicepriore della cattedrale d’Osma, che accompagnava il proprio vescovo, Diego Acedevo, nelle sue missioni di evangelizzazione. Entrambi furono spediti sul posto da Innocenzo III, che faceva forte affidamento sul loro zelo per la conversione degli eretici.

Il vescovo Diego tornò a Osma, ove morì nel 1207, mentre Diego chiese di restare sul posto, riuscendo a convertire diversi albigesi.
I suoi sforzi, uniti a quelli degli altri legati papali, non sortivano ancora gli effetti desiderati, specie perché il potere laico sembrava ancora una volta poco interessato alla questione catara.
I grandi feudatari della Provenza e quelli della Gallia narbonese erano allora quasi sempre in guerra gli uni contro gli altri: e quando i legati del papa intimarono agli ultimi di perseguitare nei propri Stati gli eretici ostinali, questi rappresentarono di non potere eseguire gli ordini del papa a motivo della guerra che dovevano sostenere contro i loro vicini.
Fu in questo momento che Innocenzo decise di giocarsi il tutto per tutto. Diede mandato ai suoi legati di poter minacciare scomuniche a destra e a manca se principi e conti non avessero seguito le direttive della Chiesa.
Al giorno d’oggi la scomunica di un laico non ha alcuna rilevanza civile, ma ottocento anni fa, al culmine del potere della Chiesa, la scomunica equivaleva allo scioglimento del giuramento di fedeltà (tacito o espresso) fatto dai sudditi al proprio signore. Ancora oggi la scomunica serve a mettere un persona al di fuori della comunità cristiana, mentre allora la metteva (anche se spesso temporaneamente) quasi al di fuori del concetto di “uomo”.
Ad ogni modo, l’intuizione di Innocenzo III si rivelò fondata:
Questa misura spaventò i signori, i quali, temendo maggiori disgrazie che non quelle di una guerra, rinunciarono per poco alle reciproche loro pretese ed acconsentirono a sottoscrivere la pace.
Il più restio a dare seguito alle proprie promesse, era Raimondo VI conte di Tolosa, più volte rimproverato da Pietro di Castelnau per il suo atteggiamento lassista nei confronti degli albigesi. Fu questo scontro personale a provocare un vero e proprio casus belli. Proprio mentre Pietro stava portando la scomunica al conte di Tolosa, fu aggredito e assassinato, assieme a due confratelli, da alcuni albigesi . Alcuni autori ritengono che sia stato uno scudiero di Raimondo, altri che sia stata una macchinazione per far cadere la colpa su di lui (ipotesi piuttosto fantasiosa).
Innocenzo III la prese con poca diplomazia. Scrisse praticamente a tutti i potenti della Narbona, Arles, Embrun, Aix e Vienna in Delfinato, invitandoli a schiacciare una volta per tutte gli eretici dietro la promessa di poter ottenere le stesse indulgenze ricevute dai crociati in Terra Santa (siamo in contemporanea con la IV Crociata, sempre che ci sia ancora qualcuno che abbia il coraggio di chiamarla così). Innocenzo III nominò il vescovo di Conserans come sue legato, e fece in modo che avesse un ruolo attivo anche l’abate Arnaldo di Citeaux.
Tra le molte eresie che’ hanno lacerato il seno della cattolica Chiesa, una ve n’è stata nel III secolo propagata, come abbiamo accennato, da Manete, di origine persiano, e da esso detta de’ manichei, la quale, nonostante la severità delle leggi politiche ed ecclesiastiche, non fu mai si totalmente estirpata e distrutta che di tempo in tempo sotto qualche aspetto non tornasse a ripullulare. La setta degli albigesi nel XIII secolo fu come l’ammasso di tutti i differenti rami del manicheismo, e fin dall’anno 1204 trovavasi mollo diffusa nella Linguadoca, in Provenza, nel Delfinato ed in Aragona.
In realtà, gli albigesi non mutuarono la loro dottrina dai manichei, né ci risulta che disponessero dei testi sacri redatti da questi ultimi. Allora perché definirli così? Innanzitutto, pesò la vicinanza delle due concezioni, essenzialmente dualiste, ma forse è stata ancora più importante la citazione, contenuta nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, dei manichei, che proprio in virtù del Codice dovevano essere perseguitati, privati dei loro beni e bruciati sul rogo.
Per quasi tutto il medioevo, in particolare dopo la riscoperta del diritto giustinianeo da parte di Irnerio e degli altri giuristi bolognesi, il Corpus Iuris Civilis divenne quasi un testo sacro. Per curare l’animo c’era la Bibbia, per le vicende terrene c’era il Corpus Iuris. Si può quindi ben capire quanto fosse importante trovare una giustificazione così autorevole agli intenti persecutori della Chiesa.
Dal punto di vista dottrinale i Catari erano difficili da comprendere. Il loro dualismo, portato all’esasperazione, prevedeva una scissione netta e una dura contrapposizione fra Spirito (Bene) e Materia (Male). Per loro, il mondo era una creazione di Satana, che aveva imprigionato lo Spirito degli uomini nelle prigioni di carne chiamate “corpi”. Visto che la procreazione era una trovata di Satana, atta a creare altre prigioni materiali, rifiutavano (almeno in teoria) i rapporti sessuali e gli alimenti generati da rapporti sessuali. Niente carne quindi, né uova, né latte, mentre (forse consapevoli del pericolo colesterolo!) si abbuffavano di pesce.
Il loro salutismo involontario si scontrava però con la conseguenza inevitabile di un dualismo così netto, ovvero la concezione che la morte fosse una vera e propria benedizione, visto che liberava lo Spirito e rispediva il Corpo Materiale al suo odiato creatore, Satana.
Il rapporto con la Chiesa Cattolica era poi drammatico. Oltre ad accusarla di essere una struttura al servizio di Satana, i Catari rifiutavano il battesimo con l’acqua (creata a Satana), l’eucarestia e, soprattutto, il matrimonio. Se ancora oggi la famiglia viene considerata il primo mattone della società, agli inizi del XIII secolo ne formava tutte le mura portanti. E’ facile immaginare il livello di disgregazione sociale portato da questo genere di concezione, specie considerando che i convertiti al catarismo abbandonavano la propria famiglia (altra prigione creata da Satana) ed entravano in una nuova comunità.
La castità assoluta era solo un miraggio, quindi si formarono numerose coppie temporanee, senza legami, che si rompevano di continuo fra liti, violenza e continui aborti.
Un altro particolare sugli albigesi, completamente eliminato da una certa storiografia (che tende a considerarli dei santi), è che per loro non aveva alcuna rilevanza la parola data.
La questione viene spiegata molto bene da una ricercatrice degli Archivi Vaticani, Barbara Frale. Probabilmente avrete già sentito il suo nome, visto che ha scoperto diverse carte perdute negli archivi, compresa quella che smentisce in maniera definitiva il ruolo avuto dalla Chiesa Cattolica nel Processo ai Templari. Purtroppo, negli ultimi anni è caduta in una ridicola e inutile difesa a oltranza della Sindone che rischia di svilirla come storica, ma sui catari tocca un punto fondamentale:
Un altro grosso problema che il catarismo creava a livello sociale era il divieto assoluto di fare giuramenti: nella società dei secoli XII-XIII l’ intero sistema dei poteri è basato sul giuramento di fedeltà (del vescovo al Papa, del barone al sovrano, del contadino al barone), che impegna l’ onore personale e costituisce un vincolo assoluto. Rifiutarsi di giurare fedeltà significava essere ribelli. E infatti il credo dei catari venne ampiamente strumentalizzato da precise ambizioni di autonomia politica.
Molti grandi feudatari del sud della Francia approfittarono del catarismo per sganciarsi dall’ obbedienza a re Filippo II Augusto; i vescovi per liberarsi dall’ autorità del Papa e diventare autonomi; il basso clero seguì il suo vescovo, e i capi dei catari poterono predicare apertamente nelle chiese cattoliche purché pagassero profumatamente il parroco. La libertà dai vincoli feudali fu anche molto utile per cassare tanti testamenti e disporre a piacimento dei beni usando la scusa del catarismo, come pure era possibile cambiare facilmente la moglie vecchia con una nuova aderendo a questa Chiesa alternativa; e poi, stanchi anche di questa, cambiare un’ altra volta. Il vero, grande problema che portò ad eventi orribili come il massacro di Béziers, il 22 luglio di ottocento anni fa, nel 1209, era proprio il clima di anarchia che si venne a creare sotto il vessillo del cambiamento religioso. C’era un intero pezzo della Francia, il sud, del tutto sfuggito al controllo delle istituzioni.
Anche per questo Raimondo VI, conte di Tolosa e intenzionato a mantenere una completa indipendenza dalla Francia, favoriva i catari/albigesi, che erano divenuti particolarmente potenti nella zona di Alby (da cui Albigesi) e nella Francia del sud.
Tornando alla cronologia degli eventi, eravamo rimasti a Innocenzo III che incitava i nobili francese a sradicare l’eresia. Avendo compreso di essere a un passo dal disastro, Raimondo VI reagì da uomo impavido, da vero valoroso… Decise di unirsi alla crociata contro gli Albigesi!
Il percorso di penitenza cui lo sottopose la Chiesa fu lungo e umiliante, e si concluse con un evento che rende bene l’idea di come il rapporto fra potere temporale e potere spirituale fosse piuttosto complesso.
La funzione di questo giuramento ebbe luogo nella domenica 18 giugno 1209 nella cattedrale di Tolosa, entro la quale fu il conte condotto colla sola camicia indosso ed una fune al collo in guisa di stola alla presenza di molti vescovi ed arcivescovi, che si compiacquero di farlo stare due ore in ginocchio sulla porta di mezzo prima di permettergli di entrare nel teatro del suo disonore. Il duca di Borgogna, i conti di Nevers, di San Paolo, di Monfort, ed un’infinità di signori parimente vi assistettero e si terminò la cerimonia col farsi consegnare dal penitente sette delle sue migliori castella fortificate ed il suo figlio primogenito in ostaggio.
Compiuta l’umiliazione dell’ex campione dell’eresia albigese, l’esercito crociato si mise in moto, puntando dritto verso la Linguadoca. Dopo alcune scaramucce, la prima città a subire il trattamento all’olio di ricino dei crociati fu Béziers. Nessuno conosce con esattezza il numero di albigesi presenti in città, visto che andiamo dai 500 delle fonti più ostili alla Chiesa alla “gran parte” citata da Tamburini. Qualsiasi fosse la vera cifra, gli albigesi non si stavano comportando molto bene.
Gli abitanti di questa città, infetti in gran parie di manicheismo, eransi resi detestabili per le loro rapine ed altri misfatti, conseguenze funeste del fanatismo ed accecamento di mente ispirato dalla loro dottrina spaventevole.
Queste parole, scritte dall’imparziale Tamburini, supportano appieno quanto sostenuto dalla Frale e dagli studiosi di diritto. Il padrone della città, il visconte Raimondo Ruggero Trencavel, aveva verso i catari lo stesso atteggiamento del Raimondo VI pre-conversione.
La sua guardia cittadina contava di pochi elementi, quindi cercò immediatamente la via delle trattative. Purtroppo per la città, alcuni catari lo gettarono nelle prigioni e pestarono il vescovo, che cercava di fermarli, fino a fargli sputare i denti. Alcuni scrivono che fu Arnaud Amaury a rifiutare le trattative, ma ciò sembra in contrasto con quanto accadde con l’altro dominio di de Trencavel, Carcassone.
A Bréziers, vista la presenza di un gran numero di cristiani, i crociati erano restii a mettere la città a ferro e fuoco.
pertanto incominciarono ad intimare la consegna di un dato numero di eretici, di cui venne loro presentata la lista, e che apparentemente erano i principali autori della perversità e della colpa. Poco contenti quegli insensati di rigettare la richiesta con insolenza, alcuni si avvicinarono al campo prima di essere attaccati e fecero piovere sopra i cattolici, non meno di essi furiosi, una grandine di frecce, onde incominciato un ostinato combattimento la piazza fu presa d’assalto.
Ecco, dopo questo episodio i crociati mostrarono di non avere un cuore d’oro, quindi si limitarono a massacrare tutta la popolazione. Catari e cristiani caddero gli uni sugli altri, passati a fil di spada in una mattanza degna della guerra fra Utu e Tutsi. Tamburini ci informa furono massacrate 7.000 persone (anche se Amaury gonfiò la cifra a 20.000 per mostrare il suo zelo al papa)). Nelle fasi più concitate dello scontro, i crociati chiesero ad Arnaud Amaury come fare per distinguere i catari dai cristiani. Il caritatevole prelato, dando prova della sua gelida logica, rispose con la famosa frase:
Caedite eos! Novit enim Dominus qui sunt eius.
Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi.
Detto fatto. La città, come già detto, divenne poco più di un mattatoio a cielo aperto. Dopo Béziers toccò a Carcassone, che capitolò il 15 Agosto. Qui non ci furono morti, ma fu permesso ai cittadini di uscire dalla città con i soli vestiti indosso (vedi la prima immagine dell’articolo). Altre fonti, al momento le più seguite, parlano invece di nudità completa.

Quando fu necessario decidere a chi consegnare i possedimenti di Raimondo Ruggero Trencavel, la scelta cadde sul brutale comandante dell’esercito crociato, Simone IV di Montfort. Solo Tolosa e Montalbano rimasero nelle mani di Raimondo, cui non restò altro che chiedere aiuto a suo cognato, Pietro II d’Aragona, un re che aveva combattuto e vinto diverse battaglie contro i mori. Il sovrano spagnolo cercò di far pesare il suo potere con l’intento di ristabilire lo status quo, ma Montfort continuava a rifiutare le sue proposte, adducendo la scusa che Raimondo fosse ancora un eretico.
Come possiamo notare, la religione qui era passata in secondo piano; era solo uno specchietto per le allodole, una giustificazione usata da un principe laico per legittimare i suoi nuovi possedimenti.
Ma Pietro II non era uno sprovveduto. Comprese che l’armata crociata non aveva alcuna coesione, e che si sarebbe sciolta come neve al sole nel caso di una lunga tregua, visto che l’impegno dei soldati era per sei settimane (e non per almeno un anno come nelle Crociate con la “C” maiuscola).
Accoppiando l’astuzia alla forza, propose sulle prime al Montfort una sospensione d’armi, la quale, dando agli affari un’ aria d’incertezza e d’indecisione, li facesse languire, estenuasse lo zelo ed il fervore, ed inducesse i soldati a sbandarsi. Infatti il loro impegno non essendo che di sole sei settimane, laddove il voto delle crociale orientali estendevasi comunemente ad un anno, la maggior parte se ne andarono chi qua chi là; ed il generale cattolico si vide pressochè abbandonato rimanendo co’suoi frati inquisitori e pochi mascalzoni mezzo nudi e privi di tutto.
Ma i rinforzi arrivarono anche per Montfort, alcuni addirittura per mano della contessa sua moglie, della casa di Montmorency, che guidò centinaia di soldati fino a congiungersi con le truppe del marito.
Pietro II si trovò in una situazione ai limiti del grottesco. Incoronato a Roma nel 1204 dallo stesso Innocenzo III, campione indefesso nella lotta contro gli arabi spagnoli, detto addirittura “Il Cattolico”, si trovò a dover fronteggiare un esercito voluto dal Papa e dai nobili francesi, un esercito cristiano quindi, mentre allo stesso tempo continuava a pagare un tributo annuale alla Chiesa di Roma.
D’altronde va bene pagare un tributo al Papa, va bene combattere gli arabi, e al limite si può anche accettare che gli eretici vengano cacciati da città sue vassalle. Ma quando si tratta di difendere i propri possedimenti non c’è religione che tenga.
Fra l’altro, Pietro II era anche alle prese con l’organizzazione, in concerto con gli altri sovrani spagnoli, di una massiccia offensiva nei confronti degli Almohadi. Neanche a dirlo, uno dei principali fautori di questa nuova crociata era Innocenzo III, che teneva un occhio sulla Terra Santa, uno sulla penisola iberica, e qualcosa di molto simile sulla Francia del sud. I sovrani spagnoli annientarono completamente i musulmani in una battaglia campale di dimensioni bibliche, quella di Las Navas de Tolosa (anche le stime più basse parlano di 80-100.000 musulmani massacrati), ma ciò non bastò a fargli riconsegnare da Montfort (e da Innocenzo III) i territori conquistati durante la prima frazione della crociata albigese.
Anzi, Montfort ed il suo esercito, rimessosi in sesto con nuovi aiuti, riuscì a prendere la cittadella fortificata di Minerve , difesa dal visconte Guglielmo di Minerve con soli 200 uomini. Anche qui ci fu un veloce negoziato che portò i crociati a risparmiare la vita di tutti gli abitanti. Ciononostante, 140 catari vennero bruciati sul rogo per non aver abiurato il loro fuck the systm. Alla fine del 1210, cadde anche Termes e Montfort, scaricato Raimondo VI all’inizio delle nuove operazioni belliche, decise di puntare su Tolosa, la capitale della contea. Cassés e Montferrandcaddero in sequenza, preceduti da altri centri. Gli albigesi potevano scegliere fra il rogo e la conversione. Di solito preferirono quest’ultima, ma diverse centinaia finirono in cenere.

Nel 1211 Simone di Montfort raggiunse Tolosa e la cinse d’assedio, ma le provviste della città erano molto più solide delle sue, tanto che fu costretto a ritirarsi e a subire un contro-assedio a Castelnaudary. Montfort riuscì a fuggire, ma entro le fine dell’anno le forze di Raimondo VI riuscirono a riconquistare molte città, spingendo indietro l’offensiva cattolica.
Il 1212 fu un anno favorevole ai crociati. Pietro II era occupato con i musulmani e Simone di Montfort ne approfittò per portarsi nuovamente alle porte di Tolosa. L’appoggio di Innocenzo III e del Re di Francia Filippo II (che voleva aggiungere la Linguadoca alla sua corona) gli garantivano una “copertura” importante, anche perchè sia l’uno che l’altro avevano solo da guadagnarci. Nel caso in cui Simone avesse vinto, gli albigesi sarebbero scomparsi e la Francia avrebbe allargato i suoi domini, nel caso avesse perso, bastava stipulare un trattato con Pietro II e tornare allo status quo.
Come ci racconta il Tamburini (che in alcuni passi adotta un sarcasmo geniale… ed era un prete!), Innocenzo III decise di dare un aiuto sostanzioso, concreto, ai crociati.
Intanto a Roma, per implorare le celesti benedizioni sulle armi de’ crociali acciò potessero validameute trucidare altri cristiani loro simili, nell’ ultima domenica di agosto ebbe luogo una solenne processione coll’ordine seguente. Di buon mattino si adunarono le donne in Santa Maria Maggiore, il clero nella basilica de’Dodici Apostoli, ed i secolari in Sant’Anastasia; poscia ognuna di queste truppe parti per riunirsi in piazza di San Giovanni in Laterano.
Liquidati i musulmani, Pietro II organizzò una spedizione per annientare una volta per tutte Simone di Montfort e i suoi scagnozzi. Alla testa di un esercito imponente, composto da almeno 20.000 fanti e 4.000 cavalieri, il sovrano d’Aragona raggiunse Muret, la cittadella ove si trovava Montfort, e l’assediò.
Il generale francese però non rimase ad attendere, e il 13 settembre 1213 organizzò una sortita con tutte le sue forze, appena 1000 cavalieri e 3000 fanti (wikipedia riporta 900 cavalieri e 700 fanti, quindi preferisco la stima di Tamburini, che mi sembra più realistica). Pietro II si rifiutò di indebolire il nemico con frecce e armi da getto, come consigliatogli dal Conte Raimondo, e lanciò i suoi alla carica.
Dalle cronache emerge chiaramente che i soldati di Monfort avevano una maggiore esperienza, probabilmente maturata sia sui campi di battaglia europea che su quelli mediorientali. La Battaglia di Muret, quasi sconosciuta, rimane uno dei fatti bellici più interessanti del XIII secolo, specie se si vuole studiare l’incredibile differenza che possono fare dei soldati veterani anche di fronte a forze nemiche soverchianti.

Montfort non solo annientò completamente l’esercito aragonese (perdite attorno all’80%), ma uccise lo stesso Pietro II (il Tamburini dice “di sua mano”, ma sembra che sia stato Alain de Rouey, lord di Montreal). Un caso di vera e propria Spolia Opima.
La vittoria de’crociali fu completi a segno che in tal guisa si espressero dandone la nuova a tulli i fedeli: « I mucchi di nemici sparsi sul campo di battaglia sono cosi alti e moltiplicati che è impossibile saperne il numero. De’noslri non vi è stato che un sol uomo a cavallo ucciso e pochissimi pedoni ecc. »
Raimondo IV, senza più un esercito e senza alleati, accettò l’esilio in Inghilterra (con una pensione di 400 marchi d’argento), dopo essere riuscito a strappare delle buone condizioni per il figlio Raimondo VII, i cui diritti sulla Provenza rimasero intatti, e per la moglie, cui venne lasciata la dote.
In breve tempo le piazze che rimanevano ai settari si resero a composizione, e la Linguadoca, il Querey, l’Agenese, la Roverga ed una parte della Guascogna vennero assegnate al Montfort, ad esclusione del conte Raimondo VI, riguardato come principe senza fede e indegno di compassione.
Ma il buon Simone, ingordo di terre, non si fermò. Trascinò i suoi uomini verso il nord della Linguadoca e nel Perigord, dove dominava il generale albigese Bernard de Casnac.
Di fronte alle forze francesi, sia il castello di Domme che quello di Montfort furono abbandonati (con tanti ringraziamenti da parte della Corona di Francia). I crociati continuarono a seguire il corso della Dordogna, fino a raggiungere le due fortezze “gemelle”, poste sui due lati del fiume, di Beynac e Castlenaud. Anche questa volta non ci furono combattimenti: Castlenaud era vuoto come il portafoglio di un musicista, mentre Beynac non aveva difese. O meglio, aveva delle mura, che Montfort fece buttare giù, ma nessun soldato. Grazie a Dio non c’erano catari, quindi nessun cittadino venne toccato.
Nel 1215 fu finalmente la volta di Tolosa; Filippo II, reduce dall’ennesima campagna militare vittoriosa (vedi Battaglia di Bouvines) pensò bene di mandare il figlioletto (il futuro Luigi VIII) per accompagnare Simone di Montfort all’interno della città.
Fu il Papa stesso, durante il Quarto Concilio Lateranense, ad assegnare Tolosa a Simone. . Sul fronte Inquisizione, è bene sottolineare che la stabilizzazione di quest’ultima avvenne proprio durante questo Concilio, nel novembre del 1215.
Venne formalmente stabilita ed approvata l’Inquisizione, e dopo essere stati condannati ed anatematizzati gli eretici albigesi e valdesi, e i discepoli di Berengario, fu detto: «Che ogni vescovo dovesse visitare una volta l’ anno, o da sé stesso o per mezzo di un inquisitore da lui deputato, quei luoghi di sua diocesi ove corresse voce che si trovassero degli eretici. Colà, si soggiunse, farà giurare occultamente a tre uomini di buona fama, e più ancora ove lo creda opportuno, che essi gli indicheranno fedelmente non tanto gli eretici e loro maestri, quanto le persone che tengono conventicole segrete e praticano delle singolarità lontane dagli usi stabiliti. »
Tornando alla francia meridionale, vi chiederete che fine abbia fatto il buon militare cataro Bernard de Casnac, che si era limitato a svuotare castelli e fortezza invece di combattere Simone. E’ presto detto, essendo più cunctator di Quinto Fabio Massimo, aveva atteso che le acque si fossero calmate e poi era tornato sui suoi passi, massacrando la guarnigione lasciata a Castlenaud da Simone e riprendendosi il forte.
Naturalmente, quando Montfort riportò il suo esercito sotto le mura, Bernard se la svignò per la seconda volta, lasciando i suoi soldati catari al ferro e al fuoco.
Insomma, nel 1216 Simone di Montfort era all’apice della sua gloria militare. Aveva massacrato un re con il suo esercito, trucidato migliaia di albigesi e portato alla Corona Francese un bel quantitativo di territori (nel 1216 consegnò a Filippo II anche Tolosa). Ma i grandi condottieri vivono per la battaglia e per le conquiste, si tratta di una vera e propria dipendenza.
Ricordate Cesare, che forse pensava alla spedizione in Dacia anche mentre lo accoltellavano; Alessandro Magno, che voleva trascinare il suo esercito ai confini del mondo; Carlo V, che aveva un Impero fragile come un bicchiere di cristallo, eppure voleva altri territori. Monfort non era diverso, quindi continuò a combattere.

Come abbiamo visto, la Provenza era rimasta a Raimondo VII, ciononostante, Montfort pensò bene di lasciare un drappello di soldati a Beaucaire, suscitando le ire del conte. Ad aiutare il figlio arrivò anche Raimondo VI, che portò un buon numero di rinforzi. Ennesimo scontro, ennesimo assedio. Beaucarie tenne duro per tre mesi, ma alla fine fu costretta ad arrendersi ai due Raimondo.
La fortuna iniziava ad abbandonare Simone, visto che durante l’assedio di Beaucaire, nel giugno 1216 era morto anche Innocenzo III, suo grande sostenitore. Invece di consolidare il proprio potere a Tolosa e dintorni, Simone si mise in marcia anche sul finire dell’inverno del 1217. Ottenne un buon successo, occupando Montgrenier, ma Raimondo VII fu più furbo. Sfruttando l’assenza di Montfort, entrò a Tolosa (che già si era rivoltata una volta a Montfort) il 13 settembre 1217, alla testa di un esercito formato in gran parte da aragonesi.
A questo punto direi di lasciare di nuovo spazio al Tamburini:
Montfort a tale avviso subito marciò ad assediare Tolosa, ma in capo a nove mesi di un assedio sommamente disastroso sentissi estremamente estenuato di forza non meno che di denaro. Per colmo di sventura, il legato pontificio, che stava nella sua armata secondo l’uso costante di queste guerre di religione, affettava verso dilui la più ingiuriosa durezza e superiorità, accusandolo d’incapacità e di codardia; onde, annoiato da tanta arroganza in un prete affatto ignaro dell’arte militare, gettatosi con soverchio impeto in mezzo agli eretici, restò ucciso da un colpo di sasso e da cinque frecce che gli trapassarono il petto. Appena estinto questo gran campione dell’ intolleranza e del fanatismo (qui Tamburini si è superato), Amerigo suo primogenito, che non godeva l’istessa autorità nè l’istesso ascendente sugli animi, si vide in breve astretto a levar l’assedio…
In realtà sembra che Simone si fosse fermato qualche istante a soccorrere suo fratello Guy, ferito durante uno scontro, e che in quel momento abbia ricevuto un bel colpo di trabucco fra i denti. La particolarità è che la macchina da cui era partì il colpo era manovrata da un gruppo di donne. Su questo particolare le fonti concordano, ma potrebbe essere anche una notizia falsa, tesa a svilire (mi perdonino le dolci pulzelle che frequentano questi lidi, ma essere ammazzati da una donna era considerata una grave umiliazione) la figura di Montfort.

La cosa certa è che Montfort seguì Innocenzo III dall’altra parte, lasciando l’esercito crociato allo sbando. Era il giugno del 1218.
Amaury di Montfort (sì, quello che il Tamburini italianizza in “Amerigo”), figlio di Simone, oltre ad avere solo 26 anni non era certo all’altezza del padre. Perciò Onorio III, il Papa appena eletto, fece pressioni su Filippo II perché coadiuvasse l’azione del nuovo campione crociato.
Il Re di Francia non se ne occupò personalmente, ma spedì nel sud, per la seconda volta, il suo povero figliuolo.
Il 1219 si aprì con un buon successo in campo aperto, sempre nei pressi di Braziège, di Raimondo VII, ma in giugno il magnifico duo Principe Luigi- Amaury di Montfort riuscì a chiudere definitivamente l’assedio su Marmande, che durava da 6 mesi. L’intera popolazione, circa 4.000 persone, fu passata a fil di spada. Non si conosce il numero di catari effettivamente presenti nella città, ma la crociata aveva perso da tempo il suo carattere religioso.
La monarchia francese, in continua espansione, aveva un netto interesse alla creazione di una situazione caotica in Linguadoca, in modo da poter intervenire successivamente e annetterla. Non a caso, l’intervento di Filippo II fu sempre indiretto e incerto, come se la sua vera intenzione fosse quella di vedere come si mettevano le cose e intervenire solo quando si fosse presentata l’effettiva possibilità di ottenere un vantaggio.
L’effettiva presenza della Chiesa Cattolica era ridotta agli aiuti portati da alcuni vescovi e allo sbraitare di Innocenzo III, ormai trapassato.
Si trattava di una guerra di conquista. Raimondo VII voleva mantenere l’indipendenza dei suoi territori, geograficamente vicini a quelli della corona aragonese, rispetto alle mire di Filippo II e di suo figlio. Questi ultimi invece volevano portare i confini francesi a ridosso dei Pirenei.
La situazione rimase fluida per diversi anni. Tolosa fu assediata da Amaury senza successo (anche perchè Luigi lo mollò sotto le mura dopo appena un mese, nell’agosto 1219), Raimondo VII riuscì a riconquistare molti territori, Filippo II tirò le cuoia (1223) e Luigi VIII continuò a sostenere solo blandamente la causa crociata.

L’impressione è che, dopo 15 anni di disastri e massacri, la guerra continua fosse ormai insopportabile sia per i cittadini che per i nobili impegnati in battaglia. Nel 1224 Amuary, stremato da agguati, assedi e guerriglia, si ritirò nei possedimenti di famiglia nel nord della Francia, cedendo le sue conquiste nel sud a Luigi VIII (in sostanza gli passò la patata bollente).
Nello stesso anno morì anche Arnaud Amaury (chissà se Dio lo avrà “riconosciuto come suo”) e tornò a Carcassone, appena abbandonata da Amaury di Montfort, il figlio di Raimondo Ruggero di Trencaval.
Incredibile dictu, la Linguadoca si trovava di nuovo nella situazione del 1209. La crociata aveva fallito.
Purtroppo per gli albigesi però, nessuno aveva considerato l’ipotesi di un impegno massiccio dell’esercito reale in quelle lande. Abbandonate le posizioni del padre e la sua stessa iniziale diffidenza, Luigi VIII iniziò a preparare l’esercito. Mettere la mani sulla Linguadoca sarebbe stato un colpaccio degno del padre.
Sul finire del 1225 arrivò l’inevitabile scomunica di Raimondo VII, un preavviso della tempesta imminente.
Quando, nell’estate del 1226, arrivò in Linguadoca l’armata di Luigi VIII, la maggior parte delle fortezza si arresero senza nemmeno combattere. Le città non furono da meno, aprirono le porte e gettarono petali di rosa al nuovo padrone. In sostanza, rimasero a combattere solo Raimondo VII (Raimondo VI era morto nel 1222), Ruggero Bernardo II di Foix e il 19enne Raimondo Ruggero junior.
A giugno cadde Carcassone, mentre Avignone oppose resistenza fino al 12 settembre. Come al solito, l’unica città a tenere vive le speranza albigesi fu Tolosa (in realtà c’erano altri centri fortificati come Labécède).
Si dice che gli albigesi fossero anche degli iettatori di prima categoria, e in effetti il dubbio venne anche a Luigi VIII. Si ammalò di dissenteria e morì, fra atroci sofferenze, in novembre, mentre tentava di tornare a Parigi per farsi curare (o uccidere) dalla raffinata medicina dell’epoca.

In Linguadoca rimase un governatore, Umberto di Beaujeu, con l’ordine di continuare la crociata fino alla maggiore età di Luigi IX. Grazie all’aiuto dei vescovi di Narbona e Tolosa riuscì a prendere Labécède già nel 1227, facendo a pezzi tutti gli abitanti. La guerra era agli sgoccioli, anche Tolosa era giunta allo stremo, e si arrese nel novembre 1228.
A dettare le condizioni della resa fu però Bianca di Castiglia, Reggente di Francia e madre di Luigi IX. Donna di ferro, Bianca firmò con Raimondo VII il Trattato di Parigi del 1229. Un’umiliazione completa per i conte.
Oltre ad impegnarsi nella lotta contro l’eresia albigese, Raimondo VII doveva abbattere le fortificazioni di Tolosa, restituire i beni sottratti alla Chiesa, e pagare un ingente rimborso alla Corona. In cambio, poteva mantenere i suoi diritti sulla contea di Tolosa, ma come semplice vassallo del Re.
Non paga, Bianca di Castiglia lo fece flagellare davanti a Notre-Dam ed imprigionare per un breve periodo. Ma la condizione peggiore fu un altra: Raimondo VII fu costretto a dare in sposa la sua unica figlia, Jeanne, all’altro figlio di Bianca, Alfonso di Poitiers (entrambi avevano 9 anni). In sostanza, alla morte di Raimondo VII (nel 1249) la contea di Tolosa sarebbe divenuta un dominio diretto di Luigi IX.
Tecnicamente, la Crociata Albigese durò ancora venticinque anni. L’ultima grande roccaforte albigese, Montségur, cadde nel 1244, mentre la rocca di Quèribus fu assediata solo nel 1255. Parlando delle ultime roccaforti catare, e in particolare di Montsègur, si potrebbe anche affrontare il discorso relativo alla ricerca del Graal, che alcuni studiosi nazisti, Otto Rahn su tutti, pensavano fosse stato conservato proprio dai catari.
Quanto all’attività dell’Inquisizione, con questo articolo volevo solo delinearne l’istituzione (dal 1229 aprì i suoi ariosi uffici a Tolosa), mentre ai numeri e l’analisi della Leggenda Nera vorrei riuscire a dedicare degli studi appositi.