“I racconti di Satampra Zeiros” è una rubrica di Italian Sword&Sorcery in cui vengono pubblicate mensilmente short stories sword and sorcery, che ricalcano lo stile pulp delle riviste americane degli anni ’30 del secolo scorso (come Weird Tales) e che possono essere lette gratuitamente da chiunque visiti questo sito.
A quanto pare, sia gli addetti ai lavori che gli appassionati di fantasy stanno apprezzando l’iniziativa in discussione il cui obiettivo è quello di far conoscere Italian Sword & Sorcery e pertanto la fantasia eroica di matrice italiana.
Dal canto mio, debbo ringraziare tutti gli autori che ci hanno inviato racconti, partecipando in questo modo alla crescita in termini di popolarità del movimento.
Ma veniamo a noi.
Oggi, abbiamo il piacere di ospitare per la seconda volta Alessandro Forlani, scrittore poliedrico e sagace in grado di interpretare in maniera egregia ogni genere di speculative fiction. Nella fattispecie, ci propone “Chi di spada ferisce”, una storia di circa 23.000 battute spazi inclusi che appartiene al Ciclo di Thanatolia/ Crypt Marauders Chronicles, un progetto di narrativa creato insieme a Lorenzo Davia.
Buona lettura.
Autore: Alessandro Forlani insegna sceneggiatura all’Accademia di Belle Arti di Macerata e Scuola Comics Pescara. Premio Urania 2011 con il romanzo “I senza tempo”, vincitore e finalista di altri premi di narrativa di genere (Circo Massimo 2011, Kipple 2012, Robot e Stella Doppia 2013) pubblica racconti e romanzi fantasy, dell’orrore e di fantascienza (“Tristano”; “Qui si va a vapore o si muore”; “All’Inferno, Savoia!”) e partecipa a diverse antologie (“Orco Nero”; “Cerchio Capovolto”; “Ucronie Impure”; “Deinos”; “Kataris”; “Idropunk”; “L’Ennesimo Libro di Fantascienza”; “50 Sfumature di Sci-fi”). Vincitore del Premio Stella Doppia Urania/Fantascienza.com 2013.
Chi di spada ferisce
di Alessandro Forlani
Malqvist raccattò la testa mozza dal selciato: gli occhi azzurri, l’orecchino, l’espressione esterrefatta di un biondino che a giudicare dal colorito doveva essere morto l’istante prima che ci inciampasse.
«È un lavoro di fino!», constatò impressionato. Una scia di sangue nero insudiciava l’acciottolato, e proseguiva fin dietro l’angolo di quel vicolo di lupanari, vespasiani, case d’oppio, gabinetti di alchimisti e mendicanti stesi al suolo.
Un quartiere come i tanti nella fogna di Handelbab.
Echeggiarono bestemmie, plausi, urrà e una voce da imbroglione che intimava un pagamento, i tintinnii inconfondibili di monete o di pepite.
Malqvist buttò la testa ai tre randagi spelacchiati che guaiolavano in un androne sbavanti infetti di fame e rabbia, seguì l’eco interessante del denaro e della folla. Lo intralciarono due sciacalli chini su un corpo decapitato: ne mozzavano le dita e si spartivano gli anelli, gli stivali, il cinturone e un collare allucciolato.
«È un bel colpo, un pezzo grosso!», sghignazzarono soddisfatti.
«Chi l’ha accoppato?», li apostrofò.
I due vigliacchi si impallidirono, gattonarono dal corpo:
«C’è un equivoco, noi non…»
«Non ho alcun dubbio che voi due vermi non ne sareste capaci mai», li strinse al bavero, li alzò da terra e li costrinse a una parete: «ho appena udito un din-don di soldi, e la faccenda mi interessa.»
«È Montoja, come il solito: contro il moccioso non c’è speranza. Andrà a finire che il vecchio Vashqa dovrà inventarsi un lavoro onesto.»
«Ha stretto un patto con qualche diavolo, quel pederasta possiede libri…»
«Non vi capisco: di che parlate?»
Piagnucolarono non li picchiasse. Gli additarono un bambino che esultava su un palcoscenico, in una piccola e affollata piazza che si apriva in fondo al vicolo. Un grassone e due scimmioni con catene e manganelli riscuotevano scommesse da giocatori abbacchiati e increduli, e accettavano altre poste da accaniti a quella bisca. Spadaccini in giaco e guanti, dall’aria esperta ma il volto teso, confabulavano a lame in fodero coi secondi e mediatori, che insistevano a dissuaderli dal salire alla pedana.
Ma il ragazzino di un metro & un cazzo con quel ridicolo spadino, lassù sul palco, paonazzo e stridulo, lordo di sangue e budella altrui, continuava a spernacchiarli e a strillare la sua sfida:
«Vi credete dei campioni, siete solo cacasotto! Misuratevi con me se avete fegato, codardi!»
Malqvist sputò disprezzo e ridacchiò di quel moccioso. Il laido allibratore, spalleggiato dai due gorilla, gli venne accanto, si lisciò i baffi e gli ammiccò con intenzione:
«Sono Vashqa, il suo sensale: prendilo a sculacciate, se sei convinto di fare meglio. Hai acciaio e buoni muscoli.»
«Che cosa ci guadagno?»
«Ehi, c’è uno sfidante!», l’allibratore arringò la folla: e i giocatori gli si raccolsero tutti attorno, pispiglianti, lo guardarono curiosi e speranzosi di rivincita; impressionati dalla sua mole e la terribile bipenne. Racimolarono dai borselli quanto restava dei loro beni, lo raccolsero in un turbante:
«Cinque a uno su ‘sto bestione!»
«I miei soldi su Montoja!»
«Metà posta: ti sta bene?»
Malqvist sopportò quel sorrisetto canzonatorio e il brillio di fregatura nelle pupille di quel bastardo, guardò ancora al ragazzino tutt’eccitato sulla pedana che godeva degli applausi e gli faceva le boccacce. Ripensò alla testa mozza, quel fendente impressionante: non poteva essere il colpo di un rospetto brufoloso, quella lama da frocetto con la guardia ingioiellata…
«C’è un inghippo», mugugnò.
«Sei grande e grosso: che cosa temi?»
«Volete il sangue, non è così?»
«Questa gente ha scommesso tutto ciò che possiede.»
«Vuoi deluderla, selvaggio?», il ragazzino lo spernacchiò.
Lui sentì allo stomaco la stretta della fame, di quel cibo ed un buon letto che gli mancavano da… due giorni, se rammentava; se non aveva già le traveggole. Le monete e i pezzi d’oro e quelle pietre nel turbante luccicarono di un’urgente e ferocissima necessità.
Era sicuro che lo imbrogliassero – morse i labbri contrariato – ma fra crepare di ferro o stenti aveva un’unica ed ovvia scelta:
«Eccomi, Montoja.»
La folla lo acclamò.
Ma quelle grida di tifo e giubilo, la febbre insana dei giocatori, si azzittirono alle lacrime e le strilla di una ragazza.
Un giovanotto di bell’aspetto e che splendeva di nobiltà, con un volto più terribile della spada che impugnava, si fece largo fin la pedana e reclamando vendetta e morte.
«Resta in coda, signorino», Malqvist lo scacciò. L’altro lo spintonò con l’alterigia e l’incoscienza tipiche del ceto cui doveva appartenere.
«Cedi il passo, bifolco: ché son venuto a lavare un’onta.»
Il suo tono, il suo furore, la giustizia che lo incendiava non ammettevano discussioni: lui lasciò passare. Gli obbedì con istintiva e timorata soggezione: il diritto di un nobile, il diritto di un dio… Ma la ragazza, avvinghiata al giovane, lo implorava di non battersi:
«Non è come tu credi! Morirai!»
«Se così dev’essere.»
«Non è uno scontro leale, nessun uomo lo vincerebbe!»
«Ho gli déi dalla mia parte: l’empietà non prevarrà.»
«Su, a chi tocca? Il bestione o il gentiluomo? Decidetevi, la buon’ora», il bastardello si grattò l’inguine, «la mia spada si raffredda, il mio buon pubblico pretende vittime!»
L’aristocratico, fra gli applausi, salì in guardia sul palcoscenico. La ragazza crollò a terra bianca esanime di dolore. Malqvist sgomitò, scazzottò e menò ceffoni fino a raggiungerla per abbracciarla e accompagnarla a una fontanella. Il fiotto fresco la rianimò.
«Il tuo nome? Chi è quel giovane? Non mi sembra uno sprovveduto, ma sei convinta non abbia chance.»
La poverina tremava pallida e singhiozzava fra le sue braccia, malediva il laido Vashqa e supplicava non combattessero.
«Non voglio farti male», Malqvist si addolcì: c’era andato un po’ pesante con ‘sta pupattola di città: un buffetto, una scrollata e gli sembrò che svenisse ancora, «ma ascoltami, rispondimi: ciò che hai detto mi interessa.»
Li interruppe l’ «a voi!» dell’arbitro e uno stridere di lame, si ammutolirono allo spettacolo sul palcoscenico insanguinato.
Il ragazzino parò un calante e un fendente magistrali che il giovanotto gli sferrò con micidiale rapidità: ma a confronto di Montoja gli sembrò quasi un inetto. L’aristocratico abbassò la guardia, si infiacchì, perse vigore, barcollò col fiato corto quasi in lizza già da un’ora.
«È ubriaco, è drogato?», Malqvist si insospettì. Gli era sembrato che fosse in gamba e estremamente motivato.
«Me lo ammazzano, è spacciato!», la ragazza singhiozzò.
Lo spadino del brufoloso gli aveva già trapassato il ventre, lo ritrasse, lo squarciò e gli sparse gli intestini.
Durò un istante.
«… non è possibile!…»
Malqvist restò allibito.
«Io sono Camilla, contessina di Tueret», disse lei con voce rotta e la fierezza dei suoi natali, «e lui… fu Frederigo: mio fratello. Sono l’ultima del mio casato. Accompagnami, guerriero, ché saprò ricompensarti.»
Sbatté i soldi sulla tavola, chiese vino, pane e carne, quei formaggi appesi al muro e due ciotole di zuppa. Si buttò sulle pietanze con la furia del digiuno. Ringraziò la contessina sputacchiando manzo e briciole:
«Mi hai salvato dalla fame. Sono in debito con te.»
Lei, ancora afflitta, spizzicava dal vassoio. Il dolore non offuscava la sua limpida bellezza, la pelle candida, gli occhi grigi e le sue trecce di granoturco. La sua bocca era un rubino corrucciato e delicato.
Malqvist affogò spiaciuto nel vino rosso, speziato e forte un pensieraccio su quelle tette e quel culetto tornito e sodo, scrollò il capo per persuadersi non fosse pane per i suoi denti.
«Potresti prenderti ciò che ti garba, con quelle braccia e con quella scure.»
«Un taverniere fa il suo lavoro, il cibo ha un costo, pagare è giusto. L’ascia la impugno solo contro ciò che non lo è.»
«Un selvaggio con un’etica.»
«Il cielo è in alto, la terra in basso. Non c’è bisogno di filosofie.»
«Mi hai salvata dalla folla. Sarei morta calpestata.»
«O accoltellata da uno sciacallo per le tue vesti ed i tuoi gioielli.»
«Offrirti un pasto mi sembra il minimo.»
«Tuo fratello, invece, è morto. È perciò che ti ho soccorsa.»
«Ti vuoi proporre per vendicarlo?»
«Lo supplicavi di non combattere, ché non avrebbe potuto vincere. Credo anch’io ci sia un inghippo: tu, però, ne sembri certa. Chi è Montoja? Qual è il trucco?»
«Il ragazzino non conta nulla. Non se ne rende neppure conto. La spada è magica. È posseduta.»
«Mi dispiace, sei sconvolta: non esiste la magia.»
«Quel ciccione allibratore, Vashqa – è noto a tutti – è un demonologo dilettante. Finalmente c’è riuscito.»
«A imbrogliare i giocatori? Non c’è male, ne è capace, sì.»
«A costringere in quell’arma un’entità dell’Inferno Cremisi, un demonio combattente che un mortale non può battere.»
«Te ne inventi di sciocchezze.»
«Devi credermi, bifolco. In Thanatolia i delfini nobili si succedono ai casati, le figlie femmine son destinate ai nove anni di Logge Grigie per apprendere – come me – le arti nere e i necrodogmi.»
«Saresti maga, tu?»
«Ho percezioni, conosco cose.»
«Hai le traveggole, te le immagini.»
«Mi fu negata l’iniziazione poiché non sono dotata, tuttavia ne so abbastanza da riconoscere una lama magica.»
«Ma neppure tuo fratello ti ha creduta: si è battuto.»
«L’onta, il disonore, era troppo da sopportare: quel Montoja, poco prima, aveva ucciso il mio promesso Francisco. Non ci hanno reso neppure il corpo.»
Malqvist inghiottì il boccone senza quasi masticare. Si spiegò le ricche vesti di quel cadavere decapitato, quegli anelli, gli orecchini e i capelli impomatati. E il destino di quella testa, decise, imbellettata di nobiltà, sarebbe stato un segreto atroce fra lui e i cani in un sottoscale.
«Anche ammettessimo che è tutto vero: denuncia Vashqa, se puoi provarlo.»
«Con quali accuse?»
«Di magia nera.»
«In Thanatolia non è reato.»
«Che inciviltà. C’è la frode allora, è ovvio: sta truccando le scommesse.»
«Frode. Ad Handelbab. La città-stato dei bottegai.»
«Ho capito: devo ucciderlo.»
«Come credi di riuscirci?»
Strinse al bavero l’infame e gli ringhiò con la lama al gozzo:
«Se mi hai preso per i fondelli ti ritrovo e ti sistemo.»
«No, lo giuro: via trabucco trentatré. C’è un magazzino, è abbandonato, lo sanno tutti che gli appartiene… certe notti grida e pianti, voci…»
«Ci tortura i debitori.»
«Sono i sibili dei demoni convocati dall’inferno.»
«Ti ho detto smettila, con queste storie.»
«Non lo so e non mi interessa: fa accapponare la pelle!»
Malqvist sbatté a terra e calciò in culo quel pidocchio, ma Camilla, impietosita, gli lasciò accanto due piastre d’oro. Il miserabile ricettatore – benché lacero, tremante, coi labbri rotti dai suoi cazzotti – sorrise incredulo e pianse grazie con gli occhi accesi di avidità.
«Non sai proprio come spenderli.»
«Ha meritato una ricompensa.»
«È ancora vivo ed ha tutti i denti: sono stato generoso.»
«Sai trovare quella strada?»
«È a ridosso delle mura, sotto il bastione di artiglieria. Tu, però, torni in locanda e mi aspetti lì.»
«C’è pericolo?»
«C’è scandalo: l’uniche donne, da quelle parti, fanno il mestiere di nonna Taide. E se qualcuno ti conoscesse…»
«I miei parenti non sono più, e mulieres ne succedant. Io stessa, la mia casata, ormai siamo in vendita al miglior offerente. Non mi sembra granché diverso.»
«Lo sai usare un coltello vero?»
«Ho una spilla per capelli.»
Lui le strinse in pugno il suo mostruoso sega-gole, ch’era ruvido di tacche e incrostato di omicidi:
«Fingerai che sia lo stesso. La parte a punta va dentro Vashqa.»
Si incamminarono per i chiassuoli e le viuzze dei sobborghi, il fatiscente e malato dedalo del quartiere delle truffe. Il selciato era coperto dalla cenere e la sabbia che i venti torridi dell’estate trasportavano in città, polvere d’ossa di avelli e lapidi del continente cimiteriale. Un’occasione o la brutta fine di negromanti ed avventurieri. Nei casini schiamazzavano gli incoscienti e fortunati ritornati dalla necropoli ancora vivi con un bottino; gli altri, tanti, si lagnavano nel vento, il lamento dei fantasmi che popolavano l’orizzonte. Inciamparono nei reperti, soprattutto le patacche, ammucchiate alle botteghe di antiquari senza scrupoli; evitarono gli sbronzi e le pattuglie di milizia. Gli edifici colorati, bassi, circostanti il Mercato Grande, si smorzarono in costruzioni di arenaria, quercia e frassino, addossate o incorporate alla cerchia delle mura. Attraversarono un loggiato buio e si trovarono al magazzino.
Al chiarore della luna e le lanterne alle pareti Malqvist esaminò quell’edificio di pietre e legna, incastonato di prepotenza fra abitazioni più miserabili. Riconobbe quei comignoli ed i tetti sfondi e sghembi:
«Hai capito dove siamo?»
«Non conosco queste fogne», la ragazza si stizzì.
«Guarda bene: il magazzino è collegato a un palazzotto, al lato opposto – là dietro l’angolo – c’è quella piazza, c’è la pedana.»
«Credi che Vashqa risieda qui?»
«Potrei scommetterci. Farebbe comodo. Casa-ufficio, l’onest’uomo: proprio un gran lavoratore.»
«Dove entriamo?»
Lui le fece cenno di tacere e di scostarsi, posò l’orecchio sul forte assito del portone incatenato. Latrati e ringhi e canee furiose riecheggiarono da dentro, il tinnio di una catena che stimò fin troppo lunga. Tonfi, graffi e morsicare sui battenti.
«Lasciamo perdere.»
«Ma sono cani!»
«Che ti hanno fatto? Ce l’hai con loro?»
«Non posso credere che tu li tema!»
«Io non li ammazzo: non hanno colpe.»
«All’altro ingresso ci sono uomini.»
«Con le persone non ho problemi, ché non ne esistono di innocenti.»
Sgattaiolarono lungo un vicolo finché raggiunsero la piazza e il palco, si acquattarono a un portone e studiarono il palazzo. Il grande portico si apriva ad arco a una corte illuminata che echeggiava di nitriti e martellare di carpentieri, odore d’olio, di grasso, biada e di cuoio nuovo e lucido. Le incombenze della sera di garzoni nelle stalle. Sulla soglia si alternavano soldatacci ben armati che gli sembrarono saperla lunga con la spada e la balestra. Ne contò finché sapeva – sulle dita delle mani – e poiché non gli bastarono si persuase ch’eran troppi.
«Quindi ora vai all’assalto, spacchi tutto?»
«Sono violento, non sono scemo. Siamo molto fortunati che sia una notte serena e calda…»
Le indicò quel balconcino al terzo piano dell’edificio: Vashqa, in braghe e sandali, nei fumi porpora di un narghilè, uscì all’aperto a guardare il cielo e per godere delle stelle, volse abbasso soddisfatto ai suoi uomini di guardia.
«Vieni, caro»: chiamò il ragazzo con voluttà. E Montoja lo abbracciò nudo accarezzandogli il ventre tondo, inebriato da una coppa di liquore, miele e petali. Rimirarono la pedana con una strana espressione in volto, poté giurare che la temessero come un perimetro pericoloso.
«Quanti fessi moriranno, domattina?»
«Ancora molti. Ti sei fatto un grande nome: la posta sale, la brama acceca. Scommetteranno le loro vite per la boria e per denaro, ma all’arte nera non c’è rimedio.»
«Che ti dicevo?!», soffiò Camilla.
E rientrarono baciandosi, sghignazzando ed ansimando.
Sì: quel genere di gemiti…
«Sono più demoni dei tuoi demoni», Malqvist si schifò, «altroché una spada magica! Dài, saliamo, sistemiamo ‘sta faccenda.»
«Sai volare, bifolco?», la contessina lo apostrofò, «Quel balcone sarà almeno a venti metri da terra.»
«So arrampicarmi piuttosto bene. Tienti stretta.»
«… cosa?!…»
La abbrancò, la prese in spalla e salì il muro del palazzotto. Salì su per la facciata che guardava all’oscuro vicolo, invisibile e distante ai mercenari di sentinella. La parete, per fortuna, era tutta chiodi e crepe, maglie di ferro per il terremoto e nicchie e trespoli per gli uccelli. Gli sembrò di andare comodo come fosse uno scalone. Ma Camilla gli si stringeva tremebonda di terrore: tuttavia, la buona volta, chiudeva il becco né scapricciava. Si appiattirono, spalle al muro, al piano nobile dell’edificio, per camminare su un cornicione spezzettato dai decenni.
«Guarda avanti, o chiudi gli occhi, stringimi il braccio e prosegui a destra. Seguimi, manca poco. Purché ti prego non guardare giù.»
«Quanto, poco?»
«Un po’ più di quanto speri ma un po’ meno di quanto temi. Dài, muoviamoci.»
Arrancarono al balcone.
Guardò al palco delle sfide.
Il legname luccicava degli umori e il sangue nero che la lama di Montoja aveva sparso quel mattino. Nell’azzurro plenilunio, e alle torce del portone, gli sembrò che quel quadrato scintillasse anche di ferro. Non si trattava di spade e daghe abbandonate dagli sconfitti, ma due complessi, sottili cerchi e croci e lettere ed altri simboli. Un intarsio, una cornice o un rinforzo di metallo… Malqvist si convinse fosse un assito di scarto, recuperato da un pavimento o i cassettoni di un soffitto. Di una chiesa, per esempio… come usavano nei templi…
«Questo Vashqa è pure tirchio.»
Scavalcò la balaustra e aiutò Camilla a scendere.
Brandì l’ascia, spaccò i vetri ed irruppe nella stanza.
L’allibratore ed il ganimede si rizzarono strillando, nudi ed unti fra le lenzuola di un’alcova d’oro e bisso. Vashqa schioccò il flagello con il manico di avorio che sembrava avesse usato sulla schiena di Montoja, il ragazzo scattò all’arma che luccicava appoggiata al letto.
«Non deve prenderla!», gridò Camilla.
Lui sopportò la sferza e gli uncini nella carne, si buttò contro Montoja, lo spinse addosso una libreria. Due scaffali di grimori e uno scrigno di monete lo seppellirono su un tappeto e lo lasciarono stordito. Malqvist tese il braccio ad afferrare lo spadino ma crollò bocconi a terra avvinghiato a una caviglia. L’allibratore insisté a frustarlo, gli scuoiò polpaccio e coscia. Malqvist strinse i denti a un altro morso del flagello, con gli uncini nella carne tirò il nemico verso di sé, levò la scure a calare il colpo ma Vashqa rise, cantò parole: una forza irresistibile lo disarmò, sbigottito:
«Come hai fatto?!»
«Telecinesi: so qualcosina…»
«Telecheccosa?!»
«Ne sai troppe, osasti troppo: è la tua fine!», sfidò Camilla: era corsa a piè del letto e impugnava l’arma magica.
«Dalla a me, non ci sai fare!»
La ragazza gli obbedì. Lui afferrò al volo quella lama maledetta, strinse l’elsa ingioiellata pronto al patto con il demone.
La maestria, la forza, l’odio, la prodigiosa rapidità che gli sarebbero bruciate in corpo per il contatto con l’entità.
«Sono pronto!»
No.
Macché.
Non accadde un accidente.
Era solo un temperino impreziosito di pietre e gemme. Giusto il genere di giocattolo che un moccioso può brandire.
La ragazza si arrossì desolata ed esterrefatta.
«Come strega sei ‘na schiappa», le grugnì.
Vashqa rise, cantò un salmo: le nove code della sua frusta crepitarono di folgori.
«È un bel trucco, devo ammetterlo.»
«Spade magiche? Che sciocchezza! L’incantesimo è sul palco: un pentacolo di Marte per proteggere Montoja e un pentacolo di Saturno per fiaccare gli avversari!»
«Quei disegni! Ma va là!»
Lo investì di saette.
Fuoco vero, un male cane.
Come cazzo ne è capace?!
Malqvist gridò trafitto paralizzato da quelle folgori, prono a terra ed impotente contro il potere dell’incantesimo. Il ragazzo, indispettito, si scrollò dai pezzi d’oro, le pergamene, quei tomi neri e barcollò verso la spada:
«Questa mattina mi sei sfuggito: abbiamo un conto da regolare.»
Puntò alla gola, levò la lama, ma Camilla lo aggredì: si azzuffarono al balcone e gli ficcò il pugnale in petto. Le strinse il collo rabbioso, cieco, e si gettò con lei nel vuoto.
«Il mio tesoro!», gemette Vashqua: gettò a terra il suo flagello, si affacciò dalla terrazza. Soldataglia e servitori, nel cortile del palazzo, accorrevano alla pedana fracassata dai due caduti, trasecolarono di Camilla e di Montoja sfracellati.
Malqvist ingoiò il dolore, scattò di reni e raccolse l’ascia: le convulsioni lo rallentavano, lo tormentavano le gravi ustioni… ma si mosse inesorabile contro il figlio di puttana.
Levò la scure, gli sputò in faccia e si godette il suo terrore.
La testa mozza di quel bastardo cadde ai piedi dei suoi sgherri.
«Ce n’è per tutti!», sfidò furente, «venite a prenderle, leccapiedi!»
«Vuoi rischiare per vendicarlo?», parlottarono i mercenari: «Quello schifoso, quel pederasta! Che te ne frega? Ci ha già pagato.»
Si allontanarono alla chetichella con la paga nella borsa.
Fattacci simili, in Handelbab, ne accadevano ogni notte.
Una manciata di quel denaro nella camera di Vashqa gli bastò a pagarsi un tetto e la minestra per settimane. Spese il resto da un cerusico e negli intrugli di un farmacista, che in pochi giorni di applicazioni gli medicarono le ferite. Cambiò quartiere, restò un po’ calmo e fece crescere la barba: chissà mai che l’allibratore non avesse qualche amico. Il rancore è un cero funebre, ma che brucia lentamente…
Una notte, il mese dopo, confermò quei suoi timori.
La vecchia scala della locanda scricchiolò di lenti passi: un furbacchione si trascinava, nella calda oscurità, lungo il buio corridoio fino la porta della sua stanza.
Lui, senza rumore, si levò dal pagliericcio: sfilò il coltello dalla cintura e si appostò di fianco l’uscio.
Da quei passi giudicò che quel pollastro fosse solo: il vero guaio, sbuffò seccato, sarebbe stato smaltire il corpo… ma i grugniti dei maiali nel cortile dell’albergo lo consolarono che quel problema aveva facile soluzione.
«Apri, villico.»
A quella voce rabbrividì, l’anta di quercia guaì sui cardini: e sulla soglia apparì Camilla, con il cranio fracassato, le membra candide spezzate e torte e il ventre gonfio di gas necrotici.
Lui gettò il coltello, si impietrì, si pisciò addosso; strillò scongiuri preghiere e salmi e che gli déi lo proteggessero:
«Uno spettro! Vade retro!»
«Non esistono i fantasmi», la ragazza gli sorrise. Stirò il viso e scoprì i denti in una maschera orripilante.
«… ti ho veduta…»
«Stesa esanime sul palco, sanguinare su quei cerchi. In magia non sono brava, hai ragione: non so distinguere un’arma magica. Tuttavia ne so abbastanza per sfruttare due pentacoli. E mi ha soccorsa la buona Madre ch’è imperatrice dei cimiteri…»
«Quindi sei… resuscitata?!»
«Sto ritornando, potremmo dire. Ci vorrà tempo, sarà noioso. Sarò sana e sarai morto: è un processo di decenni.»
«Sei ritornata per tormentarmi?! Per accusarmi dell’accaduto?! Sei stata tu che ti sei buttata!»
«Sono venuta a ricompensarti: hai vendicato la mia famiglia.»
«Non voglio nulla. Non c’è di che.»
«A una contessa ed un conte morto beni e titoli non servono. Dovresti smetterla con ‘sta vitaccia: che ne diresti di ritirati?»
«Campo d’ascia, io: lo sai.»
«D’ora in avanti vivrai di rendita»; gli mostrò la mano grigia, fredda, fratturata e l’unghie azzurre scheggiate e sozze di terriccio e marmo funebre: gli offrì l’anello di argento ed onice che le brillava sull’anulare: «prendilo: è per te.»
Per sfilarle quel gioiello staccò il dito dalla mano. Lei scrollò le spalle con esausta indifferenza, un groviglio di lombrichi le strisciò lungo le vertebre.
«Che me ne faccio?», inghiottì schifato.
«Goditela: addio, nuovo Conte di Tueret». Lei gli scoccò un bacio. Gli premette il seno pieno contro il petto e gli addominali, imperlati di sudore e accapponati per la strizza.
Il suo unico pensiero fu che insomma, anche da morta… aveva sempre due belle tette. E un bel sedere, non c’è che dire…
Camilla sembrò affondare nelle tenebre del corridoio. Scricchiolio di cartilagini e un fetore di sepolcro. Una manciata di terra e cenere sul pavimento strigliato a cera. L’anello d’onice riverberò alla luce gelida della luna che penetrava dalle finestre e dalle tegole spezzate.
Provò a infilarselo.
Ma non gli entrava.
Neppure al mignolo, ‘ccidenti a lei.
Si convinse, appena giorno, di smollarlo a un rigattiere.
Essere nobili, dopotutto, doveva essere una bella bega.
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