I racconti di Satampra Zeiros: Quando gli dei ascoltano di Andrea Gualchierotti

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In occasione dell’appuntamento mensile con “I racconti di Satampra Zeiros”siamo orgogliosi di presentare la nuova illustrazione che ha realizzato Hervé Scott Flament, celebre pittore francese, per questa rubrica di Italian Sword & Sorcery.

Peraltro, abbiamo il piacere di ospitare Andrea Gualchierotti e Lorenzo Camerini, due veterani del nostro movimento, che ci propongono Quando gli dei ascoltano, racconto sword and sorcery di circa 28.000 battute spazi inclusi.

Buona lettura.


31685-il-ciliegio---andrea-gualchierottiAutori: Andrea Gualchierotti ha 36 anni, vive e lavora in provincia di Roma. Dopo gli studi classici e la laurea in Sociologia, si dedica al mondo della comunicazione, senza però tralasciare la passione di sempre per l’archeologia e per le sue scoperte. Quando non scrive si dedica alla numismatica, ai viaggi e al mai dimenticato amore per i romanzi d’avventura.


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Quando gli dei ascoltano

 di Andrea Gualchierotti 

 

parte I

Tutti conoscono la maledizione di Larisa e come essa sia universalmente famosa come la “ città dei dannati”.

Pochi, tuttavia, sono coloro che sanno come l’antica città, un tempo celebre per le sue porte e i suoi templi, si sia conquistata questo titolo. I saggi che rammentano gli accadimenti dei tempi remoti raccontano una storia, ammonendo su quanto spesso gli dei ripaghino le passioni degli uomini secondo vie che essi non immaginano.

La storia che narrano, vera o falsa, con una morale o meno che sia, è questa.

 

 

L’ultimo eco del gong si era appena spento, allungandosi nelle ombre.

Il chiarore dorato dei ceri e delle lampade, circondato da una muraglia di tenebre, illuminava solo in parte l’altare, svelando appena i volti corrucciati e irti di zanne degli idoli che lo sovrastavano, stringendo tridenti e lame.

Le schiere dei devoti, che accorrevano per assistere allo scorrere del sangue sugli altari fumanti, erano lontane. Dopo il colpo di gong un salmodiare remoto permeava l’aria densa e immobile.

Lì, sotto le statue incombenti di Glaadi e Tolach il Divoratore, Lesmek meditava, le gambe incrociate su cuscini di seta scarlatta.

Il suo corpo era immobile, le braccia abbandonate sulle ginocchia e le dita intrecciate in mistiche configurazioni. La vibrazione appena percettibile del respiro animava il petto scarno e glabro, ma gli occhi neri – fissi come quelli di un morto – apparivano proiettati verso universi ignoti.

Varcati i cancelli del mondo mortale, il suo spirito osservava un altro luogo, assai distante dalle volte sotterranee del grande tempio, oltre le rive fangose del delta del Ghlal.

«Egli vive!» esclamò, mentre quel pensiero riverberava nel vuoto della dimensione senza nome in cui vagava la sua anima. «Sì, è proprio lui! Ecco, cavalca il suo destriero, e assieme a lui cinquanta guerrieri percorrono la pianura! Distinguo lo scintillio del balteo dorato e la piega orgogliosa della sua bocca: Elpheus, cane dannato, ti ho trovato finalmente! Ah, la morte ti sovrasta, e tu lo ignori. . . quale deliziosa vendetta! Presto pagherai il tuo debito, mio vecchio amico!»

Lontano, molte leghe a occidente da dove le membra gelide di Lesmek giacevano nel loro sopore stregato, Elpheus di Larisa stringeva le redini del cavallo mentre guidava lo squadrone di guardie che inseguiva l’ultimo dei seguaci di Nemesio.

L’usurpatore era ormai morto da settimane e le sue membra squartate erano state il pasto di corvi e avvoltoi per giorni, mentre sostenitori e amici di quel nobile avventato lo seguivano uno alla volta, urlando, sul patibolo. Polias, l’eunuco, era il solo rimasto della cerchia segreta di coloro che avevano appoggiato il maldestro colpo di mano che avrebbe dovuto deporre il Margravio Momnos e portare Nemesio a sedere sul seggio d’ebano di Larisa.

La fronte scintillante di sudore, l’eunuco aveva riempito d’oro e promesse le bisacce di alcuni bravacci assoldati quando già la condanna a morte pendeva sul suo capo e, eluse le guardie cittadine, allo scoccare della mezzanotte era riuscito a fuggire verso est, verso il mare.

Al mattino, quando il fragore del galoppo dello squadrone inviato a eseguire la sentenza disperse come polvere le sue speranze Polias, che pure aveva perduto la virilità poco più che fanciullo, si decise per una inopinata conclusione della vicenda, scegliendo di morire se non da eroe, da uomo; afferrato lo stiletto d’argento che nascondeva nella larga veste color albicocca, si conficcò la lama nel collo, mettendo fine a quella vana fuga.

I suoi resti contusi e insanguinati dopo la caduta da cavallo vennero rivoltati da uno dei cavalieri di Elpheus, e il viso contratto dal dolore di Polias rivelò agli inseguitori quella fine inaspettata.

«Non mi sarei mai aspettato tanta risolutezza da quella specie di mezzo uomo» sbottò alterò il capitano, le sopracciglia inarcate in un’espressione di disprezzo, «ma ha solo anticipato l’inevitabile. Se anche non lo avessimo raggiunto noi, gli avanzi di galera che lo stavano aiutando gli avrebbero fatto un regalo simile non appena giunti abbastanza lontano. Non vale nemmeno la pena di inseguirli: in fondo, ci hanno risparmiato il lavoro! Avanti, spiccategli la testa, il Margravio gradirà un’ultima decorazione per le mura di Larisa!»

Elpheus non immaginava certamente che qualcuno, a parte i suoi uomini, potesse udire quei cinici motteggi, tantomeno Lesmek il negromante.

Anni prima, quando al servizio di un altro potente aveva attraversato le giungle infestate di ragni dell’Oriente, Elpheus aveva diviso fortuna, oro e donne con Lesmek. Lo aveva incontrato in un villaggio di miserabili, un mucchio di capanne abitato da uomini dalla pelle color mattone e dalla lingua incomprensibile e fastidiosa.

Lesmek non era come loro, non osservava la spedizione di Elpheus con occhi acquosi, né lanciava urla e pietre al passaggio degli uomini armati. I suoi occhi neri erano infossati e vividi, e il suo incedere sicuro, anche se solo una fascia e un turbante vestivano il suo corpo scheletrico. Era stata una strana curiosità reciproca, probabilmente, a renderli amici.

Elpheus aveva bestemmiato tutti gli dei che conosceva quando si era reso conto che il suo nuovo sodale, quello che pareva poco più di un incantatore di serpenti, era invece uno degli ultimi stregoni in grado di suonare una macabra melodia, la canzone delle ossa, per la quale i morti fanno udire la loro voce, e raccontano di ciò che fu.

Le note del suo flauto – intagliato nel femore di un impiccato – gli ottenevano segreti dimenticati e profezie, e presto lo avevano reso potente alla corte di quel principe che anche Elpheus serviva. Uniti nello scalare i vertici del potere, ne erano divenuti in breve tempo la spada e l’occhio nascosto.

Fatalmente, però, sotto le apparenze dell’amicizia l’orgoglio aveva fatto germogliare la malapianta dell’invidia: Elpheus non poteva tollerare che colui che pure era diventato il sapiente di corte, temuto e riverito, si considerasse un suo pari. Certo, Lesmek – che con il solo bisbigliare sinistri incantesimi e zufolare arcane melodie era in grado di attingere a conoscenze dimenticate – ben meritava l’omaggio degli altri nobili, ma in fondo era merito di Elpheus se non era rimasto a marcire fra le liane e il fango della giungla.

In breve tempo i loro rapporti si erano guastati, e la malevolenza – dapprima nascosta – si era mutata in odio. Seppur colto nel sonno drogato in cui era sprofondato dopo un’estenuante orgia rituale, Lesmek era riuscito miracolosamente a sfuggire alle lame dei sicari pagati dal suo antico sodale, ma nella sua fuga precipitosa non aveva potuto recuperare il suo flauto.

Da allora erano passati cinque anni.

Rientrato in sé con un brivido dopo quelle visioni, Lesmek si alzò dal suo giaciglio, discendendo i bassi gradini che conducevano alle sale inferiori del tempio. Era in quei bui recessi che aveva trovato rifugio dopo che, coperto di stracci come un mendicante – lui, che aveva vestito di bisso! – aveva raggiunto la sua patria d’origine.

Lì aveva sacrificato sangue, lacrime e vite ai neri dei che camminano nella giungla: a Glaadi, la dea mantide, a Ulu, l’uomo uccello, e a Tolach, il Divoratore, il cui nome faceva fuggire il giaguaro e tremare la tigre. I cuori di innumerevoli vittime erano stati offerti in rabbiosi olocausti e finalmente le Potenze avevano risposto alle sue invocazioni, inviandogli la visione del suo nemico.

Sorseggiando una coppa di vino dorato, Lesmekprese a rimuginare. Dunque Elpheus era ancora a Larisa! Il suo odioso sorriso non era cambiato. . . ma le sue vesti erano meno sfarzose, la sua corazza meno ricca. . . evidentemente, senza l’aiuto delle sue stregonerie, Elpheus era scivolato verso un rango inferiore. Era sempre stato un mero esecutore di ordini altrui e senza di lui era tornato a essere la nullità di sempre. Quello stupido! Il pensiero di aver stimato amico una simile feccia, e di essere stato addirittura da essa scacciato, gonfiò il cuore di Lesmek di una furia demoniaca. Doveva però scacciare la tentazione di vendicarsi affrettatamente.

Con un battito secco delle mani, richiamò uno degli adepti dal cranio tatuato che lo servivano, affinché gli portasse un’altra dose della polvere ambrata che induceva il distacco dello spirito dalla materia. Per ottenere quel che gli serviva adesso, la sua anima avrebbe dovuto viaggiare ancora.

Aceius detestava il chiacchiericcio che da sempre accompagnava la vita di corte, ma era anche conscio della sua inevitabilità. Come tutti gli ambienti ristretti, il circolo eletto di coloro che erano vicini al sovrano si nutriva senza sosta e con gusto di ciarle, malignità e ridondanti dicerie. Non adeguarsi a questo rito non era solo uno sgarbo, ma anche segno di una mancata comprensione dei meccanismi di corte.

Calato ormai nella parte che quel gioco di maschere gli assegnava, commentò la notizia dell’ignobile fine di Polias con una sdegnosa alzata di sopracciglio.

Era la reazione di prammatica.

Nessuno piangeva per la morte dell’eunuco, e certo non l’avrebbe fatto nessuno dei patrizi di Larisa, tantomeno lui.

Eppure, era bene non soffermarsi troppo su quel fatto di sangue: con poche parole, introdusse un nuovo argomento, un superficiale pettegolezzo di talamo che accese subito ben altro interesse nel suo interlocutore. Erano infatti giorni in cui anche il solo mostrare interesse per la fallita impresa di Nemesio, o per la sorte dei suoi seguaci, implicava il rischio di seguire l’usurpatore sul patibolo. Aceius – come tutti – ne era ben consapevole, sebbene solo lui comprendesse quale pericolo gravasse sul capo della mente celata dietro la tentata usurpazione. . . e quella mente era lui.

Il nobile si concesse un temerario sussulto d’orgoglio: attempato, quasi calvo e con tratti grossolani ben lontani da qualunque stereotipo di grazia signorile, non era certo l’immagine corrente del cospiratore, e questo – unito a temerarietà e astuzia – aveva protetto la sua identità fino a ora.

Sfidare la sorte, però, era un altro conto.

Mentre il conoscente continuava a parlare di avventure galanti in quello che era quasi un monologo, Aceius percorse con lo sguardo la sala. D’improvviso, percepiva il restringersi degli spazi circostanti, come se una gabbia invisibile lo stringesse sempre di più, circondandolo. Si liberò con una scusa dell’interlocutore, attraversando con ponderata calma i corridoi decorati a mosaico della corte del Margravio, non capacitandosi di come la sua colpevolezza non apparisse lampante agli occhi degli altri. Ricacciò indietro quel momento di debolezza, rallentando ulteriormente i suoi passi.

Attorno a lui, volti noti di nobili e notabili cittadini sfilavano pieni di sussiego, tutti desiderosi di farsi perdonare mancanze reali o presunte. Se solo avessero saputo! Ciascuno di quei miserabili imbellettati gli avrebbe tagliato la gola solo per dimostrare una fedeltà meno fittizia al signore di Larisa. Ma davvero nessuno sospettava? Un nuovo brivido percorse la nuca del patrizio. Doveva lasciare Larisa, subito.

Le porte della sala del trono si chiusero, lasciando Elpheus nella penombra, solo, a masticare insoddisfazione.

Anche l’ultimo dei traditori aveva incontrato la giusta fine, ma il Margravio aveva liquidato l’operato del suo capitano con malcelata indifferenza, degnandolo di poche parole e di sguardi distratti.

Elpheus aveva imparato da tempo che la politica era un’arte dannata, che produceva frutti amari e non conosceva il significato di parole come riconoscenza e onore. Lui stesso ambiva al potere per mero interesse personale, eppure non poteva fare a meno di maledire la sorte.

Non sapeva dire quando, ma qualcosa era andato storto nel percorso che doveva portarlo verso la nobiltà. Da anni – prima lentamente, poi con sempre maggiore evidenza – era scivolato fuori dal circolo dei favoriti del Margravio. Aveva la sensazione, nonostante fosse rimasto indenne dai sospetti e dalle purghe successive ai recenti disordini causati da Nemesio, che anche il suo titolo di capitano fosse ormai traballante. Gli anni erano passati e il grigio era comparso nella barba un tempo scura, la spada pesava sempre di più, e candidati più giovani avrebbero certo colto subito l’occasione di strappargli il titolo, una volta che lo sfavore del Margravio si fosse palesato ai più.

Si morse le labbra, assaporando il sapore metallico del sangue. Avrebbe fatto di tutto per riconquistare la stima del suo signore e i vantaggi che ne derivavano, ma a quanto pareva anche recare ai piedi del trono la testa dei traditori non era abbastanza. Presto il suo posto sarebbe stato preso da qualche indegno rampollo patrizio, oppure assegnato a un suo stesso subordinato, a maggior onta del suo nome. Quando sarebbe arrivata la sua occasione? Se solo. . .

Lesmek non aveva disceso invano i gradini fiammeggianti che conducevano agli inferi.

In riposta agli ululati del suo spirito bramante vendetta si era levato il coro infernale di mille anime dannate, e la cappa del morbo e della rovina aveva invaso Larisa.

Né mura, né guardie, né porte avevano bloccato i miasmi portati da un vento oscuro, levatosi da Oriente nelle calde notti d’inizio estate. Sulle ali di quel soffio mortale, la peste era dilagata per le strade e i vicoli della città, aprendosi la via fino al palazzo del Margravio.

Adesso, al crepuscolo del ventesimo giorno di epidemia, metà degli abitanti di Larisa aveva incontrato il bacio della morte nera e alti fuochi crepitanti erano incessantemente alimentati dai cumuli di cadaveri ammassati fuori delle mura.

Dalle finestre della sua torre, tormentato da una febbre che sapeva non sarebbe passata, il Margravio Momnos osservava per l’ultima volta la desolazione che opprimeva il suo regno, lamentando di fronte agli dei quel destino infausto che lo privava della vita e del potere. Prima che la mezzanotte fosse arrivata, il suo cuore aveva smesso di battere.

Nei recessi del suo tempio, Lesmek sussultò di gioia maligna: quel miserabile aveva ben pagato per non averlo a suo tempo difeso dalle macchinazioni di Elpheus! Ora non restava che attendere che il male attecchisse anche nel sangue e nelle ossa del maledetto traditore. Oh, sarebbe stata una morte assai lenta, la sua! Prima i brividi gli avrebbero scosso le carni, tormentandolo con gelidi sudori. Poi, come una fiamma sorta dagli inferi, la febbre avrebbe bruciato ogni sua fibra, riducendolo a un tremebondo demente. Sì, Elpheus avrebbe invocato la morte, e allora, in quel momento, lui sarebbe stato lì. Non importava quale sacrificio gli dei oscuri avrebbero richiesto alla sua anima ormai annerita dall’empietà: il sigillo della dannazione era già impresso su di essa, e Lesmek sapeva che solo così si sarebbero aperte quelle porte tra gli spazi che gli avrebbero permesso di giungere – dalla remota regione in cui si trovava – alle porte di Larisa.

In quei giorni funesti, in cui una cappa di tenebra quasi palpabile pareva gravare sulla città, solo pochi resistevano, pur nel terrore di essere raggiunti dal morbo fatale.

Fra loro, Elpheus.

Alternando preghiere e bestemmie, era stato fra gli ultimi a lasciare la corte ormai deserta, quando anche i più miseri fra i servi avevano capito che non c’era speranza né per il Margravio né per gli altri nobili. I più accorti fra i cortigiani si erano dileguati come ombre poco alla volta, in punta di piedi, mentre altri avevano resistito più a lungo, coltivando l’illusione della salvezza.

Le volte lussuose dei saloni nobiliari risuonavano del gracchiare dei corvi. Rare figure di sopravvissuti, simili a spettri, facevano capolino in fondo ai corridoi vuoti, sparendo rapidamente nell’ombra. Elpheus, dopo che le sue guardie avevano disertato nella notte, era l’unico di rango patrizio ad aggirarsi ancora in quei luoghi; sfidava il contagio e la rovina, stringendo strani amuleti, domandandosi se quella follia non fosse essa stessa il primo segno della malattia. Non si era allontanato dalla corte fino all’ultimo, sapendo che solo adesso avrebbe potuto agire: i suoi piani per riconquistare il favore del Margravio erano ormai fantasticherie dimenticate, ma si era presentata un’occasione che attendeva da tempo.

Erano ormai anni che il flauto maledetto di Lesmek, il suo antico sodale, giaceva dimenticato fra i tesori del Margravio. A suo tempo Elpheus, che pure aveva architettato l’agguato da cui lo stregone era a malapena scampato, non era riuscito a recuperarlo e ora puntava ad appropriarsene. Se un selvaggio come Lesmek aveva imparato a usarlo, forse anche lui ci sarebbe riuscito. Servi e ciambellani potevano anche aver saccheggiato gli ori di corte prima di scappare, ma nessuno avrebbe mai badato a un vecchio flauto d’osso.

Quasi trattenendo il respiro, salì gli ultimi gradini che portavano agli appartamenti interni.

Il volto nero e orribile del Margravio, il corpo contorto fra le coltri, pareva sorridergli con irridente sarcasmo.

Elpheus evitò di fissarlo, concentrandosi sulla sua ricerca. Era stato facile profeta, perché tutti i tesori del suo antico signore erano stati carpiti da mani rapaci e si accorse che dalla bocca del morto erano scomparsi persino i denti d’oro. Ma in quel caos, avvolto in panni di velluto, trovò il flauto, dimenticato.

Stavolta furono le sue labbra a incresparsi di macabra gioia. Gli pareva di ricordare bene quale fosse la melodia che Lesmek suonava quando interrogava i morti. Chiunque l’avesse udita non poteva certo dimenticarla. . . Come metteva le dita? Accostò il flauto alla bocca, e iniziò a suonare.

Aceius sollevò appena la stoffa che gli copriva il viso, di modo che almeno gli occhi fossero ben scoperti.

Da settimane nessuno aveva più contratto il morbo che aveva decimato la popolazione di Larisa. Che fossero stati i venti d’inizio autunno a disperdere le arie venefiche, o il sorgere di qualche costellazione favorevole, pareva davvero che l’epidemia fosse regredita. Le praterie abitate da nomadi, a Sud, dove da tempo aveva cercato riparo, erano state pressoché immuni dal contagio, ma i cavalieri della steppa avevano atteso prudentemente che l’estate perdesse il suo vigore, e ancora evitavano di avvicinarsi alle campagne di Larisa.

Durante quei mesi, Aceius aveva goduto dell’ospitalità di uno dei tanti sceicchi che vagavano con il loro clan ai confini del deserto, dove la pianura cedeva il passo alle rocce e alla sabbia rossastra. Erano uomini che da generazioni rinnovavano patti e clientele con le ricche famiglie delle città mercato, e il nobile fuggiasco aveva trovato sotto le loro tende decorate un nascondiglio sia dalla legge che dalla pestilenza.

In quel periodo, strane voci erano corse fra i nomadi, portate da viandanti e viaggiatori occasionali.

Si raccontava di come, oltre le porte serrate di Larisa, un gemito ininterrotto, un coro di lamenti, si levasse da quelle che dovevano essere strade vuote. Il male, che pure era scomparso lontano dalla città, pareva aver preso dimora fra le rovine della città maledetta. Bagliori che non avrebbero dovuto esistere si accendevano nel palazzo del Margravio e alcuni incauti, spintisi fin sotto le mura, aveva riferito di voci umane urlanti, che però non assomigliavano del tutto a quelle dei vivi.

Incalzato da quei resoconti Aceius, abbandonate prudenza e incredulità, si era deciso a marciare fino alle soglie della sua antica dimora, risoluto a verificare quale sorte gli dei avessero inviato su Larisa.

Ora, non molto lontano, ne distingueva le mura, i contorni sbrecciati simili alla dentatura marcia di un vecchio.

Quale follia lo aveva indotto a trascinarsi fin lì? Neppure lui lo sapeva, e preferiva non pensarci. Sapeva però che solo sciogliendo quel mistero avrebbe potuto mettere le mani sul trono che tanto bramava, e stavolta senza bisogno di tirare i fili di qualche marionetta. Aveva rischiato e tramato una vita intera per giungere al potere, e certo il suo scampare alla pestilenza doveva essere il segno che il suo momento era arrivato, finalmente!

Il presentimento di quanto incombeva non lo sfiorò affatto.

Parte II

Jebbel smosse l’erba macchiata di neve, strappando gli arbusti che ricoprivano la pietra.

Era sbrecciata e consunta, ma ancora ben conficcata nel terreno. Si chinò, studiandola, e nel seguire con le dita i solchi appena visibili che ancora ne coprivano la superficie poté leggere le indicazioni di quell’antico miliario: segnava quattro miglia – miglia del tipo antico ovviamente – da Larisa.

Larisa! Vecchio di secoli, il suo nome evocava l’antica città di sogno ed era proverbiale per indicare un qualche luogo favoloso, una terra mai esistita, alla maniera delle fole cui avevano creduto gli antichi: il fiume Cunet, il cui scorrere segna i confini del mondo là dove cala il sole, o i giardini di Seges, dove si dice dimorino ninfe immortali.

Jebbel conosceva tutte quelle storie, e soprattutto quelle riguardanti Larisa. Era stata una delle grandi città del passato, quando ancora non erano nati gli antenati dei sovrani di Almoria e gli uomini erano di un’altra razza, e già fra gli antichi aveva goduto fama di città beata, scrigno di tesori e meraviglie. Eppure, di tanta grandezza, nulla era rimasto, tanto che non si sapeva più neanche dove fosse situata la città, che pure aveva vantato dieci porte e dieci bastioni.

Le leggende, come potevano, fornivano la loro spiegazione della sparizione di Larisa: tanta era stata la virtù dei suoi abitanti, che si raccontava che gli dei stessi avessero preparato un favoloso banchetto, offrendo ai cittadini le delizie della loro mensa divina, per trasportarli poi nel loro regno luminoso.

Esistevano anche delle varianti a questo racconto, ma tutte concordavano sul fatto che Larisa non fosse più su questa terra, per sempre sottratta agli occhi degli uomini assieme ai suoi tesori.

Già, i suoi tesori.

Nel corso della sua carriera di razziatore, Jebbel ne aveva trovati abbastanza da riscattare un’intera stirpe di reali. Molti erano andati poi persi, scialacquati in fastosi eccessi, o bruciati sui tavoli da gioco di metà dell’Oriente. Altri ancora, inevitabilmente, gli erano stati sottratti dallo sterminato numero di ladri che infestava le terre a Est del Ghlal.

Il tesoro di Larisa era però diverso. I suoi antichi forzieri non solo promettevano ricchezze aldilà dei sogni, ma avrebbero aperto a Jebbel stesso un posto nella leggenda, come colui che per primo aveva calcato le strade dimenticate della città perduta.

Adesso, dopo due anni spesi a vagare per le lande disabitate dell’Occidente, dove solo i nomadi percorrevano le praterie solitarie, era giunto finalmente alla sua meta. Certo, davvero molto doveva essere cambiato dai giorni gloriosi di Larisa, persino nel clima: le storie descrivevano quei luoghi come pianure rinfrescate da un vento dolce e propizio, illuminate da un sole amico. Ora a prevalere parevano invece il gelo e il buio, il cielo perennemente nascosto da foschi nembi. Mentre il nevischio cominciava a vorticare nell’aria fredda, l’uomo riprese la sua marcia. Ogni passo lo portava più vicino.

Jebbel si umettò le labbra screpolate, maledicendosi.

Ogni cosa, in verità, era maledetta: il suo viaggio, la città, i suoi tesori. Trovare le antiche mura, sbrecciate e ammiccanti, era stato come abboccare alle lusinghe di un prestigiatore malevolo, percorrere le antiche strade ingombre di colonne cadute era stato come gettarsi direttamente nelle fauci dei demoni.

Non lo aveva fermato il lumeggiare stregato che aleggiava fra le rovine, e neanche il fischio assordante del vento d’inverno che ululava nelle aule cadenti della città morta era stato un sufficiente monito. Il senno annebbiato dalla scoperta grandiosa di Larisa non aveva colto i segni del pericolo che minacciava la sua anima, neppure quando aveva varcato gli archi miracolosamente intatti dell’antico palazzo dei signori di Larisa.

Simile a un mausoleo, l’edificio risuonava dell’eco dei suoi passi, che si perdeva in riverberi incongrui mentre saliva le scalinate un tempo affollate di cortigiani. Mosaici ridotti in briciole scricchiolarono sotto i suoi piedi quando giunse in quella che era stata la sala del trono, dove sperava trovare le favolose ricchezze sognate.

Vi trovò invece due uomini, ancora prigionieri della maledizione che li aveva avvinti come un sudario.

Avevano l’aspetto di persone vive, e il loro petto si alzava e si abbassava, percorso dal respiro, eppure Jebbel percepì subito di trovarsi in presenza di un mistero mai osservato dagli occhi di un vivente.

Uno di loro, poco prima o forse secoli addietro, doveva aver visto qualcosa di spaventoso, perché aveva le mani che coprivano il volto, e il capo voltato di lato, come qualcuno che tenti di sfuggire a una visione terribile.

L’altro, invece, doveva essere stato meno fortunato, e aver visto: l’orrore che gli deformava il viso era superato solo dal barlume di consapevolezza che Jebbel poteva ancora intuire nel suo sguardo. Tra le mani contorte, stringeva un flauto sottile.

Quale magia era all’opera in quel luogo? Jebbel si sentiva al pari di un profanatore, intuendo misteriosamente che quella scena era quanto rimaneva dei lontani giorni di Larisa. Quegli antichi uomini, a giudicare dalla foggia mai vista dei loro abiti, avevano davvero osservato lo scorrere i secoli mentre attorno a loro la città moriva? Oppure erano bloccati in una sorta di eterno presente, condannati a rivivere un unico attimo – terribile evidentemente – dilatato per tutta l’eternità?

Solo all’ultimo Jebbel si avvide dell’avanzare di un uomo, giunto da chissà dove. Anche le sue vesti erano antiche e gli strani arabeschi che le decoravano alludevano a significati arcani. La misteriosa apparizione volse il capo rasato verso il cercatore di tesori, gli occhi vuoti privi di espressione, e nonostante il terrore che ormai lo avvinghiava, Jebbel trovò il coraggio di domandare: «Chi sei? E quale meraviglia è quella che si compie qui? Perché in questa città tutto è morto, tranne questi uomini, e anche tu appartieni al numero dei vivi!»

Lesmek rispose, la voce simile a un vetro che si rompe: «T’inganni, viandante: essi hanno abbandonato il mondo dei viventi. Eppure il loro spirito ancora sogna del giorno in cui la loro follia li ha condotti alla rovina, e i loro stessi corpi non si avvedono di essere morti. Così, anche se tutto crolla, essi rimangono i medesimi di allora, e tali rimarranno per sempre.»

«Di quale empietà si sono macchiati, perché gli dei li punissero in tal modo?»

«Non so dirti se a colpire è stata la punizione o il divertimento degli dei. Sappi però che colui che regge il flauto intendeva, in un modo che non puoi comprendere, richiamare i morti dal loro sonno per interrogarli sui loro segreti. E tanto li ha destati che essi poi non hanno più voluto abbandonare la luce del sole, che pure temono. La sua sconsideratezza ha fatto di Larisa un sepolcro gemente, e lui è stato il primo a subire le conseguenze delle sue azioni.”

Di nuovo, Jebbel interrogò la figura spettrale. «Quale colpa ha invece l’altro uomo, e perché tu – diversamente da loro – vaghi libero per queste sale vuote?»

“Tutti portiamo una colpa: se su di uno grava una sconsiderata imprudenza, l’altro paga la sua ambizione e il suo ritenersi più astuto dei suoi pari. Quando già la città era ormai vuota e maledetta, la sua brama di potere lo ha indotto a varcare i cancelli di questo luogo. Solo una volta entrato qui ha compreso, ormai troppo tardi, di essersi baloccato con la sua stessa rovina.

Io, infine, pago il prezzo di una vendetta troppo desiderata, persino per chi adora gli dei oscuri. Sono giunto qui per godere della fine di colui che ha il flauto, per ottenere la quale avevo già reciso molte vite. Così, gli dei hanno voluto ben premiare la mia anima nera donandomi l’occasione di osservare in eterno ciò che avevo desiderato. . . e invero, tutto questo non è che il frutto dei desideri realizzati di tre soli uomini. Troppo spesso s’illudono i mortali, uomo: davvero gli dei ascoltano!»

«Gli dei ascoltano!» ripeté Jebbel, senza capire, morendo di paura.

 

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