I racconti di Satrampa Zeiros: Un nuovo arrivo in città…

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“L’epidemia” è il primo di quella che, spero, possa essere una lunga serie di miei racconti sullo Sword and Sorcery che desidero pubblicare su Hyperborea. Ci tengo particolarmente, essendo il racconto che mi ha permesso di condividere qui, con voi, i miei lavori; dunque spero che possiate apprezzarlo in attesa degli altri.

Su di me, ho poco da dirvi, se non che ho sempre avuto il pallino della scrittura, nonostante mi sia sempre occupato d’altro nella vita, così come ho sempre nutrito la passione per il mondo del fantasy e dei giochi da tavolo.

Infine, riguardo al mio nick, magari tra qualche anno vi dirà qualcosa…

Ed ora, vi lascio al mio racconto:

L’epidemia

 

Giorno 32

Silenzio. L’odore degli stufati di piccione e della birra di malto  che vengono dalle cucine della taverna due piani più su sono l’unico stimolo olfattivo che permea l’aria del mio laboratorio. Gli esperimenti proseguono come previsto: e non avrei potuto sperare di meglio. Oggi in città ci sono stati altri 13 decessi. Peste, dicono… Ma non hanno la minima idea di cosa li aspetti realmente. Continuo a perfezionare l’incantesimo col passare delle ore e con l’aumentare delle vittime. Presto sarò degno dei doni di Xy-Lath…

 

Un uomo scarno, dalla pelle giallastra ed un viso orribilmente sfregiato, stava scrivendo sulla schiena incartapecorita di uno zombie immobile dinanzi a se. Il pennino d’osso che stava usando per incidere il suo diario si muoveva avanti e indietro sulla pelle disseccata del non-morto come l’ago di un chirurgo, senza produrre il minimo rumore. Non appena il negromante ebbe finito di registrare le sue ultime parole, ripose il pennino in una tasca della sua larga tunica di lana con un gesto plateale. Per diversi istanti  l’uomo si limitò a fissare il vuoto, spaziando con lo sguardo per la stanzetta buia che utilizzava come base per i propri esperimenti. Disposte su di un tavolaccio vicino all’ingresso, decine di beute e di alambicchi dalla forma bizzarra gorgogliavano piene di un liquido verdastro mentre, poco più in là, c’erano diversi scaffali zeppi di reagenti alchemici e componenti arcane. Quattro piccole rune fluorescenti che diffondevano un tenue chiarore dalle tinte violacee erano l’unica fonte di illuminazione presente nella stanza. Lungo la parete nell”angolo più in penombra del locale, infine,  risultava quasi impossibile distinguere il contenuto di tre grandi vasche di vetro disposte in verticale.

Lentamente, lo stregone si mosse verso il bancone mentre, con un rapido movimento delle dita ed un deciso schiocco di lingua, faceva sparire lo zombie-diario in un mucchietto di polvere grigiastra. Con occhio critico, passò poi ad osservare il liquido melmoso agitarsi senza sosta nelle fiale opalescenti. Doveva davvero ritenersi soddisfatto del lavoro svolto fino ad allora. Testando il preparato sulla popolazione dei  bassifondi gli sarebbero servite soltanto alcune settimane prima che quest’ultimo fosse definitivamente pronto.

Eccitato come un bambino a cui è stato regalato un nuovo giocattolo, il negromante si sfilò scompostamente di dosso la tunica ed andò a fronteggiare le vasche dei simulacri con espressione di febbrile indecisione. I vetri spessi e lo strato di sporcizia che ne incrostava le superfici, assieme alla semioscurità violacea dell’ambiente, avrebbero reso difficoltoso ad un potenziale osservatore il riconoscimento delle sagome racchiuse al loro interno; ma non a lui, che ne conosceva alla perfezione i lineamenti e le caratteristiche fisiche. Aveva usato quei gusci vuoti come simulacri per anni, nascondendosi tra la folla per passare inosservato a quanti avessero potuto riconoscerlo e denunciarlo ai templari per stregoneria. Non che non fosse in grado di tenere testa ai cacciatori di taglie che gli stavano occasionalmente alle calcagna ma, il più delle volte, preferiva lavorare in incognito ed evitare fastidiose seccature.

Dopo una lunga ed attenta analisi delle tre possibili identità, alla fine scelse il corpo della ragazzina: una piccola servetta di strada dall’aspetto ordinario che sarebbe stata scambiata per una delle tante povere orfane costrette a chiedere la carità per le strade e che nessuno avrebbe sospettato di poter compiere alcun male.

Con una risatina soffocata ed un altro schiocco di lingua, il negromante tracciò dei segni complessi con le mani e cominciò ad emettere un denso fumo cremisi dalle narici e dagli angoli della bocca. Nel giro di qualche secondo, cadde in una profonda trance.

Quando riaprì gli occhi, era il suo corpo ad aver preso posto in una delle tre vasche che stava osservando. Si guardò le mani e vide quelle di una bambina di non più di undici anni di età. Le mancava un dito ed aveva tre unghie spezzate. Ricordi di vecchi omicidi.

Saltellando su di una gamba, la ragazzina si diresse verso uno scaffale gremito di cianfrusaglie e ne tirò fuori delle fialette colorate ed un pugnale che si legò alla cintola. Appena fu fuori dal laboratorio, l’oscurità del vecchio seminterrato abbandonato la disorientò. Evidentemente, gli occhi della ragazzina non erano più tanto buoni come gli originali. Non appena avesse completato i suoi piani per la città avrebbe dovuto sostituirla, pensò.

Il tanfo proveniente dal cadavere rigonfio che stavano sorvegliando cominciava a diventare insopportabile. I due soldati di guardia, visibilmente in agitazione davanti all’androne d’ingresso del lazzaretto, stavano sudando copiosamente all’interno delle proprie uniformi.

“Ripetimi di nuovo perché diamine il capitano ci ha ordinato di starcene impalati per ore davanti a questo maledetto cadavere?”

“Perché per lui siamo soltanto carne da macello… Per quello che ne so io, potrebbe averci mandato qua soltanto per vedere quanto tempo ci avremmo messo ad ammalarci di peste…”

L’altro soldato borbottò qualche improperio e sputò a terra. Poi riprese:

“Che poi, si può sapere chi diavolo è che stiamo aspettando? Dico, perché non usciamo da questo postaccio e ci andiamo a scolare qualche birra?  Tanto questo qua – tirando un calcio alla carcassa – mica se ne va da nessuna parte.”

“Ahi… Ma che diav…”

Improvvisamente, qualcosa di duro colpì l’elmetto del soldato, costringendolo a distogliere lo sguardo dal compagno ed a guardarsi intorno alla ricerca dell’aggressore. La stanza in cui si trovavano le due guardie era una sorta di anticamera in cui ai pazienti veniva fatto aspettare prima di essere accolti dai chierici del lazzaretto. Era praticamente spoglia, quasi priva di mobilia dietro cui nascondersi, eccezion fatta per due file di vecchie panche che, tuttavia, sembravano deserte.

“Allora? Proprio non ce la fai a vedermi?” – una voce decisa e penetrante aveva appena schernito la guardia che faticava ad individuarne la provenienza.

“Guarda più in alto – riprese la voce – e fai attenzione che la prossima volta potrei colpirti  con qualcosa di più pericoloso di un innocuo sassolino…”

Finalmente, da una delle strette finestre che illuminavano l’androne, fece il suo ingresso in scena l’uomo che, fino ad allora, si era tenuto nascosto agli occhi dei soldati. A giudicarlo dall’aspetto, quell’uomo non avrebbe incusso alcun timore: magro, basso di statura ed aveva un paio di occhi marroni che ispiravano tenerezza; eppure, a sentir pronunciare ad alta voce il soprannome di Algis, “The Banisher”, persino il più incallito dei criminali sarebbe sobbalzato dallo spavento. Esperto in ogni genere di arte marziale e profondo conoscitore della magia e dell’occultismo, Algis veniva spesso impiegato dalle autorità come cacciatore di teste, specialmente se fuori dal comune o dedite all’eresia ed alla stregoneria. Ed anche allora, quando infine le due guardie lo riconobbero,  la sua semplice presenza in quella stanza bastò a far gelare loro il sangue nelle vene.

“A-algis in persona! – a parlare fu l’altro soldato, quello che non si era beccato il sassolino sull’elmetto – il nostro capitano non ci aveva dato alcun dettaglio: pensavamo di trovarci a scontare una qualche punizione…”

L’espressione scherzosa del cacciatore di teste si tramutò in uno sguardo di serena compassione e gli fece segno di non preoccuparsi e di farsi da parte, cominciando in silenzio ad estrarre gli attrezzi necessari alla sua indagine sul cadavere. Dalla piccola sacca di pelle che portava legata a tracolla, per ultimi, Algis tirò fuori un medaglione a forma di goccia ed un bisturi dorato dalla punta estremamente sottile.

Le due guardie rimasero esterrefatte nel guardarlo recitare una cantilena in una lingua sconosciuta che fece perdere consistenza al medaglione, rendendolo quasi trasparente alla vista. Al termine dell’invocazione, con precisione chirurgica, Algis depose il medaglione a terra e cominciò ad incidere col bisturi le piaghe suppurate che tappezzavano la pelle del cadavere. Man mano che i fluidi corporei sgorgati dalle ferite aperte andavano raccogliendosi sulla superficie traslucida del medaglione, quest’ultimo vibrava violentemente, mutando nella forma e nel colore ad ogni nuova goccia. Quando Algis decise di richiudere l’incisione e fermare quello strano processo, l’oggetto aveva riacquistato le fattezze originarie ed aveva perso ogni forma di lucentezza.

Ancora impressionato, uno dei due soldati si rivolse timidamente al cacciatore di teste, chiedendogli:

“Se posso chiederlo… potresti spiegarci a cosa abbiamo assistito? Siamo in pericolo?”

“Rispondo alla tua domanda con un’altra domanda – ribatté divertito lui – Secondo voi, di cosa è morto questo poveraccio?”

“Peste!?” – rispose incerta la guardia.

“Sì, peste – aggiunse l’altro soldato – Pare che in città si stia diffondendo una nuova epidemia…”

“Purtroppo no. E, a giudicare dallo scenario che mi sono ritrovato davanti, un’epidemia di peste sarebbe di gran lunga più auspicabile. Avvicinatevi, guardate qui…”

Algis si rimise in piedi, tendendo con entrambe le mani il medaglione verso i suoi due curiosi interlocutori. Non appena i loro visi furono abbastanza vicini all’oggetto, lui vi soffiò sopra e le due guardie furono investite da un pulviscolo rossastro che li fece tossire violentemente.

“Cosa diavolo ci hai fatto?” – esclamò inorridito uno dei due.

“Io? – rispose Algis con un ghigno divertito sul viso – Io niente! I residui di polvere arcana consumata sono innocui. Al massimo potrebbero farvi venire un raffreddore, ma non credo che vi facciate spaventare per così poco,voi soldati della milizia… Piuttosto, invece, fareste bene a preoccuparvi dello stregone che ha utilizzato questa polvere arcana da qualche settimana a questa parte per avvelenare mezza città…”

Dal vicolo delle puttane proveniva uno sgradevole odore di sudore misto a fragranze floreali di basso livello. Il negromante nel corpo della ragazzina se ne stava accasciato ad un muro di mattoni rossi ad aspettare la giusta cavia, paziente come un ragno al centro della propria tela. Il piattino delle elemosina che aveva portato con sé era ancora vuoto, ad eccezione di una vecchia monetina bucata che le era stata donata da un vecchio malandato più di un’ora prima. Da allora, non era ancora passato nessuno che potesse essere adatto al contagio: nessun ricco mercante che, tornandosene a casa dopo essersi sfogato con una prostituta, fosse passato di lì, né un soldato di ronda dal cuore gentile che si fosse impietosito di quel faccino sofferente. Questione di minuti, si disse per nulla rassegnato, assaporando il momento in cui il terrore si sarebbe impadronito della sua prossima vittima.

La piccola mendicante stava iniziando a sonnecchiare quando, finalmente, una donna paffuta, sulla quarantina, le si avvicinò sussurrandole un saluto. Di tutta risposta, lei le rivolse un sorriso e fece cenno con il capo indicando la monetina solitaria nel piattino. Mossa a compassione, la donna, che doveva essere una di quelle mogli disperate in cerca del proprio marito intento a bighellonare tra alcool e sottane, tirò fuori dalla borsetta una manciata di talleri d’argento e si chinò per lasciarglieli nel piattino.

“Tieni, piccolina – aggiunse con voce triste – spero che un giorno possa dover smettere di fare questa tua brutta vita…”

In quel momento esatto, la ragazzina alzò lo sguardo ed entrambe le sue braccia si serrarono attorno al polso della donna che rimase senza fiato, sorpresa da quel gesto e dalla forza con cui si era sentita afferrare.

Approfittando del fatto che il vicolo sembrasse deserto e nessun altro avrebbe potuto assistere all’aggressione la volontà del negromante allentò la presa sui sensi del proprio simulacro, concentrandosi sull’incantesimo da lanciare subito dopo.

La donna paffuta, intanto, stava cercando di divincolarsi dalla presa con tutte le sue forze, ma invano. Non appena si rese conto più seriamente del pericolo che stava correndo, cominciò a gridare a squarciagola in cerca di aiuto sebbene, dopo pochi secondi, fosse stata investita da una strana sensazione, come se una scarica elettrica le avesse attraversato improvvisamente l’intero corpo. Si accorse, ben presto, di tentare di gridare invano poiché era appena stata paralizzata dalla testa ai piedi, lingua compresa.

La ragazzina, nel frattempo, aveva lasciato andare il polso della donna grottescamente immobilizzata in una posa innaturale, alzandosi lentamente in piedi.

“Non preoccuparti – le sussurrò ad un orecchio con la voce di un uomo anziano – non ti farà poi così male…”

Solennemente, estrasse un vecchio coltello arrugginito che teneva nascosto sotto la cintola e le fece un piccolo taglio sul dito indice della mano destra. Poi, da un’altra tasca del suo vestito logoro, tirò fuori un’ampollina piena di liquido verdastro e gliela versò sulla ferita, mischiandone il contenuto al sangue della donna paralizzata. Al contatto tra i due liquidi, un rivoletto di fumo denso si sprigionò dall’incisione e, in un batter d’occhio, la richiuse cicatrizzandola.

La vittima aveva assistito esterrefatta all’intera scena, senza poter battere ciglio. Di una cosa era certa: quella ragazzina dalla voce profonda era stata di parola e non aveva sentito alcun dolore. Non avrebbe mai immaginato, però, che nel giro di qualche ora, sarebbero iniziati a manifestarsi i primi sintomi del veleno che le era stato appena inoculato: febbre, convulsioni, purulenza e morte.

“Tra pochi minuti potrai persino tornartene a casa con le tue gambe…” – concluse la piccola mendicante. Poi, felice come una scolaretta al suo primo appuntamento, raccolse le sue cose e scomparve nell’oscurità dei bassifondi.

C’era uno strano odore d’incenso e spezie che si diffondeva pigramente nell’atrio della grande sala da pranzo in cui Algis era in attesa di ricevere udienza dal podestà. La sua natura curiosa lo spinse ad osservare con cura ogni angolo del locale, in cerca di oggetti pregiati e suppellettili esotiche: proprio il genere di cose che si aspettava di trovare nella dimora di un nobile. Sfortunatamente, non trovò nulla  che gli solleticasse l’attenzione abbastanza da distoglierlo dai pensieri cupi degli ultimi giorni. Le indagini che aveva condotto sulla strana epidemia che continuava a diffondersi in città, non avevano portato a nulla di buono. Dietro a quelle morti c’era la mano di uno stregone molto potente, capace di sfuggire facilmente alle autorità ed, allo stesso tempo, di continuare indisturbato la sua opera nefanda. Eppure, la traccia dei suoi incantesimi risultava ben visibile a quanti, come lui, avessero avuto le giuste capacità; assicurare l’eretico alla giustizia era soltanto questione di tempo, ma Algis aveva bisogno dell’approvazione del podestà. A mali estremi, estremi rimedi, si disse.

Quando, dalla porta d’ingresso della sala da pranzo fece la sua comparsa il governatore della città, Algis per poco non scoppiò a ridere: il podestà era un omuncolo di appena un metro e trenta di altezza, largo quasi quanto fosse alto ed agghindato con abiti talmente variopinti da sembrare un giullare della peggior specie. Trattenendosi a fatica e cercando di mantenere la propria espressione il più seria possibile, lo salutò con una riverenza.

“Algis, ti vedo finalmente di persona! La tua fama ti precede! – gli rispose il podestà spalancando gli occhi dalla sorpresa – Ho sentito dire dai miei uomini che hai delle importanti novità riguardo alla tua ricerca. Sì, deve essere così, altrimenti non avresti chiesto udienza con tanta urgenza, non è vero?”

Il cacciatore di teste lo guardò muoversi allegramente, diretto verso un piccolo trono di mogano situato in un angolo della sala da cui poteva osservarne tutto il resto; ma non rispose.

“Allora, vuoi dirmi dove si nasconde quel dannato topo di fogna – continuò il podestà una volta sedutosi sul suo scranno – Hai bisogno per caso di rinforzi?”

Dopo lunghi istanti di silenzio in cui Algis continuò a reprimere l’istinto di ridergli in faccia, finalmente gli rispose:

“Ciò di cui ho bisogno non sono i tuoi uomini… A questo ritmo, tra meno di un mese più dei due terzi della popolazione sarà stata contagiata e non c’è altro tempo da perdere; ho bisogno di una tua autorizzazione ufficiale…”

A quelle parole il governatore si contorse sulla sedia, visibilmente preoccupato.

“E per cosa ti servirebbe un documento del genere?”

“Devo compiere un rituale, un rituale proibito…”

Giorno 97

Quasi tutto è ormai compiuto. Dalle ampolle di Arcanum proviene un gradevole odore di morte e di putrefazione. Xy-Lath sarà compiaciuto del lavoro che ho fatto in questa fogna di città e, non appena avrà finito di divorare le anime di quanti sono caduti per mano mia durante questi mesi, mi ricompenserà con la vita eterna. Ascenderò alla dimensione demoniaca e sarò inarrestabile! C’è soltanto un’ultima prova da affrontare: schiacciare l’insetto che mi sta dando la caccia per conto del re, ma sarà un gioco da ragazzi… Pensava davvero che non mi accorgessi del suo stupido rituale? Le anomalie che ha provocato nel velo arcano sono state talmente forti che persino un novizio dell’Accademia le avrebbe percepite. Comunque, gli ho preparato un’accoglienza che difficilmente dimenticherà…

 

Lo stregone terminò di incidere l’ultima parola sulla schiena del suo zombie quando ancora, dall’esterno, si sentivano le grida degli avventori ubriachi della locanda alcuni piani più su. Era notte fonda, ma quei rumori sarebbero durati a lungo e sarebbero stati un’ottima copertura per il combattimento a venire. Una volta ucciso il cacciatore di teste, difficilmente qualcun altro avrebbe avuto il coraggio di indagare sulla sua sorte. Ridacchiando, lo stregone sigillò la porta d’ingresso della stanza ed attivò le trappole arcane che, con estrema cura, aveva piazzato già da diversi giorni. Quando, infine, si sentì pronto per lo scontro, disinnescò le rune fluorescenti e rimase in attesa, circondato dall’oscurità.

Con un boato tremendo, le assi di legno del portone esplosero frantumandosi in mille pezzi. Algis aveva stanato la sua preda e non c’era più tempo per sottigliezze o sotterfugi. Sicuro dei propri mezzi e delle proprie capacità, il cacciatore di teste approfittò della confusione creata dall’esplosione per lanciare una biglia di metallo al centro della stanza che, a contatto col pavimento, sprigionò una densa coltre di fumo bluastro. Anche se lo stregone avesse lanciato un incantesimo di dissoluzione, Algis avrebbe avuto alcuni preziosi secondi a disposizione per scovarlo ed infliggergli un colpo mortale. Come previsto, infatti, grazie ad uno speciale monocolo che gli permetteva di distinguere i profili termici delle cose, riuscì immediatamente ad individuare la sagoma seminascosta del negromante e corse verso di lui col pugnale alla mano. Ormai a pochi centimetri dal petto dello stregone, Algis si accorse di un sigillo arcano disegnato a terra che stava vertiginosamente aumentando la propria temperatura. Con un gesto elegante del palmo sinistro, disegnò quindi una forma complessa nel fumo e spiccò in corsa un balzo all’indietro proprio un attimo prima che una vampata infuocata si sprigionasse dal sigillo calpestato. La barriera appena invocata lo protesse dalla dirompente ondata di calore ma, una volta atterrato, fu costretto a liberarsi della lente speciale che gli si stava liquefacendo sulla guancia.

Esterrefatto, lo stregone pronunciò l’ultima parola dell’incantesimo ed il fumo scomparve dalla stanza. Se non fosse stato per uno dei suoi glifi, probabilmente sarebbe stato colpito a morte dall’assalitore, nonostante la profonda oscurità e le immagini speculari che aveva sparso per la stanza. Dopotutto, il cacciatore non doveva essere tanto sprovveduto come lui credeva. Senza perdere tempo, estrasse dalla tasca un pugno di polvere arcana e cominciò a spargerla ai suoi piedi, preparandosi ad una mossa estrema.

Col fumo completamente disperso, Algis cercò riparo dietro ad una serie di bancali mentre i suoi occhi cercavano di adattarsi al buio dell’ambiente. Lo stregone, evidentemente, aveva disseminato di trappole la superficie del pavimento per non essere ingaggiato in corpo a corpo. La barriera che lo aveva protetto poco prima avrebbe potuto resistere almeno ad un’altra attivazione diretta, ma non poteva permettersi di rischiare. Sfortunatamente per l’eretico, Algis conosceva molti altri modi per assicurare i suoi bersagli alla giustizia.

Da due fondine che portava appese all’altezza del petto, estrasse una coppia di balestrini e si guardò intorno, facendo capolino dai bancali. In diversi punti del locale, cinque sagome identiche tra loro stavano mimando esattamente la stessa  sequenza di parole e gesti. Illusioni, create dal negromante per ridurre le probabilità di essere colpito. Con il monocolo termico fuori uso e poco tempo a disposizione per ragionare, Algis non aveva altra scelta che sparare a tutte e sperare di colpire quella vera prima che l’eretico terminasse l’incantesimo.

Quando vide due delle sue effigi svanire come nebbia dopo essere state trafitte da una raffica di dardi, lo stregone fu attraversato da un brivido di insicurezza. Che fosse arrivato il momento di rivedere i propri piani e di fuggire per mettersi in salvo? No, si disse: quel giorno la fine sarebbe giunta per il suo persecutore, non per lui.

Dopo aver schioccato la lingua per un’ultima volta, una violenta onda d’urto percorse l’aria del laboratorio facendone tremare le pareti. Un contenitore metallico caduto da uno degli scaffali fece attivare una delle trappole, da cui si sprigionò una colonna di fuoco cremisi. Il chiarore della vampata gli permise di scorgere il cacciatore di teste muoversi rapidamente verso l’angolo opposto in cui teneva le vasche dei simulacri. Lentamente, poi, tirò un sospiro di sollievo quando dalla polvere ai suoi piedi cominciarono a sorgere svariate decine di creature barcollanti. Erano i resti degli spiriti divorati dall’epidemia pronti ad accorrere in suo aiuto, trasformatisi in creature demoniache e divenuti servi di Xy-Lath per l’eternità. Evocarne così tanti poteva sembrare sconsiderato, ma era sicuro che dopo una mossa del genere non avrebbe potuto perdere il duello. Con la fronte imperlata di sudore, lo stregone si appoggiò al proprio bastone, sulla difensiva, e si abbandonò ad una risata maniacale.

Appoggiato ad una delle tre grandi vasche di vetro all’angolo della stanza, Algis assistette sbalordito all’evocazione demoniaca che lo stregone era riuscito a portare a termine. Lo sferragliare di armi arrugginite ed il chiacchiericcio innaturale di quelle creature sovrastavano persino le risa isteriche che provenivano dal loro evocatore. A contarle rapidamente, dovevano essere più di cinquanta e sperare di sconfiggerle tutte in combattimento in un ambiente così ristretto sarebbe stato pressoché impossibile, persino per lui. C’era soltanto una cosa che poteva fare per porre fine a quella storia,ma sarebbe stato estremamente rischioso per se e per le vite di quanti si trovavano in superficie nel giro di parecchi metri. Ormai quasi completamente circondato dalla prima ondata di demoni, Algis prese la sua decisione: aveva ottenuto carta bianca sia dal re che dal podestà e non poteva permettersi di fallire per colpa di inutili rimorsi di coscienza. Ripetendo gli stessi complicati movimenti, richiamò una nuova barriera attorno al proprio corpo ed assunse una posizione meditativa, in equilibrio su di una sola gamba. Pacatamente, Algis cominciò a recitare una litania in una lingua dimenticata, dapprima mormorando e poi sempre più ad alta voce. Si sentiva addosso lo sguardo di centinaia di occhi maligni che provavano invano a scalfire lo scudo invisibile che lo proteggeva; poi, inesorabilmente, il suo canto volse al termine. Dall’interno, una luce di un bianco purissimo cominciò ad avvolgere il contorno del suo corpo, aumentando costantemente d’intensità e di calore.

Pochi secondi prima della fine, Algis vide fuoriuscire con la coda dell’occhio piccole volute di fumo rossastro da quella che doveva essere la sagoma dell’eretico prima di essere divorato assieme all’orda di creature dal violento rilascio di energia sacra appena provocato.

Al posto della locanda e degli edifici circostanti, ora sorgeva un enorme cratere profondo parecchi metri e pieno zeppo di detriti fumanti. Al suo centro giaceva scomposto il cadavere di Algis, schiacciato da una valanga di calcinacci e circondato dal cadavere del negromante e dai resti polverosi dell’armata demoniaca. Una piccola folla di curiosi stava lentamente radunandosi alla bocca del cratere in cerca di superstiti o di corpi da saccheggiare.

Squittendo freneticamente, un ratto spelacchiato sbucò fuori da quell’ammasso di macerie e sgattaiolò via il più in fretta possibile. Un lampo di luce rossa attraversò i suoi occhi mentre scompariva nell’oscurità delle fogne.

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