Oggi, per la rubrica “I racconti di Satampra Zeiros”, proponiamo Il guerriero di Samarcanda, racconto sword and sorcery di Alberto Henriet, che si è classificato secondo alla 2° edizione del concorso Thoth-Amon.
Buona lettura.
Autore: Alberto Henriet è nato ad Aosta il 14 Ottobre 1962. Vive ad Auckland (New Zealand) dall’Ottobre 2008. Ha pubblicato il fantasy Storia di un cavaliere gotico (Midgard, 2007); L’uomo che cavalcava la tigre (Tabula Fati, 2012) sul Dadaismo italiano; l’antologia personale Capitan Aosta Esoterico (Edizioni Scudo, 2016); il Gothic fantasy Ulric di Oxenton (Edizioni Scudo, 2016), illustrato da Pompeo De Vito; la raccolta poetica Sognando un piccolo mondo antico (Edizioni Scudo, 2016); e il western Dead Django (Edizioni Scudo, 2017) . Ha curato per Midgard Editrice la serie fantasy italiana I Figli di Beowulf (2008-2012). Suoi racconti sono apparsi sulle riviste L’Eternauta, Futuro Europa, Yorick Fantasy Magazine, Intercom SF, NOVA SF, NeXT e Hyperborea (Italian Sword & Sorcery).
Sinossi: Ottobre 1917. András Uzbek è noto come il Guerriero di Samarcanda. Di origini ungheresi, vive una serie di Avventure fantasy nel deserto montuoso di un Uzbekistan di fantasia, accompagnato da un guerriero Turco di nome Yilmaz che è la sua guardia del corpo.
Il guerriero di Samarcanda
di Alberto Henriet
Si chiamava András Uzbek. Era di origini ungheresi e viveva nell’Uzbekistan da otto anni dopo avere lasciato Budapest per un viaggio di esplorazione del Medio Oriente. Naturalmente, Uzbek era un soprannome, ma a lui piaceva. A Samarcanda, aveva finito col diventare un mito. A cavallo del suo bianco stallone arrogante e selvaggio, era il padrone indiscusso del deserto montuoso che circondava la magnifica città.
Era alto, muscoloso ma non troppo; portava una barba bronzea ben curata, tenuta corta. Gli occhi erano di metallo azzurro penetrante. I capelli lunghi. Era vestito di brache scarlatte, infilate in alti stivali neri dagli orli superiori decorati in argento. Un’armatura di metallo leggero modellava i muscoli del suo torace. Un gran mantello di feltro bianco, preziosamente ricamato in oro aleggiava sulle sue spalle. Le braccia abbronzate erano coperte da placche in acciaio scintillante. Il capo era protetto da un elmo conico. Al collo era avvolta una leggera sciarpa color indaco, e brillava un medaglione aureo al cui centro spiccava l’occhio di Bek, un potente talismano appartenuto ad un suo antenato celebre, un mago ungherese del XVII secolo che si diceva dedito alla magia nera. Era armato di una splendida scimitarra la cui lama era filigranata di ottone e affilata come un rasoio. L’elsa in oro era decorata con minuscoli rubini. Le mani erano protette da guanti di maglia di ferro. Quando appariva nel deserto, faceva una certa impressione, specie quando era accompagnato dalla sua piccola ma terribile legione di guerrieri Uzbeki che gli erano fedeli fino alla morte poiché avevano finito col convincersi ch’egli fosse non già umano ma una vera e propria incarnazione del loro Dio della Guerra.
Il suo cavallo sembrava il destriero di un demone. Aveva preziosi finimenti aurei, e gli occhi selvaggi tipici delle fiere dell’Inferno. La sella era coperta da una raffinata gualdrappa color ocra e azzurro.
Il tramonto del sole passò lasciando una ferita di rame verdastro nel cielo dove nuvole cupe come piombo avevano preso ad accumularsi. La tenda in feltro vermiglio di Uzbek era una vera e propria yurta, alla maniera mongola. Al suo interno, Uzbek sedeva su uno scranno di legno rozzo mentre una fiamma capricciosa spiraleggiava in un braciere d’ottone.
Ottobre 1917, pensò András. Il tempo passa in fretta. Otto anni sono trascorsi dalla mia partenza dalla capitale ungherese.
Toccò con le dita della mano destra l’Occhio di Bek, e il talismano gli trasmise una leggera scossa di nervosa energia che lo rassicurò come se fosse un contatto soprannaturale col mago secentesco che apparteneva alla sua oscura famiglia. András sorrise in maniera inquietante. La sua guardia del corpo che era in piedi di fronte a lui, ebbe un brivido e un leggero pallore apparve sul suo volto. Il soldato era rivestito di un’armatura a rilievo che raffigurava in modo stilizzato gesta eroiche di un guerriero mitologico che avrebbe potuto essere Uzbek in persona, ma trasposto in un contesto fantastico.
“Non avere paura, Yilmaz,” fece András. “Non hai nulla da temere dalla mia persona. Sei il mio protetto, e la mia guardia del corpo allo stesso tempo.”
L’uomo sembrò rilassarsi. Era un guerriero Turco. E si erano incontrati a Istanbul anni prima diventando col passare del tempo stretti compagni di avventure nel Medio Oriente.
Sogni di sangue che avevano il sapore di un incubo, ossessionavano András: l’abdicazione dello zar Nicola II avvenuta nel marzo 1917; la recente presa del potere da parte dei Bolscevichi al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo. E presto l’Armata Rossa avrebbe fatto la sua comparsa anche nell’Uzbekistan, nella città di Samarcanda che era entrata nell’Impero russo nel 1868. Provava una profonda inquietudine. Il mondo stava cambiando nuovamente e in modo veloce. L’Era dei Grandi Imperi d’Europa sembrava vicina alla fine. Come se avesse intuito in anticipo il nuovo corso in atto della Storia, András aveva lasciato l’Ungheria per iniziare un lungo viaggio attraverso il Medio Oriente che era la sua idea dell’Ignoto e dell’Avventura, alla ricerca di se stesso, lontano da un mondo che stava crollando. La guerra civile nell’Impero russo sarebbe dilagata, però, dalla Russia fino agli stati di confine come l’Uzbekistan.
Uscì dalla tenda mentre il crepuscolo si faceva cupo benché non fosse ancora notte. Yilmaz come sempre lo seguì. Le prime stelle brillarono nel cielo parzialmente coperto di nembi minacciosi. Voleva camminare un po’. Si diresse verso la cima di una collina rocciosa che dominava il paesaggio intorno e dalla quale poteva vedere la magnifica città di Samarcanda con le sue moschee. Le luci cominciarono ad accendersi nell’antica metropoli. András toccò lievemente il medaglione magico, che rispose con una leggera scossa elettrica. Nella sua mente, poté avvertire la presenza del misterioso negromante del Seicento che era stato un suo antenato. E quella presenza, pur inquietante, lo mise a suo agio: era la continuità della Storia in un’epoca che stava per crollare a pezzi e ancora non ne aveva la piena consapevolezza. Il suo status di Viandante e Guerriero ai margini del mondo gli piaceva. Era psicologicamente pronto allo spaesamento che presto avrebbe gettato l’Europa nel caos totale.
“Ti vedo preoccupato, fratello d’armi,” disse Yilmaz rompendo il silenzio che sembrava fosse durato troppo a lungo nella loro passeggiata serale.
“Stavo riflettendo su quanto sta accadendo, e il destino che il futuro riserva a Samarcanda non è detto che mi piaccia. Potrebbero volerci interi decenni prima che la situazione storica torni ad una parvenza di normalità tradizionale,” rispose l’ungherese ma si pentì quasi subito di quanto aveva detto. Si accorse dell’espressione perplessa del Turco che non poteva seguirlo nella sua visione di un futuro che gli era impossibile immaginare e comprendere.
“Torniamo nella tenda, Yilmaz,” si limitò ad aggiungere. “Le cose finiranno comunque per trovare un nuovo equilibrio ma ci vorrà del tempo prima che questo avvenga.”
“Hai ragione, ungherese. Tutto finirà col prendere la giusta piega a guerra terminata,” convenne la guardia.
I moti rivoluzionari bolscevichi del 1917 non suscitavano un completo fascino sugli Uzbeki mussulmani facenti parte del vecchio impero zarista. D’altra parte, già molti anni prima dello scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, i rapporti tra gli Uzbeki e il governo di San Pietroburgo si erano contraddistinti per un’accesa conflittualità riconducibile alla non accettazione da parte di questa minoranza del dominio politico-culturale slavo. Essi consideravano i Russi – che verso la metà del XIX secolo, dopo lunghe campagne, erano riusciti ad occupare e colonizzare questa regione – alla stregua di veri e propri invasori, apportatori, tra l’altro, di costumi e di metodi di governo lontani anni luce dalla realtà di gran parte delle comunità centroasiatiche.
Nelle montagne, si rifugiavano guerriglieri islamici che combattevano l’affermarsi dei bolscevichi anche in Uzbekistan. A volte, András poteva incontrarli. Non erano in sintonia politica, ma condividevano tuttavia l’estraneità verso la Rivoluzione Sovietica.
La notte scese, e colse l’ungherese nervoso. Non riusciva a prendere sonno mentre la fiamma nel braciere assumeva una strana tinta azzurra come alcune cupole delle moschee di Samarcanda. Yilmaz a sua volta sembrava spaventato, e stringeva forte la scimitarra di cui era armato. Strani glifi aurei e scintillanti apparivano e scomparivano all’interno della tenda. E infine un demone prese vita e corpo. Aveva la pelle color indaco, tatuata con simboli magici dorati. Le sue orecchie erano a punta. Aveva una barba a pizzo nera. Gli occhi erano scarlatti. Portava brache aderenti purpuree infilate in alti stivali. Era a cavallo di uno strano destriero in parte scarnificato e dallo sguardo feroce come una tigre.
L’Occhio di Bek si animò, e dal cuore della gemma si materializzò un lampo argenteo che creò uno schermo lucente di protezione intorno ai corpi di András e Yilmaz.
“Vedo che hai un potente alleato, Europeo,” disse il demone con una strana voce metallica che sembrava tagliente come il filo di un’ascia.
“Non sono uno sprovveduto, demone, e un potente negromante è il mio alleato di carne e sangue,” replicò l’avventuriero di Budapest estraendo la sua scimitarra che prese a brillare a intermittenza come se la sua anima fosse elettrica e ansiosa di assorbire tutta la forza vitale della creatura infernale che si era materializzata all’interno della yurta.
E aggiunse: “A che cosa debbo la tua non richiesta visita, essere infernale?”
Il demone scese dal destriero, e fece qualche passo verso András ma non si avvicinò troppo.
“Dietro le quinte della Storia, è in atto da molti secoli una guerra arcana che vede contrapposte forze che voi Umani definite in modo approssimativo del Bene e del Male e il cui senso metafisico profondo non potete comprendere. L’esito finale di questo conflitto metastorico non è certo, e nel migliore dei casi potrebbe forse risolversi in un equilibrio tra i principali Antagonisti raggiunto a duro prezzo di vite umane. In questa fase, il mio Signore è alla ricerca del maggior numero possibile di alleati per contrastare l’affermarsi dell’Armata bolscevica che porterà ad una pericolosa deviazione dal corso normale della Storia che potrebbe avere conseguenze negative per lunghi decenni e forse addirittura secoli. Il mio padrone ritiene che tu possa essere un valido elemento per arginare potenzialmente questa deriva,” spiegò il demone e tacque attendendo una risposta da parte di András.
“Non vedo in che modo il mio intervento a fianco del tuo signore possa modificare il corso di eventi che sembrano per ora non contrastabili,” fece l’ungherese saggiamente.
“Comprendo la tua obiezione, umano,” replicò l’essere infernale, “ma non sempre è importante vincere subito un conflitto di simile portata: è altrettanto essenziale mantenere un certo atteggiamento, una certa posizione di principio anche se in apparenza può sembrare un temporaneo e inutile dispiego di energie.”
“Devo riflettere più a lungo, demone, su questa tua proposta. Ritorna all’Inferno. Avrai una mia risposta attraverso il mio potente talismano,” replicò con arroganza.
Yilmaz aveva perso i sensi quando lo schermo energetico protettivo li aveva circondati. András infine cedette al sonno mentre rifletteva, osservando la fiamma azzurra baluginante che sembrava metterlo di fronte a misteri che andavano ben oltre la sua umana capacità di comprensione delle dinamiche occulte della Storia.
Quando si destò, provava una strana sensazione, come un retrogusto amaro generato da una situazione se non spiacevole, di certo ostica e scomoda da affrontare.
Il giorno seguente, l’ungherese era in attesa di un treno proveniente da San Pietroburgo. Con Yilmaz e i suoi guerrieri Uzbeki si trovava nascosto tra le colline che sovrastavano i binari della ferrovia. Non doveva mancare molto. Stavano aspettando da alcune ore, e il sole era ormai alto in cielo…
Lady Sylvia aveva lasciato San Pietroburgo pochi giorni prima che, in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, i Bolscevichi prendessero il potere occupando il Palazzo d’Inverno. Il treno a vapore della linea transcaspica sul quale stava viaggiando era quasi giunto a Samarcanda.
Stavano attraversando una zona aspra e desertica che era potenzialmente pericolosa e nota per le imboscate tese ai convogli ferroviari dai guerriglieri ribelli anti-Russi, sempre alla ricerca di fondi per rifornirsi di armi.
Era inglese e affascinata dalla Rivoluzione Sovietica. Quando lo zar Nicola II era uscito di scena, lei era partita alla volta della Russia. Era una scrittrice, e voleva scrivere un diario degli eventi tumultuosi che stavano avendo luogo nell’Impero russo che era al collasso.
…E poi András lo vide. E disse rivolgendosi a Yilmaz: “ Ecco il Treno della Rivoluzione,” e poi tornò a volgere lo sguardo verso la nera e lustra locomotiva a vapore, drappeggiata nelle bandiere sovietiche, che era apparsa nell’orizzonte lontano, avvolto in una foschia polverosa come sabbia ferrosa rosseggiante.
La scrittrice di Albione osservò la scabra landa dal finestrino, e giá si potevano scorgere lontane le punte lucenti e azzurrine dei minareti di Samarcanda, e qualche cupola delle moschee della città di Tamerlano. Dalle colline vicine si levò una nuvola di polvere sollevata da un gruppo di cavalieri che stavano scendendo all’attacco del convoglio ferroviario. Quelli dovevano essere i temibili fuorilegge controrivoluzionari, ben noti ai Russi e ai Bolscevichi. Alcuni era islamici, altri appartenevano all’Armata Bianca, ostile alla Rivoluzione. Non ricordò altro poiché il cristallo del finestrino esplose in mille frammenti colpito da un proiettile vagante, e lei perse i sensi…
Quando si riprese, la donna si accorse di non essere più a bordo del treno, ma all’interno di una tenda del deserto, in feltro vermiglio. Dovevano averla fatta prigioniera. Per qualche istante, temette il peggio, poi vide l’Europeo vestito in una sgargiante tenuta da guerriero, e la paura si attenuò.
“Io sono il barone András Uzbek di Budapest. Benvenuta nella mia tenda,” disse sorridendo mentre l’Occhio di Bek si fece fosco, e una figura esile e spettrale uscì dal suo cuore e si protese verso Sylvia.
Lei si spaventò, e reagì dicendo: “Lei è un aristocratico ungherese decadente, e mi ha drogata. La magia non esiste, è una semplice fantasia superstiziosa. La smetta con i suoi giochi di prestigio da mago Houdini!”
“La magia esiste, e la Necromanzia è cosa reale, Lady Sylvia,” commentò András. “In ogni modo, fino a quando lei si troverà sotto la mia protezione, nulla di spiacevole le accadrà. Ma se non si comporterà in modo cortese nei miei confronti, potrei decidere di darla in pasto ai guerriglieri islamici controrivoluzionari che dimorano in queste aspre vette. Forse, dopotutto, le conviene restare qui, nella mia yurta negromantica,” aggiunse divertito.
András osservò la sua ospite. Era vestita con una uniforme militare da soldato russo, e sembrava a suo agio nella veste di Donna della Rivoluzione.
Forse dopotutto era in buona fede, o era una fanatica. Non poteva sapere che cosa ci celasse veramente dietro l’illusione della Rivoluzione, pensò da conservatore.
“Io sono una Rivoluzionaria. Le persone come lei non saranno in grado di fermarla,” continuò Sylvia in modo audace e con un atteggiamento non dissimulato di autentica sfida.
“Io invece potrei raggiungere l’Armata Bianca in Siberia, in difesa della Russia asiatica, per arginare il dilagare ad Est della sua Rivoluzione,” rispose András, raccogliendo la sfida della donna.
Non erano in sintonia politica, questo era evidente, ma erano entrambi Europei, e dovevano trovare una maniera di intendersi e tollerarsi l’un l’altro dal momento che si trovavano in un mondo a loro estraneo, quello centro-asiatico e islamico che non potevano comprendere appieno. Ma lei sembrava accecata dalla sua rossa ideologia, e trovare un modo accettabile per comunicare a vantaggio di entrambi non sarebbe stato semplice.
“Questa notte, scenderemo a Samarcanda, visto che era la sua finale destinazione,” fece András.
Lei sembrò riflettere per un poco, e poi replicò: “Certo, di giorno, non potrebbe. I bolscevichi l’arresterebbero subito.”
“In un certo senso,” confermò enigmaticamente lui. Ma non aggiunse altro.
La giornata passò tra alti e bassi, e schermaglie dialettiche tra i due che avevano punti di vista sulla realtà troppo diversi perché potessero veramente intendersi. Il crepuscolo fece largo al manto regale della Notte. Sotto il cielo del deserto montuoso, terso come cristallo, splendevano le stelle, e tre Viandanti fecero rotta verso Samarcanda, la Magnifica.
La città sembrava deserta, quasi abbandonata, di notte, come se le tenebre fossero il dominio riconosciuto dai suoi abitanti superstiziosi, sia Russi sia Uzbeki, di creature non umane che vagavano nelle sue vie, e che era meglio evitare. Lampade argentee schermate da cristalli azzurri come le cupole delle moschee brillavano di una luce ambrata agli angoli delle strade. Ma non erano demoni islamici le creature in agguato per le vie di Samarcanda. Uzbek, Lord della Guerra d’Ungheria, fece il suo ingresso a cavallo del suo bianco stallone infernale, mentre i preziosi finimenti aurei tintinnavano musicalmente, evocando una musica tenebrosa e incantata dal fascino sottile. Il destriero era avvolto da una singolare luminescenza fosforescente originata dall’Occhio di Bek. Lady Sylvia e Yilmaz condividevano lo stesso cavallo. Lei sembrava impressionata dalla strana mutazione visiva della cavalcatura di András ma allo stesso tempo continuava ad essere scettica, e riteneva che lui non fosse un autentico negromante ma piuttosto un abile mago e illusionista da fiera. Non sarebbe stato facile per Uzbek convincerla del contrario.
Di notte, il cavallo subiva un cambiamento fisico connaturato al regno misterioso delle tenebre, e perdeva lacerti di carne, che rivelavano parzialmente le ossa fosforescenti e i i muscoli irrorati da copioso sangue quasi nero e rappreso. Di certo, una simile cavalcatura infernale a spasso per le vie di Samarcanda non poteva non suscitare una certa impressione.
Raggiunsero le rovine suggestive della gigantesca moschea di Bibi-Khanym che gli abitanti di Samarcanda ritenevano, non a torto, che di notte fossero infestate dal Signore della Guerra d’Ungheria e dai suoi crudeli soldati in cerca di sangue umano di cui nutrirsi. Ormai intorno ad András si era creata una vera e propria leggenda.
Il terremoto rovinoso del 1897 aveva dato luogo a nuovi crolli, e le stesse magnifiche cupole azzurre avevano perso parte del loro fascino architettonico originario.
Nelle vie della città, erano appese delle bandiere sovietiche. Ma non sembrava che vi fossero soldati rossi in ronda per garantire la sicurezza personale dei cittadini.
“Non voglio fare ritorno nel tuo accampamento, barbaro ungherese,” disse Sylvia. “Mi fermerò qui e troverò alloggio nella Casa dei Soviet,” aggiunse ancora animata dal suo fervore rivoluzionario, e scettica verso il soprannaturale.
“Allora, questo è un addio,” replicò. “Non ti costringerò con la forza a seguire una strada che non ti è congeniale. Un giorno, forse, i nostri destini troveranno modo di incontrarsi nuovamente.”
“Ne dubito,” fece lei, ma nella sua voce sembrava esservi una nota di rammarico.
Yilmaz aiutò la rivoluzionaria a scendere dal suo cavallo, mentre András in sella al suo destriero, e con il disco brillante della luna metallica alle spalle, sembrava l’incarnazione umana di un Signore dell’Inferno.
Fecero ritorno alla yurta prima che il sole di rame salisse dall’orizzonte lontano a illuminare la città russa.
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