1487. Ahuitzotl, ottavo tlatoani di Tenochtitlan, pone l’ultima pietra in cima alla grande piramide nota come Templo Mayor. Dopo centocinquanta anni di lavori la città è pronta per celebrare l’evento. Ogni dettaglio è studiato con la massima attenzione per esibire la supremazia degli Aztechi agli occhi dei popoli alleati, degli ospiti illustri, e dei nemici, accolti per l’occasione con i massimi onori. Ai vicini meno interessati viene rammentato che l’assenza sarà punita con la morte.
Il compito dei principi sottomessi è portare il maggior numero possibile di vittime sacrificali, le quali vanno ad aggiungersi a quelle raccolte dal popolo azteco nelle recenti campagne militari. I templi della capitale sono ridipinti a nuovo; le tavole dei banchetti sono zeppi di leccornie; doni munifici vengono distribuiti a tutti gli ospiti.
Infine l’evento principale ha inizio. Interminabili colonne di uomini, donne, fanciulli si dispongono ai lati del tempio, snodandosi come serpenti per le vie interminabili della città. Nel corso dei prossimi quattro giorni il loro sangue scorrerà a fiumi dai gradini del tempio, mentre il sovrano Ahuitzotl, insieme ai coreggenti di Texcoco e Tacuba e al grande sacerdote, si daranno il cambio nell’amministrazione del sacrificio.
Le fonti parlano di 80.400 vittime. Il numero pare spropositato per una città di 300.000 abitanti. Resta il fatto che ridimensionando la cifra a 8.400 o a un più plausibile 2.000, il numero di morti appare sconcertante.
L’evento sarà un successo strepitoso. Alleati e nemici faranno ritorno alle loro case profondamente impressionati. 1
A differenza di quanto accade presso i popoli del Vecchio Mondo, nel caso della civiltà azteca la pratica del sacrificio umano va intensificandosi nel tempo, anziché recedere. Ma per quale ragione l’atto di propiziarsi il favore divino versando il sangue dell’uomo sembra diventare una sorta di ossessione per il popolo azteco?
I motivi sono diversi:
Secondo la cosmologia azteca, il sacrificio era l’unico modo di garantire la sopravvivenza del mondo, mantenendo il sole nel suo corso e allontanando, almeno per un poco, il giorno del giudizio. La tradizione affermava che gli dei avevano già distrutto e creato il mondo per quattro volte. Il rischio di una nuova distruzione era concreto. L’impermanenza della vita e del mondo stesso è un pensiero ricorrente nella cultura azteca. Una poesia di Nezahualcoyotl, signore di Texcoco, recita così:
Io, Nezahualcoyotl, mi chiedo
se le nostre radici siano nella terra:
nulla rimane sulla terra per sempre
ma è qui solo per poco.
Anche se è di giada si frantuma,
Anche se è d’oro si spezza,
Anche se è di piume di quetzal si strappa.
Nulla rimane sulla terra per sempre
ma è qui solo per poco. 2
Le vittime erano per larga misura prigionieri di guerra. Un dei motivi per cui gli aztechi persero tante battaglie contro i conquistadores spagnoli fu che il loro obiettivo non era la sconfitta totale del nemico, ma la cattura del maggior numero possibile di prigionieri da immolare come sacrifici – dunque persone vive, condizione non facile da gestire.
Una volta deciso il suo destino, la vittima prescelta diventava una vera e propria divinità. Più che morire per il dio, essa moriva come un dio. I prigionieri erano infatti onorati e celebrati col titolo di ‘figli del sole’, e i loro abiti erano gli abiti del nume stesso. Questo potrebbe spiegare l’apparente mancanza di resistenza al sacrificio da parte delle vittime. Il legame che si instaurava fra prigioniero e carnefice, più che a quello fra schiavo e padrone, somigliava a quello di un figlio col padre. La cattura era l’evento che poneva fine alla lotta, e a partire dal quale il prigioniero si rassegnava al proprio fato, culmine di una catena di eventi preordinata. Esemplare è la decisione di Tlahuicole, catturato dagli aztechi ai tempi di Montezuma II e destinato al sacrificio. Dopo la cattura Tlahuicole aiuta gli aztechi a ottenere una vittoria schiacciante contro i Tarasca. In segno di gratitudine, il tlatoani gli offre la libertà: Tlahuicole rifiuta e chiede di essere sacrificato.
Un altro motivo riguarda la concezione azteca dell’aldilà. Solo ai guerrieri caduti in battaglia e alle vittime dei sacrifici era concesso di dimorare nella casa del dio al quale erano immolate. Per esempio, i sacrificati al dio del sole godevano del privilegio di accompagnarlo nel suo percorso celeste, mentre le vittime consacrate al dio della pioggia (spesso per affogamento) guadagnavano il diritto di dimorare in eterno in un lussureggiante paradiso celeste. Per i guerrieri questa felicità ultraterrena era limitata a quattro anni, al termine dei quali ritornavano sulla Terra per vivere l’eternità in forma di colibrì, succhiando il miele selvatico. Solo alle vittime dei sacrifici era concesso di abitare in eterno il mondo degli dèi.
Al resto del popolo azteco, principi o straccioni, restava la certezza di un futuro cupo. Il loro destino era infatti quello di raggiungere il nono inferno, al termine di un viaggio lungo quattro anni. Qui avrebbero dimorato in clausura fino alla fine dei tempi, sotto la truce sorveglianza del dio degli inferi Mictlantecuhtli.
Il sacrificio era compiuto senza odio né crudeltà. Non era considerata una pratica empia. Empio era piuttosto ogni atto volto a ostacolarlo, fuggirlo o alterarlo. Questo spiega come mai per gli aztechi fosse assolutamente inconcepibile l’idea di torturare un essere umano o bruciarlo vivo, come invece vedevano fare ai conquistadores, spinti da sete di ricchezze.
Note:
1- La descrizione del sacrificio del Templo Mayor prende spunto da: Durán, Diego (1537 – 1588) “Historia de las Indias de Nueva España y islas de la Tierra Firme“
2- Léon-Portillas, Miguel “Trece Poetas del Mundo Azteca“, 1967 (traduzione italiana di Nerdheim).