I racconti di Satrampa Zeiros: “Conan nella tana del serpente” di Alberto Henriet

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Oggi, per la rubrica  “I racconti di Satampra Zeiros”, ospitiamo nuovamente Alberto Henriet, prolifico e fantasioso scrittore che ci propone “Conan nella tana del serpente”, racconto sword and sorcery di circa 12.000 battute spazi inclusi, pubblicato originariamente sull’antologia “Nel nome di Conan”, edito Yorick Fantasy Magazine (1994)il cui protagonista è il noto Cimmero durante un viaggio tra i Monti Eiglophian. 

Buona lettura.


13442583_10209863707258464_3483489406789960223_o-1Alberto Henriet è nato ad Aosta il 14 Ottobre 1962. Vive ad Auckland (New Zealand) dall’Ottobre 2008. Ha pubblicato il fantasy Storia di un cavaliere gotico (Midgard, 2007); L’uomo che cavalcava la tigre (Tabula Fati, 2012) sul Dadaismo italiano; l’antologia personale Capitan Aosta Esoterico (Edizioni Scudo, 2016); il Gothic fantasy Ulric di Oxenton (Edizioni Scudo, 2016), illustrato da Pompeo De Vito;  la raccolta poetica Sognando un piccolo mondo antico (Edizioni Scudo, 2016); e il western Dead Django (Edizioni Scudo, 2017) . Ha curato per Midgard Editrice la serie fantasy italiana I Figli di Beowulf (2008-2012). Ha pubblicato racconti sulle riviste L’Eternauta, Futuro Europa, Yorick Fantasy Magazine, Intercom SF, Nova SF, NeXT e Italian Sword & Sorcery. Un suo racconto Dark Fantasy appare nell’Antologia collettiva Vlad Tepes (Ailus, 2017). Si è classificato Secondo al Premio letterario Thoth-Amon 2017 con il racconto Oriental fantasy Il guerriero di Samarcanda.


Conan nella tana del serpente

di Alberto Henriet

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Una singola goccia cremisi di sangue umano brillava sulla punta affilata della spada d’acciaio di Conan il Cimmero. Il ghiaccio era ovunque, e il Barbaro spiccava come una macchia di bronzo, animata da una furiosa energia, frutto di un dinamismo solo in apparenza esagerato, poiché, in realtà, non era che la plastica evidenza di una trasbordante vitalità, che trovava nell’azione violenta il senso della propria esistenza sul Palcoscenico del Mondo.

Catene d’acciaio tenevano avvinta una feroce coppia di orsi bianchi alla slitta d’argento, decorata di diamanti, che attendeva accanto al Cimmero, immota, pronta a riprendere il viaggio tra i Monti Eiglophian, che separano, com’è noto, le Terre settentrionali dai Regni meridionali.

Repentinamente, la folle allegria di Conan, che lo aveva animato nella tumultuante corsa tra i ghiacci, trascolorò fulminea nella nera melassa acida di una titanica melanconia. Egli colpì, d’improvviso e con estrema violenza, il suolo ghiacciato, piantandovi la spada fino all’elsa, mentre il capo rudemente arrovesciato all’indietro e con lo sguardo rivolto verso il pallido sole, si faceva espressivo nel ringhio di una tigre che snuda le zanne per dilacerare la gola di un guerriero dell’Iranistan disarmato, perdutosi  in  una torrida savana.

“Dannato Crom!” imprecò il Barbaro, ghignando con una ferocia primeva che rendeva scarlatto il suo magnetico furore allucinato.

Il tramonto s’appressava, e il cielo si era tinto di una strana miscela di luce viola e vapori aurei e scarlatti, che davano un brivido al gigantesco Cimmero, che agiva d’istinto, sulla base di sensi molto affinati. Egli percepiva tra quei ghiacci l’ombra innaturale della magia nera, e la cosa lo rendeva furente, poiché egli odiava gli incantesimi, a loro preferendo la nuda lotta virile dell’acciaio contro l’acciaio.

Gli orsi erano feroci, ma erano di carne, ossa e sangue, e l’acciaio sfavillante poteva penetrare in loro per ucciderli e farli a pezzi: gli stregoni, invece, erano dei non-morti che, attraverso la negromanzia, si sottraevano alla lotta tra pari dei guerrieri nello scontro frontale con la spada o l’ascia o i coltelli.

Dalle bianche creste dei monti, si levavano aquile in cerca di prede, in quella azzurra desolazione, e – a intermittenza – piombavano entro crepacci nascosti nel bianco accecante dei ghiacciai.

Non poteva passare la notte senza un riparo sopra la sua testa. E così Conan cupamente si mosse con la slitta in cerca di una caverna. Altrimenti, avrebbe dovuto scavare con lo spadone un riparo nel suolo gelido.

I suoi capelli bruni, nerazzurri, erano incrostati di cristalli di neve.

Era prossimo ad un passo che una gigantesca valanga aveva chiuso in modo, temporaneamente, definitivo. Era prigioniero dei monti nordici. Neppure la sua spada, che tanto sangue aveva bevuto, sarebbe stata in grado di aprirsi un varco tra quei blocchi compatti.

La fantasia popolare, nelle notti intorno ai falò delle tribù, s’era divertita a riempire di mostri leggendari quelle alture biancazzurre, micidiali a percorrersi d’inverno, e che tante vittime facevano.

Quel ghiacciaio era noto come il Demone di Neve, e molti erano morti nella ricerca del mitico Serpente dei Ghiacci che, si diceva, abitasse in una caverna prodigiosa nel cuore di quell’affascinante Regno di Neve.

Conan, vistosi bloccato e prossimo ad una crisi di furore cremisi, fermò la slitta e fissò con aria omicida il passo non transitabile, e poi si volse, catturato da uno strano barbaglio di luce che ondeggiava tra le fauci di uno degli orsi bianchi della sua slitta.

“Mangia!” urlò, vedendo rosso il Cimmero, e brandì lesto lo spadone lanciandosi verso l’orso stregato, dalla cui bocca, insieme ad un ringhio metallico, fuoriusciva l’immagine scintillante ed ondeggiante di un verde cavallo fantasma, dalla criniera aurea, e luminosa come il sole di mezzogiorno.

Mille diavoli scarlatti non avrebbero eguagliato, tutti insieme, la violenza dell’urto della lama di Conan sul cranio dell’orso posseduto che si schiantò all’istante, sollevando un appiccicoso spruzzo scarlatto che docciò il barbaro, placando in parte il suo furore. L’immagine fantasmatica, di un verde scintillante, si staccò dalla fiera, e aleggiò lontano, tra i ghiacci, come una nube leggera nella notte incipiente, dopo il crepuscolo d’acciaio azzurro. Un lampo di energia attraversò lo spadone quando il cavallo fatato si staccò dall’orso, reciso come il cordone ombelicale di un piccolo cimmero appena nato. Conan fu stordito dall’impatto con quel lampo di origine magica, e venne scagliato via, a molti piedi di distanza dalla slitta.

Una luna di un gelido scarlatto si levò, sontuosamente distaccata, nella sua falce smagliante all’orizzonte, gravido di nembi neri come gramaglie. Conan si alzò rabbiosamente e urlando come una fiera si gettò all’inseguimento del fantasma verde, che stava scomparendo nel cupo blu dei ghiacci.

I nembi vorticavano nel cielo, e già il vento freddo della prossima bufera di neve fischiava sadicamente nell’oscurità che ammantava ogni cosa del suo inchiostro misterioso.

Quel verde cavallo più etereo della nebbia, e fatto della sostanza dei sogni d’oppio, ne era sicuro, avrebbe portato Conan nella tana del Serpente dei Ghiacci.

Conan era in fondo un barbaro superstizioso, e, paradossalmente, temeva di più quel portento visivo che non il mostro vero e proprio, quel gigantesco serpente carnivoro che, secondo la leggenda, viveva nel cuore del ghiacciaio.

Camminò a lungo, inseguendo una sorta di Chimera, mentre il freddo si faceva più duro, implacabile, irridente. L’elmetto metallico, bicorne di cui Conan era provvisto, scintillava ghiacciato, come una gemma bizzarra e policroma nei riflessi di sangue del chiarore lunare.

L’immagine del cavallo era fosforescente, e sortiva un effetto ipnotico e narcotizzante sul senso di realtà del Barbaro, determinato a raggiungere il serpente per ucciderlo. Infine, sembrò che il fantasma rallentasse la sua alata andatura fluida, e Conan gli fu addosso. Il contatto fu bruciante, come se il Barbaro avesse immerso le sue bronzee carni in un vivo fuoco verde, che aveva la visiva consistenza di un cristallo multicolore. Il dolore era insostenibile, e un’oscurità scarlatta nel campo visuale di Conan indicò ch’egli stava perdendo i sensi, inutilmente lottando, ormai cieco, con la spada che tracciava arabeschi argentei contro un nemico inesistente, poiché magico e non materico.

Nella consapevolezza di Conan, si fece strada l’eco sonoro di un gong metallico, che qualcuno stava  facendo risuonare con un mazzuolo d’ebano lustro, rivestito di tesa pelle umana conciata.

Si destò dall’incoscienza con un forte mal di capo, mentre la nebbia vermiglia che scorreva nel suo campo visivo si andava diradando a intermittenza prima, totalmente poi, per mettere in evidenza un biondo Aesir.

Che lo fissava sogghignando, mentre continuava a percuotere il gong con gioia.

Quando Conan fu del tutto padrone di sé e si alzò, l’Aesir posò il mazzuolo, e si avvicinò al Barbaro.

Questi, prontamente, con la mano destra corse al fodero della spada, che era però vuoto.

“Calmo, Barbaro, non hai nulla da temere, qui. Sei al sicuro,” fece l’uomo con una voce strana, suadente e simile alla mirata cantilena di uno stregone esperto di nere arti magiche.

Quell’Aesir era irreale, come se non fosse stato fatto di carne, ossa e sangue, ma della cristallina consistenza del fantasma fosforescente che il Cimmero aveva inseguito con rabbia e fredda determinazione nella bufera di neve, alla luce insanguinata della falce lunare. Il pavimento della grotta sembrava che fosse stato realizzato frantumando una gran quantità di diamanti policromi, e in ogni sfaccettatura delle gemme macinate brillava il fantasma del Serpente dei Ghiacci, che era genuinamente, orribilmente affamato, e che avrebbe serrato presto il nero anello della sua immane bocca attorno al corpo bronzeo di Conan.

Si mosse all’inseguimento dell’Aesir che teneva dal Barbaro una certa distanza, mentre continuava a parlargli con narcotica cadenza ritmica. Verso il fondo della caverna, v’era il pozzo nel quale giaceva in attesa l’enorme Serpente dei Ghiacci, che era azzurrino, e coperto di scaglie posticce d’argento, rivestite di un morbido pelo bianco, adatto alle nevi nelle quali il mostro soleva mimetizzarsi nell’attesa degli umani sprovveduti ch’erano il suo pasto prediletto.

Il mostro aveva un udito sensibilissimo, e captò l’avvicinarsi del pasto ben tornito ch’era per lui il Barbaro Conan di Cimmeria. E socchiuse le palpebre, svelando due globi verdi e luminosi tagliati netti da una lama nera e giallastra, verticale, le sue iridi. Conan era come stregato dalla melodiosa voce dell’Aesir, ma il suo istinto primordiale, simile a quello di una fiera selvaggia, recise l’incanto della trappola verbale tesa dall’Aesir, ed egli con un balzo si gettò, come un lupo, verso la gola del servo del mostro, e gli tranciò netta la jugulare con un morso feroce, mentre il sangue grondava salso, appiccicoso e scarlatto sulla sua nera chioma ingemmata di polvere di ghiaccio policroma. Gli spezzò il collo con la forza d’urto del colpo che aveva assestato all’Aesir gettandoglisi addosso a viva forza. Ruggì, liberato da quella trappola, mentre il Serpente dei Ghiacci emergeva rabbiosamente dal pozzo della sua fetida tana fredda.

L’anello oscuro dell’enorme bocca, dotata di piccole zanne venefiche, scattò verso Conan, ma questi, recuperata la spada, ch’era nel fodero dell’Aesir, la infilò sino all’elsa nell’occhio destro del serpente, con un suono viscido simile a quello prodotto da un cranio umano spappolato come un melone maturo.

Il mostro si torse con violenza, ferito nel cervello dalla punta della lama, e prese a spazzare la grotta con la sua coda uncinata. Conan fuggì perché il serpente nella sua agonia urlante, mentre si dibatteva, faceva crollare frammenti di ghiaccio intorno. Ben presto, il Barbaro  ne era sicuro, una valanga avrebbe ostruito l’entrata della tana; occorreva fuggire all’istante, e senza rifletterci su troppo.

Una lama di ghiaccio che pendeva dal soffitto della grotta cadde, come una ghigliottina, al centro del corpo del Serpente, tranciandolo netto a metà. La parte del corpo che terminava con la testa era ormai morta, per  via delle lesioni cerebrali riportate. Ma la parte inferiore ebbe un guizzo di vitalità inattesa, poiché la coda uncinata non era che il copricapo posticcio della testa inferiore del Serpente dei Ghiacci, che riguadagnò il pozzo ch’era il cuore della sua tana, per guarire là le ferite riportate nel feroce combattimento con il Cimmero.

Conan era ormai lontano dalla grotta, quando la valanga prevista si staccò dalla cima della montagna, ed ostruì la tana del Serpente. Il Barbaro ghignò truce, e sollevò lo spadone grondante icore verdastro verso il sole nascente nell’alba vermiglia, e corse via, alla ricerca della sua slitta tra i ghiacci.

FINE

 

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