FuturEvo – Sermon l’Inquisitore

Arrivato vicino ad un tranquillo e gorgogliante fiume, Sermon di Kein scese dalla sua cavalcatura. Era meglio per lui dormire all’aperto piuttosto che in una locanda, insieme a ubriaconi e donnacce. Lì non c’erano tentazioni che rischiavano di allontanarlo dai suoi voti. Inoltre non voleva dare troppo nell’occhio. Un inquisitore doveva sempre guardarsi le spalle.

Il posto che aveva scovato in quella foresta poi aveva un’aria particolarmente tranquilla e accogliente. Pini e abeti crescevano gagliardi ma placidi, mentre nell’aria si sentivano canti di fringuelli e squittii di scoiattoli. E cosa che per Sermon era importantissimi, non c’erano altre persone ad infastidirlo.

Quando si tolse gli stivali sentì l’erba fresca sotto i piedi. Già questo lo fece sentire ristorato. Si levò di seguito il lungo mantello,  e il cinturone a cui teneva appesa la spada, la severa blusa con il simbolo del dio Macon ricamato sul cuore e i calzoni neri. Voleva proprio godersi un bagno nelle acque del fiume, prima di mangiare i pezzi di pani secco che teneva nella bisaccia appoggiata sulla sua cavalcatura.

Sermon non fece nemmeno in tempo a immergersi in acqua che un gruppo di troll armati di clave e scuri di selce uscirono dalla foresta, emettendo urla gutturali. C’era una sola cosa che l’inquisitore apprezzava meno degli esseri umani ed era proprio quel popolo di barbari. Bassi, tozzi vestiti di pellicce e con i musi scimmieschi dipinti di verde e di blu, i mostri si radunarono sulla sponda del fiume, emettendo grida sempre più minacciose. Visto che era impossibile raggiungere a la riva e riprendere le spada e i suoi vestiti, Sermon fu costretto a fuggire a nuoto.

“Per grazia di Macon quegli sozzoni odiano l’acqua!” pensò l’inquisitore, attraversando velocemente il fiume per raggiungere l’altra riva.

Purtroppo i troll, se anche non potevano entrare nel fiume, potevano ugualmente lanciare le loro armi contro Sermon, il quale, nudo come un verme, dovette fuggire per non essere colpito. L’uomo non si era mai sentito tanto umiliato, tranne quella volta che il Sommo Sacerdote l’aveva sorpreso guardare con troppo interesse le miniature del libro I Caldi Amplessi di Lag-Nilda, Dea dell’Amore.

“Che Macon, Nodens e tutti gli dei vi maledicano, figli di Belial!” gridò furioso Sermon.

L’inquisitore era  costretto a correre, coprendosi con le mani le vergogne, le piante dei piedi che continuamente calpestavano sassolini appuntiti. Improvvisamente un laccio scattò attorno ad un suo piede e un potentissimo strattono lo rovesciò gambe all’aria. Sermon sbatté la testa contro una pietra, perdendo i sensi.

Quando Sermon di Kein aprì gli occhi, si rese subito conto di essere caduto come un allocco in una trappola dei maledetti troll, ma contrariamente a quanto temeva, non era legato e non era nemmeno stato messo a bollire in un pentolone. Si trovava invece adagiato su un pagliericcio in una caverna dalle pareti rozzamente affrescate con scene di caccia. Una pelle d’orso lo copriva e degli unguenti erano stati messi sul bernoccolo che gli era venuto. I suoi vestiti erano appoggiati per terra vicino a lui.  Sentì un rumore e prontamente balzò in piedi, urtando però con la fronte contro una stalattite. Già la seconda botta in testa della giornata!

“Devi stare attento, questa caverna ha il soffitto basso. Va bene per noi troll che non siamo molto alti.” disse una voce.

“Ma tu non sei un troll! Sei un’umana!” esclamò Sermon stupito.

La persona che gli parlava era infatti una ragazza di piccola statura, ma molto ben formata, vestita (se così si può dire) con due strisce di pelle di cervo. Sarebbe anche potuta essere attraente, se non fosse stata orrendamente sudicia. I capelli castani erano unti al punto da formare tante piccole treccine ed erano annodati attorno ad un osso, sul quali si intravedevano ancora residui di carne masticata.

“Anche tu come me sei caduta in una trappola di quei selvaggi?” proseguì l’uomo con fare sospettoso. La diffidenza era per un lui una deformazione professionale.

“No, io sono sempre vissuta qui con la mia tribù in queste grotte. Mio padre e mia madre sono i capitribù.” Rispose laconica la giovane.

Sermon aveva sentito parlare dell’usanza delle femmine troll di rapire bambini umani, quando perdono un figlio, per allevarli come loro. Aveva però sempre creduto che si trattasse di una diceria, visto che per i troll gli uomini e le donne sono commestibili quanto vitelli e galline.

“Papà aveva già deciso di servirti per cena, ma io mi sono opposta.” spiegò lei.

“Ti devo ringraziare. Hai appena salvato la vita a Sermon di Kein, inquisitore errante autorizzato dal Tempio di Macon.” disse l’uomo con un certo orgoglio

“Non conosco questi titoli di voi umani, io sono Klassh figlia di Sshogt.”

“Quindi non devo temere per la mia vita?”

“No, io ti ho richiesto come mia proprietà. Non so perché ma i maschi della tribù, così goffi, non mi attraggono. Io preferisco voi umani alti e slanciati, dalla pelle bianca e morbida.”

“Allora devo temere non per la mia vita ma per la mia virtù!” esclamò Sermon, ritraendosi quasi avesse toccato un ferro rovente. “Guarda che un inquisitore si impegna a vivere in castità…”

“Non fare storie.” sbottò Klassh adirata. “Io ho messo la trappola che ti ha catturato e quindi tu sei la mia selvaggina!”

“E io per te sarei selvaggina? Guarda che se io catturo un cinghiale, non mi approfitto certo della sua verginità!” replicò Sermon che avrebbe voluto avere la sua spada sotto mano.

“Quello l’ho già fatto, mentre dormivi…” disse Klassh, con un mezzo sorriso.

“COSA?! Come hai potuto, bagascia di Belial?”urlò Sermon che, senza nemmeno attendere una risposta, colpì la ragazza con una sonora sberla così forte da spingerla a terra.

In quel momento un troll enorme entrò nella grotta con aria agitata. Era più alto degli altri suoi simili, con un ventre prominente, un largo naso camuso e orecchi appuntite ornate di piccoli orecchini d’osso. Stringeva nelle mano destra artigliate una grossa scure di selce e nella sinistra la spada di Sermon. Sulla spalla aveva una ferita ancora sanguinante, ma sembrava non curarsene, come se avesse qualcosa di molto più importante a cui badare. Allo stesso modo non sembrava curarsi che l’inquisitore fosse in piedi, nudo, di fronte a Klassh stesa a terra.

“Non è il momento  per i vostri corteggiamenti, siamo attaccati dai razziatori!” disse secco il nuovo venuto.

“Ma padre, proprio adesso che mi stavo divertendo…” fu la risposta di Klassh sorridente che subito dopo si voltò verso Sermon, dicendo: “…E comunque mi piacciono i maschi violenti.”

L’inquisitore non ebbe quasi il tempo di sfoggiare un’espressione disgustata per quest’ultima rivelazione, quando il padre di Klassh, Sshogt, rivolse proprio a lui la parola:

“Mettiti i tuoi vestiti adesso e mostrami se sei degno di mia figlia” detto questo, buttò la spada sulla pigna degli abiti di Sermon.

“E se io vi tradissi?” chiese Sermon, quasi stupito di trovarsi di nuovo armato. “In più non so nemmeno chi siano questi razziatori.”

“Sono dei briganti senza onore che imperversano nella regione derubando e uccidendo chiunque gli capiti a tiro, umani, troll, nani, coboldi.” spiegò Sshogt, seppure con aria spazientita. “E comunque nel caso ci tradissi, ti ammazzerò con le mie mani.”

Avvicinandosi all’uscita della caverna, Sermon sentì un vociare concitato mescolato ad un clangore di metallo: il tipico suono di una battaglia. Appena uscito, l’inquisitore fu accecato dal sole. Quando i suoi occhi tornarono ad abituarsi alle luce, vide una turba di uomini barbuti a cavallo, vestiti con pesanti capotti rossi bordati di pelo bianco, nonostante il clima fosse tutt’altro freddo. Alcuni dei razziatori portavano persino assurdi cappelli rossi terminanti con un pon-pon bianco, che spesso gli scivolavano dalla testa nella foga della battaglia.

Capì subito che la tribù dei troll era svantaggiata dovendo combattere a piedi contro dei cavalieri che li colpivano dall’alto. Sermon partì alla carica e trafisse con la sua spada un destriero pezzato, il quale rovinò a terra schiacciando il razziatore che lo montava.

Visto il successo di questa azione, Klassh e suo padre lo imitarono e si gettarono entrambi su un cavallo. Il forzuto Sshogt troncò di netto la zampa di uno stallone, invece Klassh trafisse con la lancia il collo di un altro. In breve anche gli altri troll ne seguirono l’esempio, dimostrandosi un esercito molto più intelligente e disciplinate di quanto Sermon avesse creduto.

La battaglia avrebbe potuto finire brevemente, se non che arrivò un carro trainato addirittura da quattro renne e con a bordo un vecchio grassone vestito anche lui di rosso e bianco. L’uomo stringeva in mano una canna di ferro con un’impugnatura di legno simile a quella delle balestre. Puntò la canna in direzione di un troll e questa emise un boato da rompere i timpani. Per qualche maleficio lo sfortunato troll crollò a terra cadavere. I selvaggi più vicini cercarono di fuggire, ma il nuovo arrivato li falciava uno dopo l’altro con la sua canna magica.

Sermon riconobbe subito un’arma di prima della Grande Catastrofe, di quelle vietate dall’Inquisizione. Con furia disumana si scagliò contro il nuovo venuto.

“Morte ai figli di Belial!” gridò Sermon.

L’inquisitore schivò un paio di colpi. Saltò quindi in mezzo alla prima coppia di renne, tenendosi in equilibrio sui finimenti che le tenevano insieme. Il vecchio esitò a sparare, temendo di colpire le renne. Sermon saltò sulla seconda coppia. Ora  l’inquisitore era vicinissimo all’anziano cocchiere. Con un colpo di piatto della sua lama, disarmò il vecchio che digrignò i denti adirato.

“Purtroppo per te, eretico, noi inquisitori siamo addestrati a fronteggiare le armi stregate.” disse Sermon.

“Voi che volete cancellare il passato siete i veri eretici!” replicò il cocchiere con sguardo diabolico. “Io sono la reincarnazione di Santa Claus, il Padre dell’Inverno, venuto a restaurare l’Antico Ordine.”

Detto questo estrasse una nuova arma, simile alla prima ma con la canna molto più corta e il manico incurvato.

“Nooo!” urlò Klassh, saltando su Santa Claus, per difendere Sermon. Il carro sbandò e l’inquisitore venne disarcionato. Il grassone ghignante si portò via la ragazza nella foresta, mentre i pochi razziatori rimasti lo seguivano.

“Non so se ringraziarti o ucciderti.” disse Sshogt, avvicinandosi a Sermon, accompagnato da una corpulenta femmina troll, orrendamente imbrattata dal sangue dei nemici. “Ci hai aiutato a vincere… ma io ho perso mia figlia per colpa tua.”

“Klassht non può essere tua figlia.” tagliò corto l’inquisitore, il cui sguardo sembrava però assorto in altri pensieri.

“Io e mia marito l’abbiamo trovata abbandonata in questi boschi.” disse la femmina troll “Noi troll non siamo selvaggi come voi umani che non vi curate dei più deboli tra voi, nemmeno se sono i vostri figli!”

“Infatti Klassh si è comportata da vero troll, salvandomi la vita” ribatté Sermon. “Ve la riporterò, ma avrò bisogno della mia cavalcatura.”

“Ma tu non avevi un cavallo, dove ti abbiamo trovato!” esclamò stupito Sshogt.

“Chi ha mai detto che fosse un cavallo?” fu la risposta di Sermon.

I razziatori avevano raggiunto la sommità di una collina, dove sorgeva uno strano complesso monolitico. Strano perché era stato dipinto tutto di rosso e bianco, i colori sacri di Santa Claus. Sotto i diversi dolmen stavano i simulacri  delle grottesche divinità precedenti alla Grande Catastrofe: un orrido topo nero vestito con dei pantaloncini rossi e due grossi bottoni gialli, una bionda con un lungo abito bianco che mostrava oscenamente le gambe, un erculeo guerriero in calzamaglia con un mantello regale e un simbolo enigmatico sul petto.

Al centro di tutto stava però un largo telo sul quale era dipinto Santa Claus stesso, al culmine del suo potere, che solcava un  cielo notturno, in cui scendevano abbondanti fiocchi di neve, a bordo non più di un cocchio ma di una slitta, sempre trainata da renne. Il vecchio era raffigurato intento a suonare una campanella per richiamare chissà quali entità dell’abisso.

La povera Klassh venne trascinata legata e imbavagliata dai razziatori per poi essere deposta su un altare al centro del complesso. Subito Santa Claus si posizionò davanti al suo ritratto con fare solenne.

“Mie fratelli,” esclamò. “io, il Signore del Solstizio d’Inverno, il padre che porta doni ai suoi figli, colui che abita l’estremo Nord della Terra, vi sto guidando alla guerra contro gli infedeli, umani e non, che hanno rifiutato il passato, coloro che si rassegnano pavidamente ad accontentarsi di quel poco che posseggono. Noi, invece, seguiamo l’antico insegnamento: desiderare di tutto e di più, prendere di tutto e di più, come uomini che non devono chiedere mai.  Ci chiamano razziatori, ma il nostro vero nome è consumatori!”

A quest’ultima frase gli adepti del vecchio iniziarono ad urlare eccitati.

“Per questo motivo oggi compiamo il sacrificio di questa fanciulla,” proseguì Santa Claus. “per ricavare dal suo sangue la sacra bevanda alchemica che ci dona la forza per non smettere mai di consumare questo mondo corrotto: la KOLA-KOKA!”

“Kola-Koka! Kola-Koka!” vociarono i razziatori sempre più esaltati.

Uno degli adepti portò a Santa Claus un lungo pugnale e un contenitore cilindrico di metallo di colore rosso con sopra una linea bianca ondulata, accompagnata da lettere in un alfabeto incomprensibile. Il grassone impugnò i due oggetti, mentre l’accolito si genufletteva, prima di allontanarsi. A quel punto il vecchio si avvicinò all’altare su cui stava Klassh. Avvicinò il pugnale al collo della ragazza con la mano destra., tenendo però con la sinistra il contenitore cilindrico nel quale intendeva raccogliere il sangue della giovane.

Un boato improvviso scosse l’aria, seminando il panico. Il dipinto sacro raffigurante Santa Claus venne squarciato da una macchina mai vista prima, che volò in mezzo alla congrega dei razziatori, investendone un paio. Si trattava di una specie di veicolo con sole due ruote, sulla parte anteriore aveva una lanterna di vetro sormontata due manici simili ad antenne o a corna, mentre sul retro aveva una sella di pelle nera. A cavalcioni dell’infernale macchina, che rombava a più non posso, stava Sermon, il quale teneva strettamente i due manici dirigendo lo strano veicolo come fosse un cavallo. I razziatori scappavano al suo passare.

Santa Claus cominciò a gridare ordini per riorganizzare i suoi uomini, ma una pioggia di lance cadde su di loro. I troll, approfittando della baraonda creata da Sermon, avevano circondato il luogo sacro. Uno dei razziatori stava per impugnare un’arma magica, quando un’ascia gli mozzò la mano: anche Sshogt era sopraggiunto sul posto.

In breve quello che era stato un tempio, si tramutò in un campo di battaglia, con i troll che arrivavano alla carica contro i razziatori impreparati e Sermon che, sfrecciando qua e là, disorientando il nemico.

Nonostante Santa Claus vedesse i suoi uomini cadere uno dopo l’altro – o forse proprio per questo- decise di   celebrare ugualmente il sacrificio, ma non appena avvicinò di nuovo il pugnale al collo di Klassh, che si divincolava in ogni modo,  Sermon col suo veicolo lo sfiorò, colpendolo con un pugno. L’inquisizione compì un’inversione, deciso ad investire il grassone. Questi, però, gettato il pugnale, estrasse dalla tasca del suo cappotto la canna magica più piccola usata quel giorno e colpì una ruota del veicolo che si sgonfiò come fosse piena d’aria. Sermon prese così il controllo del mezzo e dovette buttarsi a terra. La macchina, invece, andò a schiantarsi contro uno dei monoliti, facendolo crollare.

Santa Claus si diresse verso l’inquisitore. La madre di Klassh gli si parò contro, ma il grassone l’atterrò con un colpo della sua arma. Era ormai sopra a Sermon, che sembrava un po’ frastornato dalla caduta. Gli puntò contro la canna. Tirò il grilletto alcune volte, ma quella sembrava aver perso il suo potere magico. Sermon ne approfittò: sfoderò la spada e la infilzò nel petto del vecchio. In quello stesso istante arrivò anche Sshogt che menò un fendente con la sua scura. La testa del vecchio ruzzolò così sul terreno, mentre il corpo si afflosciava.

“Tu meriti veramente mia figlia!” esclamò Sshogt, sorridendo per la prima volta all’inquisitore.

Questi sembrò tuttavia non curarsene e andò ad osservare il relitto del suo veicolo.

“Dovrò trascinarlo al Tempio di Macon per farlo rimettere in sesto.” disse più rivolto a sé a che agli altri.

Quella sera i tamburi risuonarono fino a tarda ora nelle grotte. I troll stavano facendo gran festa per la liberazione della figlia del loro capo, oltre che per l’eliminazione dei razziatori. Lo moglie di Sshogt era ferita, ma non sembrava in pericolo di vita. Il capotribù si vantava:

“In famiglia abbiamo tutti la pellaccia dura.”

Solo Sermon se ne stava all’aperto, per conto suo. Indaffarato a caricare il relitto della sua cavalcatura, sul carro che era stato di Santa Claus, restava chiuso in un silenzio di tomba. Aveva impedito a tutti di aiutarlo, perché nessuno a parte un inquisitore può trafficare con oggetti di prima della Grande Catastrofe. O almeno così sosteneva Sermon, che era deciso a partire l’indomani mattina.

“Ma poi tornerai?” domandò Klassh con aria ansiosa, uscita in quel momento dalla caverna.

“Difficilmente un inquisitore ritorna in un posto che ha già lasciato.” spiegò Sermon. “Non abbiamo un compito particolarmente amato dalla gente. D’altronde se non fosse per noi, l’umanità ricadrebbe in quelle manie di grandezza che l’hanno condotta già una volta sull’orlo dell’autodistruzione.”

Vedendo, però una lacrima già rigare il viso della ragazza, lasciando scoperta una striscia di pelle bianca sotto lo sporco, l’uomo aggiunse:

“Però chi può dirlo? Sicuramente se doveste ancora aver a che fare con infedeli e stregoni, tornerò senz’altro.”

FINE

Il racconto che avete appena letto è opera di Paolo Motta ed è contenuto nell’antologia digitale Dopo Il Grande Disastro. Fa inoltre parte dell’universo condiviso di FuturEvo, ideato dallo stesso autore per la Cooperativa Autori Fantastici, che presto ne raccoglierà i racconti in un’antologia cartacea per Ailus Associati.

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