Rileggere Robert E. Howard: “I passi all’interno” – La saga di Solomon Kane #14

I passi all’interno è il quattordicesimo episodio della saga originale di Solomon Kane,  pubblicato nel 1931 su Weird Tales, con il titolo  The Footfalls Within .

In Italia, Fanucci Editore ha messo in commercio questo racconto nel 1979, includendolo nell’antologia Solomon Kane.

Di seguito, un estratto del racconto.


Solomon Kane osservava corrucciato l’indigena che giaceva morta ai suoi piedi. Era poco più di una ragazza, ma le membra smagrite e gli occhi stralunati dimostravano che aveva molto sofferto prima che la morte giungesse a recarle il suo pietoso sollievo. Kane notò i segni delle catene sulle braccia, i profondi solchi che le segnavano il dorso, e il segno lasciato sul collo dal giogo. I suoi occhi gelidi assunsero un colore più profondo, e ba-lenarono di sinistri lampi di luce simili a nuvole al di sopra di un paesaggio artico.
«Si spingono fino a questa landa desolata», mormorò. «Non avrei mai pensato…»
Sollevò quindi il viso e guardò verso Oriente. Alcuni punti neri si stagliavano contro il cielo azzurro, compiendovi lente giravolte.
«Gli avvoltoi ne segnano il cammino», mormorò l’uomo, un inglese di alta statura. «La distruzione li precede e la morte li segue. Siate maledetti, figli dell’iniquità, poiché l’ira di Dio incombe su di voi! Le funi che legano il collo d’acciaio dei mastini dell’odio e la corda dell’arco sono ormai tese. Siete forti, avete coraggio, e la gente si lamenta schiacciata sotto il vostro tallone, ma la vostra punizione giungerà tra l’oscurità della mezzanotte e il rosseggiare dell’alba.»
Si aggiustò il cinturone nel quale erano infilate le pesanti pistole e il pugnale acuminato, istintivamente sfiorò la lunga spada che portava al fianco, quindi si diresse, veloce e furtivo, verso Est. Una rabbia crudele guizzava nei suoi occhi profondi che parevano due azzurri fuochi vulcanici che ardessero sotto profondi strati di ghiaccio. In una mano stringeva un lungo bastone, duro come il ferro, che aveva l’impugnatura a forma di testa di gatto.
Dopo qualche ora di cammino, udì il rumore di una colonna di schiavi che si apriva faticosamente la strada attraverso la giungla. Le grida pietose di quegli infelici, le urla e le bestemmie degli aguzzini, e lo schiocco delle fruste, gli giungevano chiaramente. Un’altra ora di cammino gli permise di raggiungerli e, scivolando attraverso la giungla a fianco del sentiero che percorrevano i mercanti di schiavi, riusciva a spiarli rimanendo al sicuro. Kane aveva combattuto contro gli Indiani nel Darien, e ne aveva appreso l’arte di muoversi tra gli alberi senza far rumore.
Più di cento indigeni, giovani uomini e donne, avanzavano barcollando lungo il sentiero, completamente nudi, legati assieme da orribili attrezzi simili a gioghi di legno. Questi gioghi pesanti e rozzi circondavano il collo di quei miserabili, e li univano a due a due. A loro volta anche i gioghi erano legati assieme, e formavano una lunga catena.
Gli aguzzini erano quindici Arabi e circa settanta guerrieri negri; le armi e le decorazioni fantastiche di questi ultimi ne rivelavano l’appartenenza a una tribù dell’Est, una delle tribù soggiogate e convertite all’Islam, alleate degli Arabi conquistatori.
Cinque Arabi precedevano la carovana assieme a una trentina di guerrieri, mentre altri cinque chiudevano la retroguardia assieme ai guerrieri re-stanti. Gli altri marciavano accanto agli schiavi barcollanti, spingendoli avanti a forza di grida e bestemmie, e grazie alle lunghe fruste crudeli che facevano sprizzare schizzi di sangue ogni volta che li colpivano. Quei mercanti erano degli sciocchi oltre che dei criminali, rifletté Kane: non più della metà degli schiavi sarebbe sopravvissuta alla durezza di quella marcia fino alla costa.
Si era meravigliato della presenza di quei razziatori, poiché quella regione si trovava molto a sud rispetto alle zone che essi frequentavano di solito. Ma l’avidità può condurre lontano gli uomini; l’Inglese lo sapeva bene. Infatti lui aveva avuto a che fare con quella gente un tempo. Mentre li osservava, certe vecchie cicatrici sul dorso cominciarono a bruciargli: erano le cicatrici causate dai colpi delle fruste musulmane su una galera turca. Ma ancora più profondo era l’odio insaziabile che bruciava nell’animo di Kane.
Il Puritano li seguì pedinando i suoi nemici come un fantasma e, mentre scivolava attraverso la giungla, cercava di pensare a un piano. Come avrebbe potuto prevalere su quell’orda? Tutti gli Arabi e molti dei loro alleati avevano armi da fuoco, degli arnesi lunghi e goffi, è vero, ma pur sempre pistole, che bastavano a intimorire qualsiasi tribù indigena che avesse osato opporsi a loro. Alcuni portavano nelle loro larghe giubbe delle pistole lunghe, argentate, dall’aspetto più efficiente, pistole a pietra focaia di fattura moresca o turca.
Kane li seguiva come un cupo fantasma, e l’ira e l’odio gli divoravano l’anima come un cancro. Ogni schiocco di frusta gli pareva che cadesse sulle sue spalle. Il calore e la crudeltà dei tropici gli giocavano degli strani scherzi. Certi sentimenti normali diventavano cose mostruose; l’irritazione cresceva fino a diventare una rabbia incontrollabile. Le fiamme dell’ira potevano tramutarsi in quella pazzia inconsulta che spinge gli uomini a uccidere in preda a una rosseggiante nebbia omicida, per poi lasciarli sbigottiti, orripilati dai loro stessi gesti.
La furia di Solomon Kane sarebbe bastata in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento a scuotere un uomo fino alle radici del suo essere. Ora assumeva proporzioni tali da provocargli brividi come quelli causati dal freddo. Unghie ferrigne gli graffiavano il cervello, e vedeva gli schiavi e i loro aguzzini attraverso una nebbia rosseggiante. Eppure non avrebbe certo scatenato la sua pazzia nata dall’odio, se non fosse stato per un incidente fortuito.
Uno degli schiavi, una ragazza magra e giovane, improvvisamente aveva messo un piede in fallo ed era scivolata a terra, trascinando con sé la compagna di giogo. Un arabo alto, dal naso adunco, aveva inveito selvaggiamente contro di lei, frustandola violentemente. La sua compagna si era rialzata, ma la ragazza era rimasta riversa, dibattendosi debolmente sotto i colpi, apparentemente incapace di rialzarsi. Dalle labbra screpolate le sfuggivano lamenti pietosi, e gli altri aguzzini si radunarono attorno a lei, percuotendo le sue carni tremanti con le fruste che ne esacerbavano la rossa agonia.
Una mezz’ora di riposo e un po’ d’acqua l’avrebbero certo rianimata, ma gli Arabi non avevano tempo da perdere. Solomon, mordendosi un braccio fino a farlo sanguinare, tentava di controllarsi. Ringraziò Dio che le frustate fossero cessate, e si preparò ad assistere al veloce lampeggiare del pugnale che avrebbe posto fine ai tormenti della ragazza. Ma gli Arabi avevano voglia di divertirsi. Giacché la ragazza non avrebbe procurato loro alcun guadagno sulla piazza del mercato, l’avrebbero utilizzata per il loro piacere, e il loro umore era tale da tramutare in acqua il sangue dell’uomo più coraggioso.
Un grido emesso dal primo carnefice fece avvicinare gli altri: le loro facce barbute ghignavano illuminandosi al pensiero di quanto li attendeva, mentre i selvaggi loro alleati si accostavano, gli occhi ardenti come tizzoni. I disgraziati schiavi compresero le intenzioni dei loro padroni, e un coro di lamenti da far pietà si levò dal gruppo.
Kane, nauseato da quell’orrore, comprese anche lui che la morte non sarebbe stata facile per la ragazza. Sapeva bene quello che il musulmano aveva intenzione di fare: questi si ergeva su di lei con un pugnale acuminato solitamente usato per scuoiare la selvaggina. L’Inglese fu sopraffatto dalla pazzia! Poco gl’importava della propria vita: l’aveva già rischiata più volte, senza pensarci su, per salvare qualche bambino pagano, o qualche piccolo animale.
Eppure non avrebbe mai sprecato premeditatamente la sua unica occa-sione di poter soccorrere le miserabili vittime di quella carovana. Agì sen-za pensare: già la pistola gli fumava nella mano, e l’alto carnefice giaceva a terra nella polvere del sentiero mentre le cervella gli fuoruscivano dal cra-nio, prima che Kane si rendesse conto di quello che aveva fatto.
Fu sorpreso quasi quanto gli stessi Arabi, che rimasero annichiliti per un momento per poi scoppiare in un coro di grida scomposte. Molti di loro tolsero la sicura alle loro rozze pistole e mandarono i pesanti pallettoni a schiantarsi contro gli alberi circostanti, mentre gli altri, credendo di essere caduti in una trappola, si gettavano verso la giungla impetuosamente.
Fu quella mossa improvvisa che segnò il destino di Kane. Infatti, se avessero esitato un altro minuto, lui avrebbe potuto sgusciare via senza essere visto, ma in quel momento non vide altra possibilità, e si preparò ad attenderli a piè fermo, e a vendere cara la pelle.
Affascinato, attese l’attacco dei suoi nemici urlanti, che si arrestarono in preda a un’improvvisa meraviglia nel vedere quell’alto e cupo inglese che usciva da dietro un albero; un istante dopo, uno di loro morì mentre una pallottola dell’unica pistola che Kane aveva ancora carica gli trapassava il cuore. Poi si avventarono con urla di rabbia selvaggia contro il loro solitario sfidante.
Solomon Kane si mise con le spalle contro l’enorme tronco d’albero, mentre la sua mazza gli disegnava attorno un cerchio lucente. Un arabo e tre dei suoi feroci alleati brandivano contro di lui le loro pesanti lame ricurve, mentre il resto dell’orda gli girava attorno, ringhiando come un branco di lupi, tentando di affondare la lama o una pallottola nel suo corpo senza ferire uno dei loro.
La mazza, guizzando, parò i colpi delle sibilanti scimitarre, e uno degli Arabi cadde trafitto; poi l’arma solo per un istante parve sostare nel suo petto, prima di abbattersi sul cranio di un altro guerriero armato di spada. Un altro attaccante lasciò cadere la spada e balzò in avanti pronto alla lotta corpo a corpo. Fu sbudellato dal pugnale che Kane teneva nella sinistra, e gli altri si ritirarono in preda a un subitaneo terrore.
Un pesante pallettone si schiacciò contro il tronco, poco lontano dalla testa di Kane, e il Puritano si preparò al balzo che lo avrebbe portato a morire nel fitto della mischia. Poi il loro Sceicco percosse gli Arabi con la sua lunga frusta, e Kane lo udì mentre intimava ai suoi guerrieri di catturare vivo quell’infedele.

Kane rispose a quell’ordine con un improvviso affondo del suo pugnale, che sibilò tanto vicino alla testa dello Sceicco da tagliargli il turbante, e affondò profondamente nella spalla di un guerriero dietro di lui.
Lo Sceicco brandì le sue pistole argentate, minacciando di morte i suoi uomini qualora non avessero catturato il loro feroce avversario, e allora quelli caricarono ancora, disperatamente. Uno dei guerrieri rimase trafitto dalla spada di Kane, e un arabo alle sue spalle, senza alcuno scrupolo, spinse il malcapitato urlante in avanti con grande violenza.
Il corpo dell’uomo che ancora si dibatteva rimase così infilzato fin sull’impugnatura, mettendo fuori causa la lama dell’inglese. Prima che Kane potesse liberarla, quella turba gli fu addosso e, urlando selvaggiamente, lo gettarono a terra e lo sopraffecero. Mentre lo afferravano da ogni parte, il Puritano si rammaricò di non avere più il suo pugnale che aveva gettato via. Ma, anche senza di esso, la sua cattura fu tutt’altro che facile.
Il sangue zampillava e le facce si accartocciavano sotto i suoi pugni d’acciaio, che frantumavano denti e ossa. Un guerriero cadde all’indietro messo fuori combattimento da un violento colpo nel ventre inferto con un ginocchio.
Anche dopo essere riusciti a metterlo a terra, dovettero ammucchiarsi su di lui finché l’inglese non fu più in grado di colpire né con i pugni né con i piedi. Le sue lunghe dita smagrite affondarono con vigore attraverso la sudicia barba di uno dei suoi assalitori, e rimasero avvinghiate al suo collo. La stretta fu così forte, che ci volle la forza di tre uomini vigorosi per liberare la vittima, che rimase a lungo senza fiato, e con il viso color verde.
Finalmente, ansimanti dopo quella terribile lotta, riuscirono a legargli mani e piedi, e lo Sceicco, infilate nuovamente le pistole nella sua cintura di seta, si avvicinò per dare uno sguardo al prigioniero. Kane squadrò l’uomo di alta statura, dalla corporatura leggera e dal naso aquilino, la barbetta nera e gli arroganti occhi scuri.
«Io sono lo Sceicco Hassim ben Said», disse l’arabo. «Tu chi sei?»
«Il mio nome è Solomon Kane», ringhiò il Puritano nella lingua dello Sceicco. «Sono un inglese, brutto sciacallo pagano.»
Negli occhi scuri dell’arabo balenò un guizzo d’improvviso interesse.
«Suleiman Kahani», disse, traducendo alla maniera araba il nome inglese. «Ho sentito parlare di te: hai combattuto spesso i Turchi, e i corsari barbareschi si sono leccati diverse volte le ferite per causa tua.»
Kane non lo degnò di una risposta. Hassim si strinse nelle spalle.
«Mi frutteresti una bella somma», disse. «Potrei portarti a Stamboul, dove lo Scià vorrebbe certo avere un uomo come te tra i suoi schiavi. Ora che mi ricordo, vi è un certo Kemal Bey, un marinaio che ha una profonda cicatrice sul volto – che tu stesso gli hai prodotto – e che maledice tutto ciò che è inglese. Mi pagherebbe un alto prezzo per averti in suo potere. E invece guarda, uomo, come ti tratto: ti lascio libero e ti nomino mia guardia del corpo. Non camminerai sotto il giogo della schiavitù, e sarai libero di muoverti: avrai solo le mani legate.»
Kane non rispose, e a un cenno dello Sceicco, fu fatto alzare in piedi, e i lacci gli furono allentati, mentre quelli che gli tenevano le mani legate dietro il dorso furono lasciati ben stretti. Una robusta corda gli fu passata attorno al collo; l’altro capo della corda fu affidato a un gigantesco guerriero che portava nell’altra mano una grande scimitarra a mezzaluna.
«Allora, cosa ne pensi del favore che ti dimostro, uomo?», domandò lo Sceicco.
«Penso», rispose lentamente Kane, con voce profonda e minacciosa, «che preferirei dannarmi l’anima pur di poter affrontare te e la tua lama, solo e disarmato, e pur di avere la possibilità di strapparti il cuore dal petto con le mie nude mani.»
Vi era un tale tono di odio nella sua profonda voce stentorea, e una rabbia talmente implacabile gli ardeva nello sguardo, che l’impavido e indurito Sceicco impallidì e si ritrasse involontariamente, come di fronte a una bestia feroce impazzita.
Ma subito Hassim si riprese, lanciò un breve ordine ai suoi, e si allontanò per andarsi a porre alla testa del manipolo. Kane notò con gratitudine che la tregua imposta dall’episodio della sua cattura aveva permesso alla ragazza caduta di riposarsi e di riprendersi. Il coltello per scuoiare la selvaggina non aveva avuto modo di toccarla. Era ancora in grado di barcollare lungo la pista. Mancava ormai poco alla notte: presto i mercanti di schiavi avrebbero dovuto fermarsi a bivaccare.
L’inglese fu costretto a mettersi in marcia, mentre la sua guardia lo seguiva a pochi passi di distanza, con la lama sguainata. Kane notò con un tocco di tetra vanità che altri tre guerrieri marciavano poco lontano, tenendo i moschetti pronti e gli acciarini accesi. Avevano fatto conoscenza con la sua abilità e non avevano intenzione di correre altri rischi. Le sue armi erano state ritrovate, e Hassim si era prontamente impossessato di tutte, tranne che del bastone ju-ju dall’impugnatura felina. Infatti l’aveva gettato da parte con disprezzo, e uno dei suoi guerrieri l’aveva raccolto.
L’Inglese ben presto si rese conto del fatto che un arabo magro dalla barba grigia gli camminava al fianco. Pareva desideroso di parlargli, ma stranamente timido. La causa della sua timidezza sembrava essere proprio il bastone ju-ju che aveva recuperato dal guerriero che l’aveva raccolto, e che ora rigirava tra le mani con fare incerto.
«Io sono Yussef l’Hadji», disse l’arabo, improvvisamente. «Non ho nulla contro di te. Non ti ho attaccato, e sarò tuo amico se me lo permetterai. Dimmi, uomo: da dove viene questo bastone e come mai è in tuo possesso?»
Il primo impulso di Kane fu di mandare il suo interlocutore all’Inferno, ma una certa aria di sincerità che emanava dal vecchio gli fece cambiare idea, e così gli rispose: «Mi fu donato dal mio fratello di sangue: un Mago della Costa degli Schiavi chiamato N’Longa».
L’anziano arabo assentì e mormorò sotto la barba: poco dopo incaricò un guerriero di raggiungere Hassim per dirgli di tornare indietro. L’alto Sceicco ben presto tornò a grandi passi verso di loro, risalendo la lenta colonna, accompagnato dal suono metallico dei pugnali e delle scimitarre che portava. Il pugnale di Kane e le sue pistole erano infilate nella sua ampia cintola.
«Guarda, Hassim!», disse il vecchio arabo mostrandogli il bastone. «L’hai gettato via senza sapere quello che facevi!»
«E con ciò?», ringhiò lo Sceicco. «Non vedo null’altro che una verga… acuminata, con una testa di gatto scolpita sull’impugnatura… in sostanza, un bastone che porta incisi degli strani simboli pagani.»
L’uomo più anziano lo agitò davanti al suo viso, con aria concitata.
«Questo bastone è più antico del Creato! Esso custodisce grandi Magie! Ho letto molte cose su questa verga nei vecchi libri ricoperti di borchie metalliche, e Maometto – che riposi in pace! – anche lui ne ha parlato nelle sue allegorie e nelle sue parabole!
Vedi questa testa di gatto sull’impugnatura? È la testa di una Dea dell’antico Egitto! Molti secoli fa, prima degli insegnamenti di Maometto e prima che esistesse Gerusalemme, un Sacerdote di Bast portava questo bastone di fronte ai fedeli inchinati e invocanti! Con esso Musa ha compiuto grandi prodigi di fronte al Faraone e, quando gli Yahudi fuggirono dall’Egitto, lo portarono con loro. Per secoli è stato lo scettro d’Israele, e con esso Suleiman Ben Daoud ha scacciato gli Incantatori e i Maghi, asservendo al suo volere i Demoni e gli incantesimi che promanano da loro! Guarda! Ancora una volta troviamo nelle mani di un Salomone l’antica verga!»

[…]

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