Rileggere Robert E. Howard: “I figli di Asshur” – La saga di Solomon Kane #15

I figli di Asshur è il quindicesimo episodio della saga originale di Solomon Kane, completato da Ramsey Campbell e pubblicato postumo nel 1968 sull’antologia Red Shadows, con il titolo The Children of Asshur .

In Italia, Fanucci Editore ha messo in commercio questo racconto nel 1979, includendolo nell’antologia Solomon Kane.

Di seguito, un estratto del racconto.


Solomon Kane si svegliò all’improvviso nell’oscurità, e afferrò le armi che giacevano su un mucchio di pelli che gli serviva da rozzo giaciglio. Non era stato il rabbioso tamburellare della pioggia tropicale sul tetto di foglie della capanna a svegliarlo, né il brontolio del tuono. Erano state delle grida di agonia emesse da un essere umano, ed era stato il fragore del ferro che aveva udito nel mezzo della tempesta tropicale.

Una lotta di qualche tipo si stava svolgendo nel villaggio indigeno in cui aveva cercato rifugio dalla tempesta, e che pareva fosse stato attaccato. Mentre Solomon cercava a tastoni la spada, si chiese quale tribù potesse aver mai pensato di attaccare un villaggio durante la notte e in una notte di tempesta come quella. Le sue pistole giacevano accanto alla spada, ma non le prese, sapendo che sarebbero state inutili sotto una pioggia tanto torrenziale, una pioggia che ne avrebbe inumidito immediatamente le polveri.

Si era coricato completamente vestito, eccetto il cappello a falde morbide e il mantello e, senza fermarsi per recuperarli, corse fuori dalla capanna. Un fulmine isolato che sembrò lacerare il cielo, gli mostrò una scena confusa e concitata, in cui delle figure lottavano negli spazi tra le capanne; la luce del fulmine traeva bagliori accecanti dalle armi dei contendenti. Al di sopra del rumore della tempesta, egli udiva le grida dei negri, delle urla dai toni molto bassi, e parole pronunciate in una lingua che gli era sconosciuta.

Lanciandosi all’attacco dalla capanna, avvertì la presenza di un nemico di fronte a sé; poi un altro fragoroso scoppio di tuono seguì a un fulmine che percorse il cielo, illuminando tutta la scena di una luce azzurrina e irreale. In quell’istante Solomon affondò la sua spada selvaggiamente, e sentì l’arma ripiegarsi su se stessa, mentre un pesante spadone veniva levato contro il suo cranio. Uno scoppio di scintille ancor più lucenti dei fulmini gli esplose davanti agli occhi; poi un’oscurità più tenebrosa della notte nel-la giungla si impadronì di lui.

L’alba sorgeva pallida sulla giungla intrisa di pioggia, quando finalmente Solomon Kane si mosse e si sedette nel fango dinanzi alla capanna. Il sangue gli si era rappreso sulla testa, che gli doleva leggermente. Scuotendosi da un leggero intorpidimento si alzò in piedi. La pioggia era cessata da molto tempo, e il cielo era ormai chiaro.

Il silenzio regnava sul villaggio, e Kane si accorse che ormai era un villaggio di morti. Cadaveri di uomini, donne e bambini giacevano sparsi ovunque: nelle strade, sulle soglie e dentro le capanne, alcune delle quali erano state ridotte in pezzi durante la ricerca delle vittime, o per il puro gusto di distruggerle.

Non avevano preso molti prigionieri, pensò Solomon, chiunque fossero stati gli sconosciuti assalitori. Né si erano impadroniti delle lance, delle asce, degli utensili da cucina e dei copricapi piumati delle loro vittime, e questo fatto dava credito alla tesi che il saccheggio fosse stato opera di una razza superiore per cultura e capacità artigianale a quella dei poveri abitanti del villaggio.

Invece si erano impadroniti di tutto l’avorio che erano riusciti a trovare, e Kane scoprì che avevano preso anche la sua picca e il suo pugnale, le pistole, e le scorte di polvere da sparo. E gli avevano preso perfino il bastone acuminato, stranamente intagliato con una testa di gatto, che gli aveva regalato il suo amico N’Longa, lo Sciamano della Costa Orientale, oltre al cappello e al mantello.

Kane rimase in piedi al centro del villaggio deserto, rimuginando l’accaduto, mentre strani pensieri gli si affollavano nella mente. La conversazione che aveva avuto con gli abitanti del villaggio, dove era giunto la notte prima uscendo dalla giungla sotto la pioggia battente, non gli forniva alcun indizio circa l’origine dei razziatori. Gli stessi indigeni sapevano ben poco circa quella terra in cui erano giunti da non molto, costretti a una lunga marcia da una potente tribù rivale.

Gli erano parsi uomini semplici e ben disposti, che gli avevano dato il benvenuto nelle loro capanne e gli avevano offerto spontaneamente i loro poveri beni. Il cuore di Kane era pieno d’ira verso quei distruttori senza nome, ma ancor più profondamente ardeva in lui una insoddisfatta curiosità, maledizione di ogni persona intelligente.

Infatti Kane aveva visto quegli individui misteriosi la notte precedente. E la tempesta – in quell’ardente fiamma lampeggiante – gli aveva mostrato, per un momento, stagliarsi nella sua luce una razza feroce e barbuta… il volto di un uomo bianco.

Eppure non potevano esserci uomini bianchi da quelle parti, e non potevano esserci per centinaia e centinaia di miglia neppure razziatori arabi. Kane non aveva avuto il tempo di osservare gli abiti di quell’uomo, ma aveva la vaga impressione che indossasse vesti di foggia bizzarra. E la spada che colpiva di taglio e di punta, di foggia piatta, e che lo aveva colpito, non era sicuramente una rozza arma indigena.

Kane lanciò uno sguardo verso le rozze mura di terra che circondavano il villaggio, e alle porte di canne che ora giacevano a terra fatte a pezzi dai saccheggiatori. La tempesta, a quanto pareva, si era placata quando essi erano ripartiti, poiché distingueva facilmente le tracce del loro passaggio, che portavano oltre il cancello distrutto verso la giungla.

Kane raccolse una rozza ascia indigena che giaceva lì vicino. Se qualcuno dei misteriosi aggressori era caduto in battaglia, i loro corpi erano stati portati via dai compagni. Delle foglie intrecciate assieme gli fornirono una specie di copricapo che gli protesse la testa dalla forza del sole. Poi il Puritano attraversò la porta distrutta e si avviò verso la giungla stillante di pioggia, sulle tracce dell’ignoto.

Sotto gli alberi giganteschi le tracce si facevano più nette, e Kane riconobbe immediatamente che si trattava per la maggior parte di sandali, un tipo di sandali che gli erano però sconosciuti. Le rimanenti tracce erano quelle di piedi nudi, che stavano a indicare che erano stati fatti dei prigionieri.

A quanto pareva avevano un forte vantaggio su di lui: infatti, benché viaggiasse senza far soste, camminando senza affaticarsi sulle lunghe gambe magre, dopo un’intera giornata di marcia, non riuscì ad arrivare in vista della colonna.

Si cibò con le provviste che si era portato dietro dal villaggio saccheggiato, e continuò ad avanzare senza mai fermarsi, spinto dall’ira e dal desiderio di risolvere il mistero di quel viso che aveva intravisto illuminato dal lampo. Inoltre quei razziatori si erano impossessati delle sue armi e, in quella terra oscura, per un uomo le armi erano importanti quanto la sua stessa vita.

Il giorno stava finendo. Quando il sole tramontò, la giungla lasciò il posto alla foresta e, all’imbrunire, Kane giunse in una vasta piana erbosa cosparsa di alberi, e vide al di là quello che gli sembrava un gruppo di basse colline. Le tracce continuavano nella pianura, e Kane pensò che la meta dei razziatori fossero quelle basse colline tutte eguali.

Esitò. Attraverso la pianura gli giungevano i ruggiti poderosi dei leoni, che risuonavano e riecheggiavano da mille punti diversi. I grandi felini avevano già cominciato a cacciare le loro prede, e sarebbe stato un suicidio avventurarsi in quell’ampio spazio scoperto con una semplice ascia.

Kane trovò un albero gigantesco e, salito lungo il tronco, si trovò un rifugio su una biforcazione tra i rami. Lontano, oltre la pianura, vide un punto luminoso brillare tra le colline. Poi, sulla pianura, ai piedi delle alture, vide altre luci che formavano una fila sinuosa di fuochi scintillanti che si muovevano verso le colline ormai scarsamente distinguibili dalle stelle lungo l’orizzonte.

Si rese conto che quelle dovevano essere le torce della colonna dei saccheggiatori e dei loro prigionieri. Le torce servivano senza dubbio a tenere lontano i leoni, e Kane concluse che la loro meta doveva essere ormai molto vicina se si arrischiavano a intraprendere una marcia notturna in quella pianura infestata di carnivori.

Mentre osservava, vide che quegli scintillanti punti di luce si muoveva-no verso l’alto, e per un po’ li vide risplendere tra le colline: poi svanirono.

Con il pensiero ancora rivolto a tutti quei misteri, Kane si addormentò, mentre i venti notturni sussurravano gli oscuri segreti dell’antica Africa tra i rami degli alberi, e i leoni ruggivano sotto l’albero su cui si era rifugiato, frustando l’aria con le code fulve e guardando verso l’alto con occhi famelici.

Di nuovo l’alba illuminò la terra di luce rosa e dorata, e allora Solomon discese dal suo rifugio e riprese il cammino. Mangiò gli avanzi del cibo che aveva portato con sé e si dissetò ad un piccolo torrente che gli parve abbastanza limpido, chiedendosi quali possibilità avesse di trovare del cibo tra le colline. Senza cibo, infatti, si sarebbe trovato in grave difficoltà. Tuttavia Kane aveva già provato la fame e, oltre la fame, anche il gelo e la fatica. Il suo corpo magro, dalle larghe spalle, era forte come il ferro ed elastico come l’acciaio.

Avanzava coraggiosamente attraverso la savana, attento ad avvistare i leoni in agguato, ma senza per questo rallentare l’andatura. Mentre si avvicinava alle basse colline, cominciò a vederle in maniera più distinta. Si accorse che, invece di rugose colline, aveva di fronte un basso altopiano di natura apparentemente pianeggiante che sorgeva all’improvviso dalla piana circostante.

Mentre si avvicinava vide che era costituito di solida roccia, benché fosse ricoperto da uno strato abbastanza spesso di terra. In molti punti alcuni massi erano crollati verso il basso e si rese conto che un uomo di corporatura atletica avrebbe potuto scalare la roccia in diversi punti. Ma si accorse anche di un altro particolare: una larga strada saliva lungo il ripido fianco del precipizio, e le tracce che egli seguiva salivano lungo quella strada.

Kane avanzò verso la strada e notò che il lavoro di costruzione era stato eseguito con cura. Certamente non si trattava di un semplice sentiero crea-to dal passaggio degli animali o degli indigeni. La strada era stata tagliata nella roccia con grande maestria, ed era pavimentata con lisci blocchi di pietra lavorata.

Cauto come un lupo, evitò di percorrere la strada; più avanti trovò una salita meno ripida e iniziò la scalata. Il percorso era piuttosto sdrucciolevole, e inoltre i massi che parevano in bilico sulla scarpata minacciavano di rotolare verso il basso e di schiacciarlo, ma riuscì nell’impresa senza ulteriori incidenti e giunse finalmente sull’orlo del crinale.

Kane sostò sulla scarpata accidentata e cosparsa di massi, che scendeva ripida verso uno spazio pianeggiante. Dal punto in cui si era fermato vedeva tutto l’ampio altopiano che si stendeva ai suoi piedi coperto da una folta distesa di erba lussureggiante. Nel mezzo… stralunò gli occhi e scosse la testa, pensando di essere in preda a qualche miraggio o a un’allucinazione. No! Era ancora lì: una enorme città circondata da alte mura sorgeva in mezzo alla pianura erbosa. Ne distinse i contrafforti e le torri animate da piccole figure. Sul lato opposto della città scorse un piccolo lago, e sulle sue rive vide giardini lussureggianti e campi verdi pieni di bestiame intento al pascolo.

A quella vista, pieno di meraviglia, il Puritano rimase impietrito per un istante. Poi il suono metallico di un tallone coperto di ferro che colpiva il suolo roccioso lo fece voltare di scatto, pronto ad affrontare un uomo che gli si era avvicinato uscendo dal suo nascondiglio, situato dietro alcuni massi.

L’uomo, massiccio e dalla corporatura possente, era alto quasi quanto Kane, e più tarchiato. Le sue braccia nude erano muscolose, e le gambe parevano due colonne di ferro. Il suo viso era la copia di quello che Kane aveva scorto nel bagliore del lampo: feroce e circondato da una fitta barba nera. Era il volto di un bianco, con gli occhi arroganti e un naso aquilino da rapace. L’intero corpo, dalla gola taurina fino alle ginocchia, era ricoperto da un corsaletto di scaglie di ferro, e in testa portava un elmo, anch’esso di ferro. Uno scudo di legno indurito e ricoperto di metallo e cuoio gli proteggeva il braccio sinistro, e aveva un pugnale infilato nel corsaletto mentre nell’altra mano impugnava una pesante mazza di ferro.

Kane vide tutto questo con un solo sguardo mentre l’uomo ruggiva lanciandosi verso di lui. L’Inglese si accorse in quell’istante che non vi sarebbe stato tempo per negoziare un accordo. Sarebbe stata una battaglia all’ultimo sangue!

Come una tigre balzò verso il guerriero, calando l’ascia con tutta la forza del suo corpo nervoso e agile. Il guerriero parò il colpo con lo scudo. La lama dell’ascia si deformò per l’impatto, il manico si frantumò nel pugno di Kane, e lo scudo si spezzò.

La violenza con cui aveva vibrato il colpo portò Kane a sbattere contro il nemico. Questi lasciò cadere a terra l’ormai inutile scudo e, barcollando, affrontò l’Inglese. Combattevano con grande sforzo e rantoli di fatica, i piedi ben puntellati contro il terreno. Kane ringhiava come un lupo avvertendo la forza e la vigoria del suo nemico. L’armatura che questi portava ostacolava l’Inglese, e il guerriero teneva in pugno la mazza di ferro e tentava in tutti i modi di calarla sulla testa inerme di Kane.

Il Puritano si sforzava come poteva di immobilizzare il braccio del guerriero ma, all’improvviso, perse la presa, e la mazza lo colpì con un suono orribile abbattendoglisi sulla testa. Poi il suo assalitore lo colpì di nuovo e, mentre una nebbia color fuoco gli offuscava la vista, Kane si scostò istintivamente per evitare il colpo. Il brusco movimento gli paralizzò una spalla per metà e gli causò una ferita che prese a sanguinare copiosamente.

Impazzito dal dolore, Kane rinnovò gli attacchi contro il suo potente nemico, e con una mano afferrò alla cieca l’impugnatura del pugnale che questi portava alla cintola. Strappatolo al guerriero, gliel’affondò con forza cieca e selvaggia nel corpo…

[…]

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