I racconti di Satrampa Zeiros: “Cuore d’acciaio” di Enrico Francese

Per la rubrica “I racconti di Satrampa Zeiros” ospitiamo l’esordiente Enrico Francese, che ci offre Cuore d’acciaio, short story di 25000 battute.

Buona lettura!


Sinossifinita la lunga guerra contro i Nemyrrin, malvagi stregoni-guerrieri, il soldato Merythan ritorna a casa. Ma sotto un cielo carico di oscuri presagi, scoprirà che la minaccia dei suoi nemici non si è ancora estinta, e un ultimo incontro metterà alla prova le sue forze.

Il racconto è ispirato alle atmosfere cupe e disperate dei racconti di R.E. Howard e H.P Lovecraft.

frateAutore Enrico Francese, detto Fra Enrico, è nato a Torino nel 1979 e vive a Roma. È bibliotecario, custode di storie e viaggiatore fra multiversi. Scriveva storie e poesie fino al 2001, quando è scomparso insieme ai suoi scritti senza lasciare notizie di sé. Ha fatto ritorno dal suo viaggio nel 2014, e ha iniziato a raccontare le cose che ha visto.

Studia alla “Scuola Romana dei Fumetti” e collabora con l’associazione di Gioco di Ruolo dal Vivo “Terre Spezzate”.

 


Cuore d’acciaio

di Enrico Francese

1

Le nuvole erano basse, fili neri simili al fiato dei morti, che esalava fra quelle valli violentate. L’aria era carica di fumo e tanfo, e lo sarebbe stata per molto tempo. Merythan marciava soffocando – ad ogni passo le sue narici si otturavano di umidità, di miasmi arsi. Ma non sentiva la fatica. Quella era dietro, sul campo di battaglia. Adesso la stanchezza era scomparsa, e il cammino non gli pesava, perché stava tornando a casa.

La cometa brillava in cielo. Era l’unica luce in quella notte funerea, quel crepuscolo che sarebbe durato stagioni intere, a consumarsi nel lutto delle famiglie distrutte. La terra avrebbe bevuto il sangue e divorato i corpi marcescenti, e solo allora sarebbe ritornata alla sua bellezza di un tempo. Ma Merythan questo non l’avrebbe visto. La stagione degli uomini è più breve, e quei pochi giorni concessi sulla terra sono stati spesi in battaglia. La stella serpeggiava, come a evitare la presa pigra delle nubi nere. Era comparsa l’ultimo giorno di battaglia, e molti vi avevano visto un segno di sventura. Alcuni la interpretarono come un aiuto celeste evocato dai Nemyrrin, i loro crudeli nemici, i signori dell’Incanto. Ma Merythan no. Aveva sorriso alla vista di quell’astro, perché un vero Baladur non crede nei presagi. Lui aveva sorriso, perché aveva visto solamente il cielo aprirsi, e la stella dell’est indicare la strada del ritorno.

Oltre ai suoi passi nella terra bruciata non c’era alcun rumore. L’intera valle era assorbita dal silenzio. La guerra aveva cancellato tutto. Un fulmine comparve all’orizzonte, lontano. Un’esplosione incendiò il cielo nell’altra direzione, ma non arrivò nessun suono. Nemmeno gli avvoltoi calati a divorare i resti dell’ultima battaglia gridavano più, come se l’orrore avesse ammutolito anche loro.

Ma tanto opprimente era quel silenzio esteriore quanto pesante era il caos di voci che Merythan aveva nel cuore. Settimane di scontri. Il metallo che singhiozzava sul metallo, i corni che richiamavano, i tonfi dei corpi su altri corpi. Mesi di campagna. Le preghiere di uomini che non avevano mai creduto in un dio. I pianti di incredulità di chi guardava le proprie interiora davanti a sé. Le bestemmie di chi era rimasto senza nient’altro. Anni di guerra. I lamenti dei contadini privati di tutto, le risate fra camerati a mascherare la paura, i racconti e le promesse di ciò che era rimasto a casa. Anni a combattere il male, e a subire la crudele punizione di chi vuole estinguere il male ma si trova a doverlo guardare in faccia tutti i giorni, e a farsi schernire dalla sua oltraggiosa minaccia. Merythan non sapeva come far tacere quelle voci. Gli altri lo chiamavano Cuore d’Acciaio. Nei plotoni di Baladur era il guerriero più letale. Silenzioso e rapido come un monaco del sud, e altrettanto disciplinato e distaccato, era visto da tutti come freddo, spietato, incapace di provare sentimenti. Era questo il suo segreto, dicevano. In verità Cuore d’Acciaio sapeva provare dolore. Ma la battaglia e la morte venivano prima: non avrebbe dato spazio al suo cuore finché le lance nemiche e i loro mostruosi incantesimi avrebbero ancora minacciato la sua terra. Non prima di avere garantito la pace al suo popolo, o di essere morto nel tentativo.

Ed ecco che solo adesso, a guerra finita, quei pensieri potevano scorrere liberi nel suo cuore. Ma in quel silenzio non c’era nessuno a sentirli. Nessuno a cui raccontare una storia con cui far rivivere un amico caduto, con cui nutrire una speranza, con cui consolarsi al pensiero di un ritorno a casa. Merythan era solo.

Non lo era chiunque, in fondo? Stretti spalla a spalla con i propri compagni, alla fine le mani che reggono la spada sono solo le tue, il coraggio è solo il tuo, la paura è solo tua. Grave di questi pensieri, Merythan marciava verso casa.

2

Il fuoco brillava caldo nella notte deserta. Nebbie e nubi nere accarezzavano l’orizzonte sconfinato. Merythan sedeva su un sasso a fissare le fiamme, masticando il misero pasto che aveva con sé. Gli occhi lacrimavano per il caldo, e in quel tremore lui cercava di annegare i ricordi del male combattuto.

Il vento barcollò con un sibilo, e la polvere si sollevò come farina sbattuta da un cencio. Le fiamme tremarono per un momento. Merythan aguzzò lo sguardo. La mente si preparò correndo alla sua spada, appoggiata accanto a lui. Tre ombre si erano fatte strada ed erano giunte al suo cospetto, al di là del falò.

Cuore d’Acciaio non disse nulla: lasciò il vento lamentarsi di quella presenza sgradita. Un ululato freddo, dolorante.

“Ne è rimasto ancora uno, guardate!” disse una voce.

“Tutto solo, al freddo e al buio. Chissà se sta ruminando sulle sue sofferenze, sulle battaglie perdute?”

“Sediamoci con lui a questo fuoco” disse una terza voce, più calda e tonante. “Magari ha delle storie da raccontarci.”

Il loro tono era beffardo, le loro voci sgradevoli come il rumore della terra pestata dai compagni che cadono durante la battaglia.

“Andate via.” disse Merythan senza muovere gli occhi.

“Suvvia, Baladur. Dovunque tu stia andando, è evidente che hai tanta strada dietro di te. Per noi è lo stesso. Lasciaci riscaldarci al tuo fuoco.”

Le tre ombre vennero avanti. Erano tre uomini alti, le armature nere adornate con le pinne e le piume luccicanti per il veleno. Non avevano armi ai fianchi, ma le loro vesti non nascondevano il logorio di molte battaglie, e il loro atteggiamento era altero. Erano Nemyrrin, e i loro soli sguardi, i loro gesti, la loro voce erano armi mortali a sufficienza. Merythan lo sapeva, e sospirò.

“Andate via, ho detto. Non ne ho ammazzati abbastanza della vostra gente, incantatori? Non avrete pace finché non avrò ricondotto anche voi sulla strada infernale su cui ho spedito i vostri amici?”

I tre risero sguaiatamente, e alle loro risa il fuoco divampò e si gonfiò. Lo spazio si illuminò a giorno intorno a loro.

“Il soldato ringhia ancora!”

“Ma noi non abbiamo intenzioni malevoli! Siamo solo viandanti sconfitti dalla guerra, che ritornano alla propria casa. Esattamente come te!”

Merythan alzò gli occhi su quello che aveva parlato.

“Non come me!”

L’altro esitò. Il vicino allora rise ancora.

“Miglia e miglia lontano da casa! Tu credi di ritrovare quello che hai giurato di proteggere da noi! Ah! Ma tu pensi davvero di riuscirci? Ti ricordi ancora l’aspetto della tua terra? E il volto dei tuoi cari? E loro, credi che si ricordino ancora di te? Che abbiano aspettato tutti questi anni, struggendosi notte dopo notte nella speranza di un tuo ritorno? A stento ricordano ancora il tuo nome! Ai loro occhi non sarai che un fantasma! Uno stanco profugo che si presenterà sconosciuto alla loro soglia, e verrà scacciato dall’uomo che ha preso il posto nella tua casa, nel letto di tua moglie, nel cuore dei tuoi figli!”

“Taci!!!”

“Non ci credi? Perché non guardare tu stesso?”

L’essere roteò il braccio nell’aria, creando una striscia di fuoco azzurro che ondeggiò come la superficie di una pozzanghera, per poi ricreare un’immagine. Un’immagine orrenda e dolorosa, che Merythan guardò senza respirare. Ma rimase impassibile. Persino le ombre dure del fuoco non si mossero dai suoi zigomi.

“Siete venuti a tentarmi con questi trucchetti?”

“No, no, povero Merythan. Questa è solo una lettera che ti abbiamo portato da casa!”

“Un’immagine di quello che potrai trovare! Era un favore nei tuoi confronti!”

“Voltati e torna indietro! Rinuncia! Non c’è più posto per te.”

“Guardati, tutti ti hanno abbandonato! Dimentica la tua terra!”

Marythan soffocò una risata.

“Dunque è questo che siete venuti a dirmi? Ridicoli pagliacci! Ho insozzato campi interi del vostro sangue, e pensate di fermarmi con questo? È tutta qui la vostra magia?”

“Oh no.” rispose la prima voce, più grave. “Il nostro vero potere è altro.”

“Allora mostratemelo e morite, o andatevene. In entrambi i casi, sono stanco. Lasciatemi solo.”

I tre restarono un momento in silenzio. Poi il primo parlò di nuovo, per l’ultima volta.

“Spiacente, Baladur” disse. “Il nostro disprezzo per la vostra gente è troppo grande. Muori!”

Allargò le braccia come per tendere un arco, e un fulmine azzurro esplose dalle sue mani verso Merythan.

Lui era stanco, e fu lento. Si buttò all’indietro, ma l’onda d’urto lo scagliò a terra. Con la sabbia negli occhi, vide i tre Nemyrrin sfoderare dal nulla lunghe spade fiammeggianti di lingue nere.

“Morirai e ci sfameremo con la tua anima, miserabile!” ruggì lo stregone. “Abbiamo sofferto troppo a causa di quelli come te!”

Scagliò un fendente contro Merythan, ma la spada incontrò il terreno spruzzando fiamme nerastre. Il guerriero era già scattato in piedi, e con un calcio spinse indietro il suo assalitore. Questo sgranò gli occhi per la sorpresa, e si trovò a barcollare all’indietro, al di là del fuoco.

Cuore d’Acciaio si rimise in guardia. Gli altri due sembravano più lenti, ma sapeva che non doveva farsi ingannare. Infatti volteggiarono le spade davanti a sé, per poi far comparire dall’elsa delle fruste rosseggianti, che guizzarono come serpi verso il guerriero. Lui fece ruotare la spada fra le dita, indietreggiando leggermente, i piedi padroni del terreno. La lama mozzò le lingue che andarono a morire per terra e nel fuoco. Poi il secondo Nemyrrin impugnò la spada a due mani e si lanciò in un affondo. Merythan raccolse la sua spada al petto, deviando il colpo, e con un riflesso fece rimbalzare la lama contro l’altra lama, buttando la punta in avanti. Squarciò il collo dell’avversario, che soffocò nel suo sangue nero.

Il terzo stava già arrivando a vendicarlo.

“Maledetto!”

Dalle dita scagliò dei quadrelli incantati contro Merythian. Quelli che gli arrivarono in faccia lo colpirono come uno schiaffo. Lui si rivoltò acceso dal furore, il sangue che scorreva sottile sulle sue gote. L’altro si mise in guardia mostrando la lingua bluastra, e gorgogliò un incantesimo.

La terra intorno a lui prese a luccicare. Qualcosa di orrendo stava per essere invocato, forse a sua protezione o forse come ulteriore minaccia. Merythan non se ne curò. Con passi furiosi entrò nel cerchio, e prima che quello riuscisse a chiudere la sua guardia lo trafisse spingendogli la lama nel ventre fino all’elsa. Fissò a lungo la smorfia malefica del Nemyrrin, finché si spense muta inchiodata dagli occhi del guerriero. Quando estrasse la spada, lo stregone cadde a terra come un sacco vuoto.

“Non capite che la vostra magia non può niente con me?” tuonò, la voce carica di tutta la violenza che aveva raccolto durante la guerra. “Niente!” ripetè. Il fuoco si piegò al boato della sua voce.

Guardò in alto. Il primo Nemyrrin si librava a due metri d’altezza, avvolto da un’aura focheggiante di ombre nere. La corona di spettri di cui era circondato emetteva lamenti cacofonici, pianti e vagiti che si intrecciavano come una preghiera disperata, l’invocazione di condannati che non credono nemmeno più al dio stesso a cui si rivolgono. Lo stregone fissava il guerriero con occhi ardenti di odio.

“Tu ti piegherai, invece.” disse. “Osserva le anime che abbiamo rapito. Ascoltale mentre patiscono l’inesauribile dolore del nostro dominio. Mentre vengono stuprate in eterno dalla nostra volontà immortale! Ascoltale, miserabile, e piegati!”

Reggeva ancora la spada, le cui lingue nere si scuotevano come grano al vento. Intorno a lui, l’aureola di morte e dannazione gridava con la disperazione di mille schiavi.

Merythan rimase immobile.

Lo stregone lo guardò. Il lamento vorticava sempre più sonoro intorno a loro.

Ogni altro essere vivente sarebbe morto all’istante all’udire quel suono. Il cuore spaccato, gli occhi annegati dalle lacrime.

Merythan rimase immobile. Sentiva il cuore gemere dalla pressione, pronto a sfondarsi. Sentiva la sua anima disperata che cercava di sfuggire da quel tormento. Ebbe paura, perché gli sembrò di riconoscere alcune voci fra quei lamenti. Sentiva i piedi farsi leggeri. Ma rimase immobile.

“È dolore quello che tenti di scagliarmi addosso? È con questo che tenti di sconfiggermi?”

“Desisti, soccombi, unisciti ai morti!”

“Speravate di vincere la guerra con questi incantesimi?” urlò con la forza che gli era rimasta. La gola bruciava, la lingua balbettava. Ma lui aveva la forza.

“Osserva la nera grandezza della nostra magia! Ascolta la debolezza del tuo corpo. Io non ti tocco, eppure sta sanguinando! Impotente, arrenditi!”

“Il mio corpo sanguina,” Merythan urlò con tutta la rabbia che aveva in corpo. “Ma mia è la forza, e il mio cuore è d’acciaio!”

Si lanciò con tutto il peso in avanti. La sua spada squarciò il petto del mago, che si irrigidì a mezz’aria mentre le fiamme intorno a lui vacillavano. Poi gridò con un ululato che fece tremare l’aria, ogni luce si spense, e il suo corpo crollò addosso a Merythan, per guardarlo con un’ultima espressione di odio e terrore. Merythan allora estrasse la spada e il Nemyrrin si accasciò come un fascio di rami secchi, precipitando nella polvere.

La corona di anime maledette si disperse veloce come fumo. Il furore delle loro grida si spense come un’eco nella notte, e subito tornò il silenzio. Il sibilare del vento si unì al fuoco e al respiro ansimante di Merythan. Il buio riconquistò il suo dominio, e la cometa tornò nella sua sede, rassicurante. Finalmente, Merythan era nuovamente solo. Finalmente, pensò, la guerra era davvero finita.

3

Dopo tre giorni di cammino, la linea dei colli e i colori della vegetazione si fecero sempre più familiari. La cometa sembrava più piccola, il suo bagliore confuso nel cielo lattiginoso, ma Merythan non aveva più bisogno di quella guida. Dalla cresta di un’altura rocciosa, il villaggio di Balad comparve fra la foschia, circondato dalla sua oasi. Un cielo pallido lo proteggeva, e Merythan accolse quella luce così scialba ma così diversa da quella dei cieli di battaglia. Si incamminò per il sentiero che portava alle sue case. I tintinnii delle campanelle sulle porte e sui fili delle lavandaie scherzavano insieme al vento che faceva cigolare le finestre e gonfiava le tende. Alcuni cani latravano fra i vicoletti. Ogni altro suono era avvolto nel sopore meridiano.

Ma fatti pochi passi, Merythan comprese la vera natura di quel silenzio. Lo riconobbe nel petto, come un’eco profonda nel suo cuore d’acciaio, che ripeteva martellante gli incubi degli ultimi anni. Senza affrettarsi, passò fra le case, incurante dei corpi, delle mosche, dei cani randagi. Un simbolo oscuro marchiato dal fuoco sullo stipite di una porta rigettò un’ombra gelida sul suo petto.

Aprì la porta di casa sua. Si inginocchiò sul pavimento, dove lo aspettavano sua moglie, Saryia, e i suoi due figli, Thomen e Raul. Si erano fatti uomini, osservò. Non era bastato. Bagnandosi le dita nel sangue, accarezzò il volto barbuto del primogenito. Poi scompigliò i capelli incrostati di Raul, riccioli folti come quelli di sua madre, che aveva tentato di difendere fino all’ultimo, come mostrava il pugnale stretto nella mano carbonizzata. Infine osservò Saryia, il volto consumato dall’età e dall’attesa non ripagata. Ogni ruga era un’accusa al suo uomo, lontano, assente, inerme, sconfitto.

Non seppe dire quando erano stati lì i Nemyrrin. Forse erano gli stessi che aveva incontrato tre notti prima. Ma non aveva importanza. Né aveva importanza quanti altri ne aveva sconfitti, quanto sangue e quanto odio aveva versato. Nemmeno aveva importanza chi alla fine avesse vinto quella lunga guerra. Importava solo che altri erano arrivati lì, prima di lui. Qualunque vittoria Merythan aveva riportato a casa, sempre che di vittoria si trattasse, era svuotata di ogni senso. Abbracciò i corpi freddi dei suoi famigliari. Li tenne stretti al suo petto, dentro cui batteva come un fabbro il suo cuore d’acciaio.

E lì, per la prima volta dopo anni di guerra, pianse.


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