Articolo di Gabriele C. Zweilawyer, tratto dal sito Zhistorica.
Il cannibalismo è una delle pratiche che gli storici studiano con più diffidenza. Da un lato, c’è la paura che trattare del cannibalismo di un popolo possa portare ad accuse di parzialità da parte dei discendenti, dall’altro, le fonti sono spesso poco accurate.
Centocinquant’anni fa invece, gli esploratori inglesi entrarono più volte in contatto con tribù che integravano la loro dieta con carne umana. Che fosse un “semplice rituale”, una necessità dovuta alle scarse risorse o un metodo per non sprecare cibo e risorse con i prigionieri di guerra, molte tribù africane praticavano il cannibalismo.

Le testimonianze più interessanti riguardano una di queste tribù, quella dei Makkarika, e provengono dagli scritti di viaggio dell’esploratore inglese Samuel White Baker, in particolar modo dal suo Ismailïa A Narrative of the Expedition to Central Africa for the Suppression of the Slave Trade (1874).
Nel 1869, Baker accetta un’offerta del Khedivè Ismail Pasha, che lo vuole alla testa di un contingente inviato a distruggere il traffico di schiavi gestito dagli arabi con l’aiuto delle tribù subsahariane. Il salario è ottimo, 10.000 sterline l’anno, e alle sue dipendenze ci sono 1.700 egiziani, quasi tutti ex-carcerati.
Nella sua spedizione, Baker affronta mille difficoltà: gli ufficiali ottomani sono invischiati fino al collo nel commercio degli schiavi, le tribù locali lo reputano un ottima opportunità di guadagno e i cacciatori di schiavi arabi sono facoltosi e ben difesi.
Oltre a questo, Baker è costretto a fare i conti con i cannibali Makkarika. Uno degli accompagnatori di Baker, un egiziano con grande esperienza nel commercio di schiavi, li considera “good people“, ma con una bizzarra voglia di carne canina e di uomo. È una tribù che accompagna usualmente gli schiavisti arabi nelle loro scorrerie nella parte meridionale del Nilo, ma che spesso dà qualche problema. In particolare, gli schiavisti lamentano che i Makkarika insistono sempre per uccidere e mangiare i bambini, mentre i primi cercano di mantenerli in vita per venderli come schiavi:
“… di solito prendevano il bambino per le caviglie e gli sbattevano la testa sul terreno; una volta morto, gli squarciavano l’addome e tiravano fuori stomaco e intestini… tornati al campo, i Makkarika facevano a pezzi il cadavere e lo bollivano in grandi pentole”
Nel 1872, Baker se li trova davanti.
Un suoi informatore arriva con la notizia che un importante schieramento di cacciatori di schiavi di Abou Saood (di base a Bohr, nell’odierno Sudan del sud), di cui fanno parte anche 3.000 Makkarika, è in arrivo da ovest per saccheggiare avorio.

I Makkarika divorano i bambini dei villaggi a ovest del Nilo Bianco e anche sulla riva orientale, dove si trova Baker, i nativi sono terrorizzati all’idea che i cannibali possano attraversare il fiume e massacrarli. Baker invia il suo messaggero Suleiman al capo dei cacciatori di schiavi e avorio, Ali Emmeen, chiedendogli di presentarsi davanti a lui con una scorta di massimo venticinque uomini.
Nel frattempo, Baker ordina ai suoi uomini di sparare a chiunque provi ad attraversare il fiume. Suleiman torna senza Ali Emmeen, che preferisce tornare al campo base di Atroosh, per ricevere nuove istruzioni, lasciandosi dietro i Makkarika. Questi ultimi rimangono sulla sponda occidentale e decimano la popolazione locale.
Ogni giorno, Baker riceve dispacci che narrano cosa sta accadendo ai villaggi dall’altro lato del fiume. Vista la presenza di 3.000 Makkarika, si può stimare che in quelle settimane siano state uccise e divorate migliaia di persone.
Per fortuna, Baker riesce a capire che i Makkarika sono stati raggirati fin dall’inizio. I cacciatori di schiavi arabi gli avevano infatti promesso bellissime donne, bestiame e un ricco bottino, ma avevano omesso un piccolo particolare: il loro compito principale sarebbe stato quello di trasportare 3.000 zanne di elefante fino a Atroosh.
Tramite i suoi interpreti, Baker spiega ai Makkarika che non c’è nessun bestiame, né bottino, ma solo le sue “armi magiche” che li stermineranno come hanno già fatto con altri gruppi di trafficanti arabi.
Disillusi e adirati, i Makkarika non riescono neanche a organizzare il loro ritorno a casa, poiché vengono colpiti da un’epidemia di vaiolo che ne uccide quasi un terzo in pochi giorni.
Ma il fatto più raccapricciante relativo ai Makkarika lo racconta l’attendente arabo di Baker, che ne era stato testimone pochi anni prima:
“La ragazza era molto grassa, e dalla ferita fuoriusciva un massiccio grumo di grasso giallo. Caduta in terra, un gruppo di Makkarika piombò su di lei, tirando il grasso e strappandoglielo a manciate dalla ferita mentre era ancora viva. Mentre parte del gruppo litigava per quel disgustoso premio, altri Makkarika la uccisero con una lancia e iniziarono a dividerla fra loro. Prima le mozzarono la testa, poi la tagliarono, usando le lance come coltelli, dal pube fino al collo seguendo la spina dorsale.”
A questo punto, gli altri schiavi appena catturati fuggono in tutte le direzioni mentre i Makkarika, in preda a una febbre predatoria, li inseguono e riescono a ucciderne altri prima di essere fermati dagli arabi.
Poco dopo l’uscita del libro di Baker, anche l’italiano Diego Cumbo Calcagno pubblica un’opera in cui si parla dei Makkarika. La regione degli Akkà: Viaggio attraverso l’Africa, va in stampa nel 1878 a Firenze.
Secondo la testimonianza dell’autore, il primo villaggio dei Makkarika è Gingialah, costruito a oltre mille metri d’altitudine. Cumbo Calcagno descrive i Makkarika come particolarmente doliocefali e, forse esagerando, riporta che la loro testa è poggiata su un collo molto esile “che la sorregge a fatica e la lascia dondolare“, mentre il torace è ampio e piatto. La loro lingua è “dolce, armoniosa e scorrevole“, tanto da meritare un paragone con il cinguettio degli uccelli.
Non si sa quanto a lungo i Makkarika abbiano assecondato le loro abitudini alimentari dopo questo episodio, anzi, il nome della tribù scompare dalle cronache proprio nel periodo in cui le potenze Europee imposero l’abolizione del traffico di schiavi verso il Medio Oriente.
E’ possibile che abbiano abbandonato il cannibalismo, o forse che siano stati spazzati via dalle vendette portate avanti da tribù in possesso di armi da fuoco o dalla difficoltà incontrate nell’assalire villaggi senza la forza dirompente degli schiavisti. Ma si tratta, ovviamente, di semplici supposizioni.
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