Per la rubrica de I racconti di Satampra Zeiros, abbiamo nuovamente il piacere di ospitare Luca Mazza, il quale ci propone Il richiamo di Mornoth, una storia sword and sorcery di circa 30.000 battute spazi inclusi, appartenente al Ciclo di Thanatolia.
Buona lettura.
Sinossi
A Port Tijaratur, Thanatolia, dove ogni giorno è quello dei Morti, i moli e le taverne ardono nei fuochi di Macabrale. Tra le maschere e i peccati Fraka il ladro esercita la sua arte con la destrezza appresa in una vita da sopravvissuto. Ma la notte non impazza solo di vizio, e il richiamo dei rubini, come una macchia di sangue, può nascondere qualcosa di più antico ed oscuro …
Autore
Nato a Bologna il 1980, diplomato al classico e laureato in Scienze Motorie.
Appassionato di sword&sorcery, giochi di ruolo, rievocazioni storiche e cultura fisica.
Autore nell’antologia Zappa&Spada edita da Acheron Books, due racconti all’attivo nelle ultime edizioni 2017 di Letteratura Horror, membro della ciurma letteraria di Crypt Marauders Chronicles ideata da Alessandro Forlani e Lorenzo Davia.
Collaboratore di HFI e Caponata Meccanica.
Co-creatore del movimento Ignoranza Eroica e organizzatore del Primo Torneo Schiaffantasi di Menare (www.ignoranzaeroica.it)
Il richiamo di Mornoth
di Luca Mazza
-Regina di tibie!-
Il cryptier pelò un altro tarocco.
-E Jack di urne! Con l’Asso di vanghe e il Nove di torce fa ventuno! Sodali, il banco vince-
Al tavolo del Nerofante i puntatori rimisero le carte e bestemmie cosmopolite.
Tranne Fraka che protestò: -La Regina di Tibie è già uscita!-
Il biscazziere Agus Alì lo fissò come una morchia sul suo nuovo carro funebre: – Ordunque? SI gioca a mazzi gemelli, regola d’Altoscoglio-
-Ma quando mai! – Sotto lo zuccotto scucito i ciuffi grigiastri incorniciavano una frustrazione paonazza –E voi? Questo bara e non fate un cazzo?-
Chi non conosceva Fraka modellò imbarazzo e impazienza, chi sapeva della sua lingua lunga sbuffò derisione.
Dalla sponda buona del tavolo Agus Alì sdrammatizzò: – Chi è che non bara a Thanatolia?-
S’accodarono motti d’approvazione.
–Se non ti sta bene- soggiunse bussando al baobab piantato alle sue spalle –puoi sempre rivolgerti all’armadio reclami!-
Il giustacuore cinturava le anatomie villose di un Aiace truce, che falcò un sorriso tutto ori e carbone.
Fraka aveva una faccia tosta e un gran fegato, ma anche un osso del collo a cui rendere conto.
Vide la mossa svelta del cryptier che intascava i suoi sudati astragali e squillava –Altro giro altro tesoro, morti di sabbia!- prima di ritirarsi in cifotica impotenza.
Il “Grilletto Magico” era vasto e viscido come il ponte di una krakeniera.
Derelitti dei moli, ludopati, vagine infette, viziosi all’ultimo scandalo. Sei tavole di scommesse, quattro mescite, una mummia di sirena sulla trave d’ingresso.
Chiasso e fumi.
Fraka schivò le corse di eremiti per tema di giocarsi l’ultimo spiccio, scalciò con gusto un topogranchio evaso da qualche crepa e si assestò al periplo di una rivendita.
-Il solito- comandò a Fydelio, un birraio adiposo ma onesto, salvo il vizio di salare criminalmente la zuppa di meduse per alzare la quota beveraggi.
Il trippone gli schiaffò il Necropolitan sul banco graffiato da generazioni di peltri.
Fraka sorseggiò il veleno d’ortica, perdendosi nel liquore dei ricordi. Dopo una mano sfigata, il ladro espiava con la melanconia.
Nelle fecce c’era finito da solo, il fabbro della sua decadenza era lo sgorbio di cicatrici e stoffe scadenti che ora s’annacquava in quella bettola sconcia.
A Thanatolia, del resto, vige l’alternativa dell’orco: crepare all’asciutto o in umido!
Fraka aveva ancora addosso il rovente delle Desolazioni, e il salmastro del Mortirreno.
Tombarolo, avventuriero, corsaro!
Poi il giro di vite di Tiamat Aurotene, la Filibusta sbattuta in secco, e lui troppo vecchio e ravveduto per tornare alle Ceneri.
Di bravi e di sicari pullulavano le coree, e pure il fondo conchiglioso dei canali.
Così Fraka oggi beveva giocava e sgraffignava miserie, in ordine casuale, sul cratere del suicidio quand’era sobrio, sul filo dell’omicidio da ebbro.
Una zanzara grossa quanto una falena gli vampirizzò il collo e svolazzò tra i lampadari prima che potesse impastarla col suo sangue.
-Oh- lo imbeccò Fydelio.
Fraka trasognò un’occhiataccia all’oste, che gli accennò l’avventore una troia più in là.
-Verna è da mezza clessidra che si struscia, ma niente. Se non ti si bevuto i riflessi, magari puoi combinarlo tu .. Mezzo e mezzo, ricorda, e non spagliarmi gli interni di cadaveri! –
L’autocommiserazione sul viso di Fraka fu sorpassata da un lampo d’interesse.
Era in quello stadio spirituale che precede la sbronza ma che inebria i sensi.
Inquadrò lo sconosciuto, un caftano color ambra e un turbante a scialle proteso su una fiaschetta di Ossenzio.
Aveva del sensale più che dell’arcanista, né giovane ne anziano, certo poco familiare al ghetto.
Di quelli con una tintinnante scarsella di camaleonte che attende giusto di essere taglieggiata …
Fraka agguantò il drink e traslocò tra il grullo e la sorella del barista.
–Sloggia, semiramide, ti aspettano nel retro!-
Pizzicò il baule della sgualdrina e si buscò una treccia di rochi rimandi ai suoi natali.
-Si, proprio una bella coppia- li congedò Verna issando i medi –Un fallito e un finocchio!-
Fraka ridacchiò come a scusarla.
-Non è un ritrovo per gente di classe- esordì sogguardando il vicino –Cosa vi ha spinto fino al Porto?-
-Un piede .. avanti .. l’altro-
Il ladro intuì le sue condizioni ben prima che arieggiasse la bocca barbata.
Nel pozzo lattiginoso degli occhi la necrotina dimenava i suoi demoni, temporaneamente narcotizzati dalla robusta posa di alcol.
Il forestiero si versò ancora un cicchetto, poi un altro, incrudelendo e abbiosciando i tratti nelle scimmie di chi è prossimo alla strafusione.
Le speranze di Fraka si impennarono.
-Il Macabrale, immagino!- finse noncuranza, ragionando sul modo per trascinarlo all’esterno –Le strade sono un manicomio stanotte. Conosco un posto dove la vulve non sanno di cambusa ..-
–Dalla tomba fino agli Inferi ogni strada … è lunga .. uguale– sciorinò l’allucinato, piangendo e sghignazzando insieme.
Scattò uno sguardo assassino sul ladruncolo, che perse un distico di respiri.
-Devo esserci, capisci? Ha chiamato … le Lune tagliano il cielo! Mornoth! – Il suo barbugliare vibrava di supplica e anatema –Mi cerca dalla prima luce.. nelle stelle, nelle acque .. Non temerai alcun male, la tua fine è il nostro principio! Ya, Fthagn Mornoth! Io l’ho sognato, è il Dolore a dargli il Potere –
Le mani dell’oppiato, bianche come erba di lapide, accalappiarono Fraka che trasalì.
Non per paura, ma al brillio della tormalina sull’anulare, che riarmò la sua cupidigia.
La gola dello sciroccato scatarrò un lamento raccapricciante.
–Lo vuoi?- salivò –Vuoi i rubini della sua Dimora, vuoi leggere il Dolore? Mornoth?-
–Rubini– Fraka si tese come spago –Dove? Quale dimora?-
-Via delle Forche. Questa è la Chiave- farfugliò, pendolando il brillante sotto il naso del ladro -Mornoth! La Porta che non esiste, e Oltre … –
Il folle modellò una smorfia tetanica, cercò l’Ossenzio, ne sbicchierò una porzione intollerabile.
-Hai detto Forche o Sorche?- lo incalzò Fraka, che trasecolò vedendo gli occhi del pazzo spegnersi come nove.
L’Ossenzio, fiammante come i capelli di una strega, travasò dalla coppa e bagnò il tavolato.
Per un istante il succo versato parve delineare i contorni di una figura impossibile, un volto di sangue e fauci, poi un marinaio volò sul bancone sfracellando le terrecotte.
-Insegnagli a contare!- ordinò Agus Alì al suo gorilla, che avanzava in un’orrenda marcia di sterminio.
Fraka reagì con l’istinto consolidato da una vita ai bordi, sfruttò l’ebetudine della preda e gli grattò la pietra dalle falangi.
Poi scattò sui malleoli, caricò le suole e gridò:-Dietro di te!-
Il ganimede del cryptier si distrasse e il ladro gli centrò il mento con ogni atomo di forza.
L’ercolone assorbì la sventola frullando le mandibole.
Sul momento Fraka ritenne di essersi spezzato il polso, e che di lì a breve il suo cranio ne avrebbe condiviso la sorte.
Il picchiatore invece gli strizzò una palpebra, quasi in cenno d’intesa, e s’accasciò sulle assi come un pennone segato.
-Crosta di sarcofago, me la paghi con gli interessi!- minacciò Agus Alì smazzando una daga rutilante.
Ma Fraka si era già fatto di calca, e la rissa dilagò nel Grilletto a macchia d’olio.
Si soffermò sotto la mummia che dominava la soglia, giusto il tempo di scorgere il necrotomane rinsavire, cercarlo disperato tra il fumo e le botte e aggredire con un verso d’arpia l’incolpevole biscazziere.
Fraka depositò l’anello in una delle innumerevoli tasche, e i vicoli di Port Tjaratur lo vestirono di notte.
Nel Continente dove ogni giorno è quello dei Morti, le idi di Macabrale sono un inno all’effimero.
Nell’aria spira l’ambiguo delle spezie, il greve del vizio.
Tra decumani e le banchine una bolgia d’arlecchini violenti strepita di insonnia, carmi e forsennatezze.
E’ un sabba di satiri e sibille, calacas e becchi d’astore, barbe di gorgone che si crespano nell’orrida giga di sonagli d’osso.
-Madre Mia ardi mille pire / da Port Tijaratur a Handlebab-
Bruciate fuochi, dai bracieri delle baldracche e dai crogioli dei negromanti, dai ferri da marchio e dalle Seghevecchie, gonfiatevi in amplessi spettrali tra i portici e i minareti, nel lenocinio gibboso delle Mezzelune!
Gli occhi di Fraka ballavano la polka nel delirio di maschere e voodoo.
Solo uno a cui puzzava il futuro si sarebbe avventurato tra i bassifondi una notte del genere, vale a dire ogni thanatolico che si rispetti.
I calli da grimaldello ingrassavano i cingoli dello spadino ricurvo, supini al peggio. L’altro polso gi doleva da cani, e meno male che era ambidestro.
Dopo un’attenta analisi della refurtiva l’euforia iniziale del ladro era di gran lunga scemata.
Non serviva un orafo per capire che l’anello, di recupero, valeva meno di un guscio di nautilo.
La pietra in castone assorbiva ogni flebile speranza di una congrua contropartita. Alla penombra rancida dei viccoli Fraka ne aveva ammirato le cifre in tormalina.
Era grossa quanto una ghianda, intagliata da mani bizzarre, certo non in questa era. Vagheggiava il profilo di un teschio tra l’umano e il ferino, ma di nessuna bestia a lui nota.
In obbligo a un impulso irrazionale Fraka aveva levato la fronte oltre le cupole del porto, e nei miasmi del Macabrale aveva distinto una forma metafisica rimaneggiarsi nello schermo nero della notte come l’Ossenzio sul tavolo del Grilletto Magico.
Subito aveva scrollato il brivido col fatalismo dei suoi conterranei.
Dopotutto Fraka non era un occultista né un critico d’arte. Era un topo di taverna, un pastore di truffe deciso a piazzare un vetro per finanziarsi mirti e morre.
Tutto quel che gli bastava sapere della gemma era il prezzo che ne avrebbe decretato Rowaldo, il suo ricettatore di fiducia.
Rowaldo bazzicava tra i suk di Ver Teber e l’Arzanà.
Una fonda di vele ammainate svernava agli attracchi, colpa della ferma corsara, e i caotici equipaggi si sfogavano per le strade ossessionate dal Macabrale.
Fraka aveva condiviso con essi bottini e ferite, ma mal ne sopportava l’indole spericolata e scorbutica, il perenne beffarsi della Morte fregando la scimitarra sulla cote …
Le ciurme peggiori erano quelle storiche, sopravvissute ai bucanieri Iscay e alle Colonne del Delirio, al servizio di mostri di crudeltà quali l’azzimato Pontell o il marchese Xander D’Orlainf.
Fraka ne incrociò una banda dello zoccolo duro, cuoia irte di risse e ninnoli sgargianti, le lame ai ganci e il diavolo nelle vene, impegnati a gozzovigliare con dei tombaroli alticci.
Si schiacciò nelle ombre, memore che sale di scoglio e brecciame di cripta sono una miscela più esplosiva della polvere penumbra.
Passò poco, una rinfusa di ringhi e un Izyaken stramazzò nella rumenta con il tonfo secco di un melone aperto.
-Mi ha sboccato sulla stola!- s’inferocì l’amazzone che lo aveva steso, avventandogli un mulinello di calci nelle costole.
I leccamorti concertarono un soccorso che un toro dalle trecce nastrate strozzò nel sibilo dell’enorme vangascia.
-Ho finito i coriandoli- muggì il corsaro dall’incudine dei trapezi –Le vostre schegge andranno benissimo!-
La menade gragnolò l’ultima scarica di dissenso sull’avanzo di catacomba, sdraiandogli in feretro le piume sozze di vomito.
Cosce d’avorio metallizzato guizzarono tra i falò del Macabrale, prolungandosi in stretti stivali di foca.
Il perizoma faceva da sud a un corpetto succinto, di damaschi chiassosi, e a un merletto di ricci color selva.
Il cipiglio della piratessa e l’alabarda del barbaro suggerirono l’elastica ritirata dei contrabbandieri.
-Toh, infilati questo- L’energumeno drappeggiò la lottatrice nel suo paraspalle lanuto –Se vai in giro così, R’aula, mi toccherà stendere mezza Tijaratur!-
-E arricchirti con l’altra mezza!- li canzonò un terzo lupo di mare, biondo e nerboruto, che Fraka identificò col suo vecchio nostromo.
R’aula balzò in arcione al suo barbaro con la fulmineità di un’amadriade.
-Vi amo, Aklu e Malongo!- ululò alle due Lune –Ma non ve la darò mai!-
Sparirono così in un baccanale di pontili, e il malcapitato pesto di pedate ne approfittò per dileguarsi a passo d’aragosta.
Pirati, pensò Fraka, vite e morti senza dogana.
Scosse lo zuccotto e accelerò nella direzione opposta.
La casba galleggiante di Ver Teber, rigagnoli oleosi che si attorcono in cuore nere, un labirinto che pute come un piaga.
Il festival impazzava anche quaggiù.
Allo Stambugio nessuno era abbastanza lucido da ricordarsi di Rowaldo, e neppure ai combattimenti tra castrati.
Restava la Cabala di Mare.
Nella discarica sul retro una giovane schiava, con addosso una veletta e nient’altro, prestava i lombi a una truppa di nomadi color mallo. Il tanfo sopraffaceva l’olfatto.
Fraka aggirò il baraccamento e puntò l’uscio della birreria, appena in tempo per scontrarsi con un cliente che ne fuggiva.
Il pomo di corallo piantato tra le scapole ne giustificava la foga, e Fraka sentì il fegato congelarsi.
Era Rowaldo!
Il ricettatore rantolò una bava d’agonia e piombò stecchito ai piedi del ladro.
Dalle ante grigliate della Cabala eruppero due galantuomini con il crimine intagliato nei volti olivigni.
Fraka indietreggiò dal cadavere come se all’improvviso scottasse più dell’inferno. Avevano coltelli da macelleria e l’aria di chi ne pontifica l’uso.
Un nano si materializzò all’altezza delle loro cintole, vestendo una trabea tigrata e un paio di assurdi oculari.
Si chinò sul corpo di Rowaldo e ne svelse l’acciaio dai polmoni.
Nell’attimo in cui scorse il tatuaggio ottopode sulla mano del killer, Fraka si raccomandò alla Dea che Non si Invoca.
Erano scagnozzi di Tiamat Aurotene, la madrina dei Ghetti, Signora delle Atrocità.
Morte a credito, in soldoni.
Invece il nano si limitò a occultare il pugnale e snudare un ghigno tra l’astuto e il sardonico, prima di farsi di notte con gli sgherri al traino.
Stupidito, Fraka non si accorse del vuoto che si era generato attorno a lui e al morto.
La marcia pesante degli Scannatori che arrembavano dai vicoli lo riportò precipitosamente a Thanatolia.
-Addio Rowaldo- balbettò e senza nemmeno arraffargli il borsello ruotò i tacchi e tagliò la corda.
E addio astragali!
Fraka vagabondava nell’amplesso del Macabrale, l’adrenalina sostituita da un cupo avvilimento.
Con il trapasso di Rowaldo i suoi contatti “buoni” si decurtavano drasticamente.
Certo, il porto pullulava di gentaglia ansiosa di barattare i proventi di un furto, ma a che condizioni?
Inique era un eufemismo! Trascurando la decima che spettava a Fydelio …
Anche stavolta a Fraka sarebbero avanzate le ossa della polenta.
La chimera di un suo ritiro in una contrada ove l’aria era dolce, le armi un ornamento e donne sane non un ossimoro si ritraeva diabolicamente, come un ghoul dal sudario.
Si fermò ad un crocicchio per sparare una pisciata, ingrossata dal recente periglio. Sospirosi, gli occhi del ladro corsero alla macchia su un cornicione decrepito.
I secoli e il sale avevano abraso da Port Tijaratur ogni traccia di segnaletica, eppure, a lettere chiare e tangibili, le lune svelavano all’incredulo Fraka il cominciamento di via delle Forche.
Istintivamente si riassicurò il pendaglio e tastò la tasca che ospitava l’anello. Lo sentì freddo e pesante. L’anello, non il pendaglio.
Uno strano gioco di nubi a ridosso della notte, come un muso mostruoso di vapori di mercurio, gli rammentò le farneticazioni del necrotomane.
Se quella era via delle Forche e il suo pollo non era del tutto sbroccato, si stava tenendo una festa in una certa dimora nei paraggi, un ricevimento con calici di rosso rubino …
Forse gli spiriti avevano sollazzato lo spirito dei conviviali abbastanza da permettere a un onesto ladro di intrufolarsi a ritmo di danza, traslare un po’ di brillanze nel chiuso dei suoi fondelli, e riacciuffare a onta di tutto le speranze di una vecchiaia alle Isole Felici.
Fu con’ansia febbrile che Fraka scalpicciò all’ombra dei peristili di via delle Forche.
I baccanali sembravano ammorzarsi via via che le cupole a bulbo delle magioni in rovina e i pinnacoli a spirale di un tempo sconsacrato incombevano sulle selci buie.
I moli erano prossimi, il ladro ne fiutava il putridume, ma l’aria era sabbiosa e opprimente come una folle notte nei Deserti di Cenere.
Una folata di hadramaut recò una lugubre trenodia di scheletri. Un coyote o qualcosa che latrava come esso stridé, là fuori, e le narici di Fraka s’impregnarono di tritume d’impavidi ..
Un fantasma di passi gli stroncò due primavere!
Il ladro si assottigliò alla prima colonna e seguì coi ventricoli in gola il transito di un’ombra giallovestita.
Non intese il sesso né l’età, solo l’incedere furtivo e un balenio fugace di tormalina.
L’ammantellato si fuse a un’aureola di tenebre proiettata da un edificio a forma di tumulo, il cui assetto grifagno turbò non poco i sensi surriscaldati di Fraka.
Udì l’armeggiare rapido dello sconosciuto, lo strofinio lapidoso di pietra contro pietre e poi il silenzio.
Fraka contò dieci respiri e si scollò dal basalto, imitando il predecessore.
Nella corona di buio non ci vedeva un cazzo, così mise mani a torcia e acciarino. Dimentico del dolore al polso soffocò una tremenda ingiuria agli Antenati.
La luce sfrigolò raggiornando una parete priva di soglie. Neanche una maniglia, una toppa, uno straccio di scanalatura.
Non fosse stato un ladro di vaglia, Fraka avrebbe iniziato a inquietarsi.
Invece lo sguardo allenato perlustrò le scabrosità del muro fin quando non incappò nel fine della sua indagine.
Fraka ci ficcò l’estremità di un piede di porco, usando una prudenza mai bastevole.
Troppe volte aveva visto colleghi crepare a punta di tossina, o accecati da acidi caustici …
Non scattò nessun trabocchetto.
L’orifizio localizzato dal rapinatore sembrava lavorato all’interno, atto ad alloggiare un oggetto non più voluminoso di una noce o una ghianda ..
La Chiave!
Fraka prelevò l’anello, i palmi imburrati dalla tensione rischiarono di smarrirlo tra le calcine.
Con la cura di un amante lo avvicinò alla serratura di quel mausoleo solitario, la testa di tormalina s’adagiò nella calotta di porfido con un clic che scomodò il pietrame.
Fraka sobbalzò di un passo.
L’unione aveva liberato un accesso dell’altezza di un fanciullo, prospiciente una scalinata consunta che annegava nell’oscurità.
Un ballo per pochi intimi, pensò Fraka. Pochi intimi che intendono nascondere qualcosa di prezioso, di inestimabile …
Controllò la spada alla sua destra, retaggio di mille stragi e razzie. Nessun’ombra dietro di lui.
Solo il Macabrale, attutito da stagioni di abbandono.
Allora brandì la torcia da cripta e s’autoinvitò alla festa.
I gradini si screpolarono in un androne spoglio, poi altre scale, stavolta forti di corrimano.
Fraka si avvide di un dardeggiare incerto, rossigno, in fondo alla rampa, così accecò e ripose la torcia.
Eccolo atterrato in un ambulacro dal soffitto obliquo, decorato di statue livide di un’arte perduta, scolpite in strani atteggiamenti di tortura e parafilia.
L’effetto era quella di un duomo o un anfiteatro risalente a forse un millennio prima, prossimo allo stile preagonico degli Antesignani che inurbarono i poli del Continente per fuggire alle Furie nascoste nelle sabbie.
Da un tendone assaggiato dai vermi piovvero efelidi di luce sanguigna, e uno stagno pulsante di suoni spezzati.
Il ladro felpò i passi nel polviglio di muffe, i nervi acquattati nei muscoli come arcieri tra i rami.
Rimosse il sipario.
La visione, nella sua imponenza rituale, gli ispirò una repellenza spiazzante.
La sala seguiva una geometria indecifrabile, giocata nella ruggine dei fuochi pensili.
Mezzelune di ossidiana si inseguivano sul pavimento, viscido del versato dei turiboli. Un pozzo o un altare primitivo lo foravano in corrispondenza del centro.
La maggioranza degli invitati era nuda, grappoli lascivi di cuoio e catene.
Donne, maschi, efebi e vegliarde di tutti i meridiani, avviluppati nella cifra asfissiante della dissolutezza. Una frusta di nodi sibilò sul petto di un depravato appeso ad un plinto.
Copule ridondanti, caprine.
Un’orgia di Macabrale, pensò Fraka. Piacere e perversione.
Tanto meglio, chi è occupato a mugolare non si cura di chi gli striscia accanto.
Ciononostante un brivido e l’istinto gli dissero subito che la questione scricchiolava.
Una coppia diafana di androgini deviò la sua concentrazione.
Fraka si accorse che il crespo di spine che ne intrecciava le maschere non era posato ma confitto nei loro visi, e grumi brunastri fiorivano nei punti in cui la carne soffriva.
Quale mostruosa assuefazione alla polvere Ambab o abnegazione sovrumana impediva a quegli esseri di impazzire di dolore?
Uno dei supplizianti glielo lesse negli occhi, dilatando i suoi nel martirio lisergico.
-Non sporcare il dolore con le lacrime, Mornoth-
L’altro si prostrò ai piedi del ladro, che gli contò le vertebre tramite la cute calva, e cercò di sfilargli gli stracci:-Fallo adesso! Mornoth! A lui non serve che siamo vivi, Mornoth, basta che siamo caldi-
Fraka lo rintuzzò con una ginocchiata, ferendosi nei nastri spinati. Il masochista ridacchiò. Il compare gli afferrò il capo, lo drizzò e gli segò la gola.
Inorridito Fraka barcollò via.
Si scottò con l’orlo di un turibolo ma non vi fece caso, incapace di scollarsi da quelle bocche lunate di sangue.
Ovunque la lussuria soccombeva alla sevizia.
Era capitato in una funzione di morte, il carnasciale degenere di un culto autolesionista.
Un groviglio di invasati si mordeva, si ustionava, si chiodava i genitali con triboli e cilici. Due baccanti spensero a colpi belluini i lineamenti di un ragazzo inerte.
Fraka sentì i peli aggricciarsi, e il panico annerirgli lo sterno.
La fustigatrice sferzò all’osso il pube dell’affisso, che guardava oltre, estatico.
Nel carnaio Fraka correva il rischio di lasciarci l’orientamento: da quale sipario era sbucato? Ce n’erano parecchi, uno ogni due colonne …
Allora notò un paio di figure, tre anzi, che prima gli erano sfuggite.
Si profilavano ai margini del cerimoniale, tetre e minacciose nelle stazze gommose e i cappucci bucati sugli occhi.
Una di esse sembrava inquadrarlo da tempo, in silenzio, senza mai battere le palpebre.
D’un tratto a Fraka non parve più così mortificante la prospettiva di un pugno di astragali sputtanati al molo.
Provò a defilarsi ma si scontrò con un ospite ammantato di giallo. Nello stupore Fraka riconobbe l’ombra clandestina che lo aveva preceduto di sopra.
Erano gli unici con le stoffe ancora addosso, ma il tiro repentino dell’altro ovviò al problema.
Lo zafferano fluttuò , il ladro vide i seni rosei come melagrane e in seguito le iridi di neve azzurra, cangianti nei lumi tartarei del teatro.
-Ho serbato la mia castità per te, Mornoth!- fiatò la fanciulla, ma non si rivolgeva a lui in particolare –Prendila! Mornoth! Il tempo uccide tutti, ma non lui … –
Il ladro esitò.
Un vecchio osceno, coperto di vene e sfregi, si avvicinò menando un tizzone acuminato.
Una necrotomane cessò di aspirare con un ago la cornea di un cranio maciullato e serpeggiò verso la vergine, imitata da una ressa crescente.
Le palle di Fraka si accapponarono come prima di un monsone.
Il branco si avventò sui contorni lunari della pulcella, facendone scempio in un gorgo di strappi e risucchi che gli nauseò l’anima.
Scattò al velario più vicino ignorando i polsi martoriati dei viziosi, vide un gruppo di tortura condurre a peso sull’altare una giovane dal ventre gonfio come un otre, e fu di nuovo solo.
Non era il corridoio dell’andata.
Figurarsi!
Al di là della tenda lo accolse un quinta di marmo nero, dominata da una singola scultura.
Niente di antropomorfo, un’astrazione di organi, fauci e occhi immortalati in un calcare verdastro.
Appena riebbe il controllo i riverberi di tormalina innestati nell’idolo ossigenarono inaspettatamente le ambizioni di Fraka.
Se non erano quelli i rubini citati dallo straniero, a Fraka andavano bene comunque!
Il coro di gemiti che scendeva e ascendeva come una febbre lo ingiunse a far presto.
Cacciagemme e scalpellino armarono i calli prudenti del saccheggiatore.
Intaccò di taglio la prima pietra, sentì i rivoli di sudore tra le natiche, il brillante stava per cedere quando l’atroce impressione di essere osservato estorse a Fraka uno strillo di panico.
Non era più solo.
Dietro le quinte torreggiava la mole di un incappucciato, ferma, le nudità cariche di violenza inespressa. Poteva essere un sacerdote, o un guardiano. Non aveva armi, solo una catena di uncini confitti nei muscoli, e pugni nocchiuti come mazze.
Il rosseggiare dei lumi oltrecortina e le ossidiane dei lastrici lo alonavano di un’aura infernale.
-Mornoth- esclamò Fraka allargando le braccia –La chiamata! Ogni strada è lunga uguale, lui vuole che ti fai da parte per compiere il mio destino!-
Nessuna reazione, solo il ringhio tagliente di una sega che affronta il ceppo.
-Tu non sai!- L’incappucciato liberò la risata cannibale di uno che si è appena nutrito del proprio figlio
–Tu non sei!-
L’interludio era servito a Fraka per portarsi a sferrata, e non indugiando oltre sciolse la lama e vibrò un affondo nel cuore del folle.
L’orco non cessò di ridere, né ricusò l’aggressore.
Gli agguantò la mano, spinse l’elsa più a fondo, beandosi della vita che lo abbandonava senza nemmeno battere un ciglio.
Il cappuccio gli scivolò dalla faccia e Fraka si ritrasse con un grido, ripugnato.
Le palpebre gli erano state asportate, insieme alle orecchie e alle cartilagini del naso. Le mascelle, inchiodate da placche a bullone, snudavano denti e gengive nel ghigno perenne di un teschio.
Le orbite continuavano a seguirlo, iniettate di capillari nerognoli.
Il ladro arretrò costernato finché la statua non si oppose al suo moto, facendolo trasalire.
Ne aveva le borse piene!
Prima che nuovi cappucci piombassero a rinforzo riprese di lena a lavorare la gemma traballante, sbucciandosi il pollice con lo scalpello.
Il rubino venne via e Fraka gridò.
Ma non per il dolore o l’esultanza. Una botola si era schiusa sotto le sue suole, e uno scivolo nero lo inghiottì.
Non perse coscienza per via della puzza.
Un fetore di abissi scoperchiati, di ostinato marciume.
La chela dell’ignoto lo soffocò nel panico.
Fraka aveva ceduto all’errore più marchiano per un ladro, non aveva verificato le trappole …
Cercò la torcia in un meconio melmoso, la trovò e l’accese, dominando gli atti con sforzo.
Lo strale aranciato fluì in un ripido tunnel a gomito, che un uomo senza ventose non avrebbe saputo risalire.
Fraka scosse il lume per il sotterraneo.
Le pareti sprovviste di scalini correvano ad una volta irregolare, pregna di alghe.
La spelonca aveva tutta l’aria di essere esposta a maree ricorrenti, con ogni probabilità emergenti dallo sfiatatoio che fronteggiava lo scivolo, una fenditura frastagliata di cirripedi.
Era di lì che saliva anche il miasma pestifero, e uno sciabordio lemme e persistente di acque invisibili. Poteva trattarsi del Mortirreno, o forse di un oceano ctonio.
Lo stesso che certi libri proibiti sostenevano scorresse nei penetrali del Tormenghast ..
Un clangore improvviso di coperchi fregati gli sottrasse altre decadi di futuro. Se ne fosse uscito vivo, i prossimi Macabrali li avrebbe trascorsi nelle cantine del Grilletto.
Una O scoliotica di luce rossastra cerchiò l’interno del sotterraneo rivelando al ladro la destinazione della botola.
Era sotto il teatro dell’orgia!
Il chiarore filtrava dallo strano pozzo o altare paleozoico che Fraka aveva intravisto nel cuore del festival. Una subdola speranza lo circuì.
Aveva della fune con se, forse poteva arrangiare un rampino, il soffitto non era lontano, una ventina di piedi …
Dal foro precipitò qualcosa.
Si schiantò sul fondo con un tonfo esecrando, di cose fragili che si frangono.
Il ladro puntò il fuoco tremulo.
Un’appendice verminosa terminava in un guazzabuglio di pallori e placente cianotiche. La partoriente ..
Da sopra esplosero urla di donna e di sacrificio.
-Mornoth- Mornoth- -Mornoth-
La preghiera lo stordì come la vista del neonato a brandelli.
Allungò un passo verso i macabri resti e l’odore che sorse quasi lo piegò.
Un tentacolo di brezza salsa spense la torcia.
Bestemmiando aridamente Fraka cercò di riappiccarla, ma niente.
Dall’apertura della grotta marina venne un suono asmatico, di vertigini gocciolanti che si riassestano.
Il ladro incespicò una fuga ma dove, se non alla parete più vicina, spugnosa, indifferente?
Rimaneva solo il portato amaranto dei bracieri superni, e il peana che rimbombava nel cavo dell’immenso pozzo.
Un artigliò informe uncinò il cordone ombelicale e pescò l’infante nel buco di buio
Mornoth Mornoth Mornoth
Qualcosa di zannuto masticò il suo antipasto, un appetito permeato da un’incommensurabile, atavica malevolenza.
Fraka era troppo scosso anche per vomitare.
Mornoth Mornoth Mornoth
Dall’anfratto si levò un ruggire sordo, come di un drago che parla a ultrasuoni.
La matassa migrò dalle onde dei secoli e degli abomini di Thanatolia, evocata dalla passione dei suoi fedeli, dal ciclico richiamo delle due Lune.
Alla luce sanguinaria della sua Dimora non aveva un colore, un collo, una complessione. Ricordava la forma disegnata dall’Ossenzio sul bancone, dai fumi del Macabrale, dalle nubi nella notte.
In quella che la parte razionale di Fraka immaginò fosse la testa luceva un disordine di cinque rubini, ardenti come ostri.
Nessuna pianta, belva o sostrato di questo mondo puzzava così.
Ma Mornoth non apparteneva a questo mondo, non obbediva ad alcun ordine cosmico se non all’eco del Male primevo.
Dalle tenebre, in un mulinare di lingue e di fauci, si appressò al suo banchetto di mezzanotte.
Dalla tomba fino agli Inferi ogni strada è lunga uguale.
L’ultima cosa che Fraka esperì fu una putrida rinfusa di rubini.
Poi Mornoth schioccò e fu Dolore.
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