Articolo di Gabriele C. Zweilawyer, tratto dal sito Zhistorica.
Pizarro e Atahualpa: due comandanti molto diversi che furono riflessi individuali e speculari dell’imperialismo spagnolo e di quello inca. La fine dell’impero Inca rappresentò un momento fondamentale, decisivo, nell’incontro (e, soprattutto, scontro) fra due civiltà evolutesi in termini di completa autonomia l’una dall’altra.
In passato è accaduto raramente, ma le richieste di collaborazione sono aumentate in modo vertiginoso negli ultimi mesi, quindi ho il piacere di presentare l’articolo scritto dal quasi collega Riccardo Mardegan, laureando in Storia presso l’Università di Padova. Ho integrato le sue parole solo ed esclusivamente con i box di commento cui ormai sarete abituati.
L’articolo è stato scritto avendo sottomano Armi, Acciaio e Malattie di J. Diamond e L’altro Occidente. L’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, di M. Carmagnani. |
Quando Pizarro arrivò in Perù nel 1532 con l’obiettivo di emulare le gesta (e di accaparrare le fortune) compiute in Messico da Cortès circa un decennio prima, egli si trovò di fronte un impero diviso, dilaniato da lotte di potere intestine e senza un imperatore pienamente legittimato.
Nel 1525 era infatti morto di vaiolo (dello stesso vaiolo portato dagli europei di cui moriranno successivamente moltissimi dei suoi guerrieri) Huayna Cápac, ultimo imperatore inca legittimamente incoronato; con la sua dipartita si apriva la lotta per la successione al trono che sarà combattuta tra Huáscar (figlio dell’ultimo imperatore nato prima del matrimonio e quindi non in diritto di succedergli) e Atahualpa (il suo fratellastro).
Alla morte di Huayna Cápac ebbe luogo uno dei sacrifici umani più grandi della storia. A Cuzco trovarono la morte circa 4.000 fra donne e servi, destinati ad accompagnare l’imperatore nel suo ultimo viaggio. Anche prima della morte, Huayna Cápac aveva chiesto sacrifici in tutto il regno per ottenere la guarigione dal vaiolo. |
Nonostante i disordini interni, comunque, l’impero incaico era demograficamente consistente e militarmente era la potenza egemone dell’America andina; ma nonostante questo scarto numerico considerevole (l’esercito che prese in ostaggio l’imperatore inca era composto da Pizarro in persona e altri 168 uomini), gli spagnoli avevano dalla loro almeno armi d’acciaio e capacità tattiche superiori (oltre all’aiuto dato dal vaiolo).
Riguardo l’ultima i dati (M. Carmagnani, L’altro Occidente. L’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, 2003) parlano molto chiaro: dal 1520 al 1570 nell’area andina il crollo demografico fu verticale: da 9 milioni di abitanti stimati ne sopravvissero solo 1,3 per poi scendere ulteriormente a 600.000 anime nel corso del XVII secolo.

Non ci stupirà dunque che dopo la disfatta sofferta da Atahualpa, che ormai era diventato de facto l’inca, a Cajamarca, gli spagnoli ebbero facilmente la meglio sulle popolazione indigene, divise e falcidiate dalle epidemie, mentre gli Europei potevano ormai contare su una solida testa di ponte a Panama che, nonostante le difficoltà geografiche, mandava uomini e rifornimenti alla spedizione di Pizarro.
Ma se è chiaro come fu in grado Pizarro di vincere sul lungo periodo, altresì non lo è su come fece durante il suo primo ingaggio, a Cajamarca, dove lui poteva contare su un esercito raccogliticcio di 168 uomini mentre il suo rivale, l’inca Atahualpa, era accampato con circa 80.000 uomini.
Come fu in grado questo ristretto gruppo di avventurieri, più che di soldati, a sconfiggere l’esercito più temuto delle Ande, a catturarne l’imperatore e a chiedere il più grande riscatto della storia (circa 80 metri cubi d’oro)?
A questa domanda ci rispondono i primi due elementi che menzionavo poco fa: armi e acciaio.
Gli Europei avevano uno straordinario arsenale totalmente sconosciuto agli indios composto da cavalli, armi da fuoco, balestre e, ultimo ma non ultimo, armi bianche e armature in acciaio.
La cavalleria, con le sue cariche fulminee e la sua estrema mobilità ebbe un impatto psicologico enorme nella popolazione inca che addirittura non aveva ancora scoperto la ruota, ma ebbe un impatto strategico ancora più grande, permettendo ai piccoli gruppi di spagnoli di muoversi con una velocità estrema, di colpire per poi ritirarsi prima che il nemico potesse organizzarsi; le armi da fuoco, invece, non ebbero lo stesso peso in termini tattici e strategici visto che quelle dell’epoca, lente per essere ricaricate e altamente imprecise, avevano un ulteriore problema con l’umidità del clima tropicale, che bagnava le polveri e abbassava di non poco l’efficacia di tale armi.
A riprova dell’importanza fondamentale nella conquista spagnola del cavallo e del fucile, va ricordato che le ultime popolazioni indigene che riuscirono a respingere l’urto degli Europei furono proprio quelle che meglio si adattarono a questi nuovi mezzi bellici (come i sioux che sterminarono il battaglione del gen. Custer a Little Big Horn nel 1876, o gli araucani del Cile meridionale che furono le ultimi popolazioni del Sud America ad essere sottomesse, dopo lunghe campagne militari nel 1870-1890).
Ma torniamo alla nostra narrazione: Atahualpa che sta ancora eliminando le ultime sacche di resistenza fedeli a Huáscar, viene avvisato dell’improvviso arrivo degli spagnoli e invia un messaggero per accogliere i nuovi arrivati.
Pizarro, che conosce le imprese di Cortés in Messico e vuole emularlo, non vuole però imbattersi nei suoi stessi problemi: ovvero non vuole impantanarsi in una lunga guerra e, meno ancora, vuole ingaggiare un assedio che, evidentemente, non ha alcuna possibilità di portare a termine con successo.
Arrivato dunque a Cajamarca, dove deve incontrarsi con l’imperatore, decide di pianificare un’imboscata, con la quale riuscire a catturare l’inca Atahualpa e così decapitare in questo modo la catena di comando degli amerindi. Secondo i resoconti di alcuni compagni di Pizarro (tra cui i suoi fratelli Hernando e Pedro):
“Il Governatore (Pizarro ndr.) nascose le truppe attorno alla piazza di Cajamarca; la cavalleria fu divisa in due squadre, di cui una ebbe il comando suo fratello Hernando Pizarro, e l’altra Hernando de Soto. Similmente divise la fanteria, egli stesso assumendo il comando di una squadra e affidando l’altra a suo fratello Juan. Ordinò poi a Pedro de Candia e a un paio di soldati di entrare in un piccolo forte in mezzo alla piazza, portando con sé una fanfara e un archibugio. Quando gli indiani fossero entrati nella piazza, egli avrebbe dato un segnale a de Candia e ai suoi uomini, e questi avrebbero dovuto iniziare a suonar le trombe e a sparare il fucile, al quale strepito la cavalleria sarebbe entrata rapidamente in piazza, uscendo dall’ampio cortile in cui era nascosta.”
Quando l’imperatore si presenta ai nuovi arrivati, tutto è già stato predisposto, manca soltanto il segnale.
“Dietro Atahualpa venivano altre due lettighe e due amache, in cui erano posti signori di alto rango, e poi molte legioni di indiani con corone di oro e di argento. Con grandi canti e strepiti gli indiani entrarono nella piazza e le empirono completamente. Athahualpa rimase al centro, alto sulla sua lettiga, mentre ancora altre truppe giungevano. Noi spagnoli, nel mentre, eravamo nascosti nei cortili vicini, colmi di terrore.
Molti di noi, dal gran spavento, orinarono senza volerlo.
Il Governatore Pizarro mandò in ambasciata Fra’ Vincente de Valverde, per chiedere ad Atahualpa che in nome di Dio e del Re di Spagna si sottomettesse alla legge del nostro Signore Gesù Cristo e si ponesse al servizio di Sua Maestà il Re “[…] Le mie parole sono le parole che Dio ci ha dato in questo Libro. Pertanto, in nome di Dio e dei Cristiani, ti prego di accoglierli in amicizia, perchè tale è la volontà di Dio, e tale sarà il tuo interesse.
Atahualpa chiese che gli fosse mostrato il Libro, e il frate glielo porse chiuso. Il re non sapeva come aprirlo, e Fra’ Vincente stese una mano per mostrarglielo, ma Atahualpa si infuriò e lo colpì. Quindi lo aprì e senza alcun interesse o meraviglia per ciò che conteneva lo gettò via da sé, rosso in volto.
Allora Fra’ Vincente si volse verso Pizarro e gridò: “Uscite fuori, Cristiani! Colpite questi cani infedeli che rifiutano la Parola di Dio!
Avete visto? Il tiranno ha gettato nella polvere il Libro della legge divina! Perchè rimanere in soggezione di questo cane orgoglioso, quando la valle intorno è piena di indiani? Colpitelo, perché io vi assolvo dai vostri peccati!”
Questo testo così breve, è però densissimo di contenuti storiografici, in particolare mi vorrei soffermare sulla questione del Libro: emblematica riguardo all’incomunicabilità tra questi due mondi, tra quello incaico inti e quello spagnolo cattolico.
Gli inca non conoscevano la scrittura, e per quanto ne sappiamo non avevano nemmeno un metodo per tenere i conti dei tributi né della produzione agricola (le funzioni degli quipu, una sorta di abachi, sono attualmente sconosciute e ci si affida solo a congetture di alcuni esperti), ne consegue dunque che non solo Atahualpa non sapesse come aprire la Bibbia, ma che non sapesse nemmeno cosa farci una volta aperto.
Bisogna notare bene una cosa: non è solo che Atahualpa non sapesse leggere, ovvero non è che lui sapesse come funziona la scrittura ma non fosse in grado di interpretarne i segni; ma egli non sapeva proprio cosa fosse la scrittura, per l’imperatore inca un oggetto come un libro era assolutamente privo di significato.
Merita una riflessione il comportamento dei frati domenicani prima e dopo la conquista del sudamerica da parte dei conquistadores. Inizialmente, disgustati dalla pratica dei sacrifici umani e da episodi di cannibalismo, domenicani divennero i più strenui difensori degli indios. Molto probabilmente, i domenicani erano convinti di poter ristabilire l’ordine morale e religioso degli indigeni una volta eliminate le brutalità dell’aristocrazia locale.Naturalmente, i Conquistadores avevano immediatamente optato per la parificazione degli indios ai negri subsahariani, e si era subito diffusa la pratica delle Encomendados. In pratica ogni soldato, nel momento in cui gli veniva assegnata una terra, diveniva proprietario anche degli indigeni che vi abitavano, i quali erano ridotti a una condizione inferiore a quella dei famosi “servi della gleba”.L’Encomienda era lo strumento principe per regolare i rapporti fra spagnoli e Indios e venne mantenuta anche dalle Leggi di Burgos, promulgate da Ferdinando II d’Aragona nel 1512,. E’ necessario sottolineare come i veri fautori di questi provvedimenti furono i domenicani, che da quasi due decadi si battevano per la concessione di quelli che noi chiameremmo “diritti umani” agli Indios. In particolare, il Re di Spagna fu toccato dal duro e coraggioso sermone di padre Antonio de Montesino, che ebbe il coraggio di dire:
I Conquistadores, primo fra tutti Diego Colombo, figlio di Cristoforo, chiesero al Re il permesso di buttare Antonio su una nave e rispedirlo in patria, ma il sovrano, dopo un iniziale favore nei confronti degli spagnoli, decise di dare ascolto al religioso. Ho trattato l’argomento con maggiore accuratezza nell’articolo Gli Indios: Uomini o Animali? , cercando di approfondire in particolar modo la figura e le azioni di Bartolomeo de Las Casas. |
Dall’altra parte, il frate cattolico, detentore dell’unica Verità cristiana, tratta la spedizione di Pizarro come un’appendice delle vicende medievali legate alla crociate.
“Colpitelo, perché io vi assolvo dai vostri peccati!” riecheggia le parole di Bernardo di Chiaravallesecondo cui “Il Cavaliere di Cristo uccide in piena coscienza e muore tranquillo: morendo si salva, uccidendo lavora per il Cristo.”
E questo retroterra culturale è comune a tutti i capitani di ventura e conquistadores del Nuovo Mondo, in quanto essi erano figli di una stagione della storia di Spagna che aveva fatto della contrapposizione tra cristianesimo e islam un fattore chiave per la formazione di una sorta di “spirito nazionale” (nel 1532 sono passati esattamente 40 anni dal termine convenzionale della Reconquista).
Ma come termina l’impresa di Pizarro? L’imboscata sortirà l’effetto sperato?
“Il Governatore diede il segnale a de Candia, che iniziò a sparare e a suonare le fanfare. A tale suono, i soldati spagnoli uscirono dai loro nascondigli e si gettarono nella piazza contro gli indiani disarmati, al grido di guerra di “Santiago!”. I cavalli erano ornati con sonagli per fare maggior strepito; e gli spari, i suoni e le grida gettarono i nemici in un confuso terrore. Gli spagnoli iniziarono a colpirli e a farli a pezzi.
Gli indiani erano così pieni di angoscia che si spingevano e schiacciavano l’un l’altro, e molti ne furono soffocati. Poichè non portavano armi, furono uccisi senza alcun danno per i Cristiani. La cavalleria li schiacciò, li uccise con le spade e li inseguì, metre la fanteria fu cos’ abile che in poco tempo tutti coloro che erano scampati ai cavalieri furono passati a fil di spada.
Il Governatore prese la spada e il pugnale, con alcuni uomini si gettò nella folla di indiani e con grande coraggio raggiunse la lettiga di Atahualpa. Senza alcun timore afferrò il braccio del tiranno gridando “Santiago!”, ma l’eccessiva altezza della lettiga non gli permise di tirarlo a sé. Uccidemmo gli indiani che portavano a spalla Atahualpa, ma altri prendevano il suo posto, e in questa maniera perdemmo molto tempo tentando di ucciderli man mano che sopraggiungevano. Allora sette o otto cavalieri lanciarono i loro cavalli contro la lettiga e con grande sforzo riuscirono a rovesciarla su di un lato. Così Atahualpa fu catturato e portato negli alloggi del Governatore. Gli indiani di scorta non lo lasciarono un solo istante, e morirono tutti con lui.”
In seguito i resoconti parlano del numero delle vittime: “6.000 o 7.000 giacevano morti e molti di più avevano gravi ferite e mutilazioni. Atahualpa stesso ammise che 7.000 dei suoi soldati erano stati uccisi.”

Un bagno di sangue quindi, ma la cosa davvero sorprendente è che le perdite spagnole ammontano a zero. L’acciaio europeo si è rivelato l’alleato essenziale per spuntarla in una situazione da cui gli stessi protagonisti non vedevano scampo: “Molti di noi, dal gran spavento, orinarono senza volerlo.”. Nulla potevano infatti le armi in legno o in ossidiana (trattate diffusamente nell’articolo Spade senza metallo (I): il Macuahuitl) che utilizzavano comunemente i guerrieri indigeni in mesoamerica e nell’area andina, e la resistenza fu ancora minore visto che l’autore specifica che essi arrivarono alla pizza di Cajamarca disarmati.
Resta però un elemento, che sicuramente Sun Tzu non avrebbe lasciato per ultimo, ovvero la questione dell’inganno.
Com’è possibile che a distanza di una decina d’anni dalla conquista del Messico azteco, il copione della colonizzazione spagnola si ripeta praticamente invariato?
Come può Atahualpa fidarsi di Pizarro, tanto da non armare nemmeno i guerrieri prima della visita a Cajamarca?
Per cercare di rispondere a questa domanda, bisogna recuperare quanto detto prima in merito alla scrittura, ovvero che gli inca non la utilizzavano ma, soprattutto, non la conoscevano. Se dunque abbiamo da un lato una popolazione (gli spagnoli, o meglio gli europei in generale) consumata alla prassi e alla teoria che “Tutta la guerra si basa sull’inganno.” con una conoscenza storica di episodi o vicende belliche nel quale l’inganno ha una parte preponderante, si pensi anche solamente al celeberrimo cavallo di Troia, tutt’ora paradigma di questo concetto; dall’altro lato abbiamo una popolazione priva nella maniera più assoluta di memoria storica, priva cioè di esempi, ammonimenti ed esperienza che avrebbero potuto metterli in guardia contro i nuovi arrivati.
L’universo in cui vive l’inca e la sua corte è quello del presente e del passato prossimo, dove le popolazioni si affrontano apertamente sul campo, dove i sottomessi pagano il tributo all’imperatore, dove si tiene sempre fede alla parola data, dove l’inca è la rappresentazione del sole, degno di ogni rispetto e dotato di intangibilità.
L’arrivo degli spagnoli, in questo senso, squarcia la rete culturale indigena portando di colpo una popolazione che si era sviluppata in un isolamento dorato per circa 40.000 anni nel cuore del sistema politico e culturale europeo.