L’orbo veggente di Buenos Aires

Articolo di Marco Cimmino, tratto da Antarès.


Una questione impellente o, me­glio, la questione impellente che è necessario affrontare scri­vendo di Jorge Luis Borges riguarda la genesi della sua narrativa e la matrice del suo universo fantastico. Chi scrive crede fermamente che Borges non sia stato un’anomalia epistemologica della letteratura latino-americana, quanto piuttosto un esponente in esilio di quella europea, cui tutta la sua produzione fan­tastica riconduce, nonostante ambien­tazioni ed onomastica coloniali. Tutto cominciò molto tempo fa e molto lon­tano dalle floride terre bonaerensi: non è dato sapere esattamente quando avven­ne, ma possediamo diverse testimonian­ze che ci permettono di ricostruire, da se­gni non sempre facilmente percepibili, il cammino che portò Borges alla sua arte.

Possiamo, ad esempio, postulare una data ed un luogo: Recanati, anno 1819. Un giovane poeta ventunenne, seduto a riflettere sui casi suoi davanti ad un’alta siepe, nel frinire di invisibili cicale perse improvvisamente la cognizione del tem­po e dello spazio: il suo spirito si trovò immerso in una solitudine di meraviglio­sa purezza, lanciato a velocità sopranna­turale attraverso deserti cosmici e visioni d’inesprimibile e colossale maestosità. Come per un’arcana e sconosciuta ma­gia, il gobbetto rachitoide dalla somma­ria cura personale si trovò ad essere un titano, lanciato nell’immensità dell’uni­verso, dimentico delle catene, inebriato dalla stordente bellezza dell’invisibile, inesprimibile, impensabile: un pellegri­no visionario. Forse, dunque, dovremmo partire di lì, dal colle de L’Infinito, per cogliere i meccanismi primi della scrit­tura di Borges, il cieco veggente. In qual­che modo l’impedimento, l’ostacolo, la menomazione, la siepe, possono, in certe circostanze, per certi attimi, divenire po­derosi strumenti visivi che aprano nuovi universi a chi riesca a goderne, ribaltan­do i termini angusti della logica e della realtà fenomenica.

Oppure, questo sogno nacque a Pari­gi verso il 1860, quando Charles Bau­delaire intuì (forse sarebbe il caso di dire re-intuì) il potere evocativo della non-vista: la capacità di accrescere la sfera percettiva attivata dai più evidenti limiti fisici della nostra visione, quasi che la mancanza di visus riportasse in vita la capacità remota e nascosta nell’uomo di vedere oltre. «Chi guarda da fuori attra­verso una finestra spalancata non vede mai tante cose come chi invece guarda una finestra chiusa. Non vi è cosa più profonda, più misteriosa, più feconda, più tenebrosa, più abbagliante di una fi­nestra al tremore di una candela. Ciò che si può vedere rischiarato dal sole è sem­pre meno interessante di quel che accade dietro un vetro. In questo foro, sia oscuro o luminoso, vive la vita, sogna la vita, sof­fre la vita.»

Questo ci sostiene nella nostra convin­zione circa la genesi europea del fanta­stico di Borges: egli visse un’apparente staticità, eccentrica rispetto ai canali tradizionali della civiltà letteraria occi­dentale. Un’immobilità australe, professionale, fisica. Eppure, questa sua lonta­nanza, questo suo isolamento apparente, divennero la chiave di un’occidentalità assoluta: non troveremo in Borges il fan­tastico ispano-americano né la prorom­pente e multicolore potenza del magico precolombiano. In lui non sussisterà rap­sodia maya o azteca, né voluttà barocca o misticismo vudu.

Tutto, come si diceva, ebbe origine in Europa: nel cuore stesso dell’Europa, con gli occhi dell’Europa. Perché c’è un ripostiglio buio, al centro della civiltà occidentale: uno sgabuzzino dalla porta scrostata, con la chiave che pende. Qualcuno, qualche volta, in qualche estate immobile e translucida o in qualche inverno scricchiolante di neve ghiacciata, ha allungato la mano, come per caso, e l’ha aperta, quasi soprappensiero, qua­si senza volere: a volte, anche solo per uno spiraglio, ma è bastato. E l’Europa è diventata universo e lo sgabuzzino si è fatto caleidoscopio. Perché al centro dell’universo c’è un caleidoscopio d’oro e di diamante, che racchiude tutti i sogni più sfrenati, le malinconie che levano il respiro, le grida di tutte le battaglie e le vertigini di tutte le muraglie: ci si può arrivare soltanto attraverso una via umile e tortuosa, ritmata dallo stillicidio della vecchia gronda, fuori dalla tua finestra. E c’è una fuga di pareti e di scale, di cer­chi di pietra e sull’acqua, nella mente di ognuno di noi: cattedrali di cipressi na­scoste in luoghi perduti in un ricordo di cose mai vedute. E ci sono le montagne, impossibili e meravigliose, che sfidano ogni giorno il cielo: sono oceani con onde immense, che si frangono su scogli giganteschi, in tramonti violacei.

Lì si trovano ogni giorno coloro che non ebbero paura dei propri desideri: quei prescelti che possedettero la sma­nia di vedere, lo struggente desiderio di essere liberi in una corsa senza fine ver­so la cascata che schiuma e ruggisce nei pressi di un orizzonte irraggiungibile. Per arrivarci ci vogliono tre cose magi­che. Una disperazione infinita che ci renda estraneo il tormentoso brusio del­la quotidiana pena collettiva, facendoci distanti e, insieme, partecipi del dolore umano. Una rabbiosa incapacità a ferire, che faccia di noi un’arma deposta sulla cassapanca, a coprirsi di polvere, costrin­gendoci ad innaturali compromessi col nostro beneducato demone. Infine, un amore immenso che non trova sfogo né ragione se non il canto, lo smemorante canto della morte.

Borges, certamente, sapeva della porta, del caleidoscopio, del cerchio di pietra: semplicemente, in vita, non gli era ba­stato il cuore. Così scrisse, dato che non aveva potuto guardare: cieco prima di essere cieco, lui che era nato per essere il benvedente, il maestro della chiave segreta.

Veniamo alla prima parte di questa sto­ria: è la meno significativa e amabile, ma va raccontata, se volete sapere di Borges. Basta un pensiero, talvolta, a spalancare universi: un’idea tanto potente da cam­biare il corso della storia. Così è accadu­to per la letteratura fantastica, quando, intorno alla metà del secolo XIX, si è diffuso un nuovo sentimento della re­altà: l’immaginazione. Non ci si lasci ingannare dall’apparente ossimoro: le scienze esatte ci hanno ampiamente dimostrato che, per gli esseri umani, ciò che esiste nell’ambito sensoriale esiste in quello fenomenico e questo determi­na una sostanziale identità tra ciò che è fisicamente reale e ciò che percepiamo come tale. La dottrina del colore, che ha determinato la svolta epocale delle arti figurative ottocentesche, ne è uno dei portati più evidenti: l’idea che le nostre impressioni determinino colori e forme e che il nostro cervello assembli informa­zioni divise rendendole un’unica visione rappresentò un’autentica rivoluzione, che diede frutti formidabili.

In un certo senso, possiamo dire che la nostra modernità è figlia della fantasia almeno quanto lo è del pensiero scienti­fico: da quando Schopenhauer postulò la presenza di una realtà inconoscibile o, perlomeno, difficilmente decifrabile, al di là del pesante velo di materialità che impedisce all’uomo di coglierla, generazioni di scrittori hanno cercato di dare corpo a questa visione entusiasmante e terribile, ora percorrendo le vie della complessità e dell’alienazione, ora bat­tendo quelle del candore e dell’ingenu­ità. Insomma, l’uomo moderno ha cerca­to davvero di essere una freccia scagliata verso i confini dell’universo: perciò, for­se, la nostra storia comincia ancor prima e ancor più lontano. Essa affonda le sue radici in un tempo in cui simili emozio­ni si provavano ma non si esprimevano: esistevano solo la guerra, l’amore e Dio. Dalla diversa combinazione di questi tre elementi mitopoietici, in un certo senso, nacque la letteratura romanza. Eppure, tanti scrittori medievali denunciarono un’ansia di sapere di più, di andare oltre: bestiari e lapidari, agiografie e leggende testimoniano un poderoso sforzo fanta­stico cui, semplicemente, mancarono gli strumenti filosofici. O, forse, ancora più semplicemente, il tempo.

Di queste Europe, s’intenda di tutte queste Europe, fu figlio Borges: altri cercheranno nelle linee nere dei suoi rac­conti stili e crittogrammi d’altro metro e misura, ma noi questo vediamo, un’as­soluta coerenza con la narrativa europea. Jorge Luis Borges è uno scrittore euro­peo: non certamente della Mitteleuro­pa, ma di quell’Europa dolce e forte che nacque dal disfacimento dell’impero carolingio, l’Europa che sognava sen­za vergogna, circoscritta dai suoi mari, ignara del globo, lontana dall’ecumene. Un’Europa, in sostanza, delimitata nel suo vedere da una siepe: un continente seduto davanti ad una finestra chiusa. Solo paradossalmente, perciò, uno degli scrittori più straordinariamente visiona­ri in senso europeo nacque, visse e morì dall’altra parte del pianeta, legato ai suoi sodali soltanto dalle radici fortissime ed esili dei libri: le parole. E, forse, alla fine del suo viaggio mortale, Jorge Luis Bor­ges, l’orbo veggente, dimenticò le catene che lo trattenevano al suo letto di morte e alla sua scrittura, così regolata e preci­sa, e si sdraiò sull’oceano, che fu confi­ne alla sua malinconia e al suo sogno: la percezione del tutto lo invase e lo sanò definitivamente.

Di nuovo e per l’ultima volta vide il ripostiglio, come ricordandosi memo­rie di altri, girò la chiave, aperse la por­ta scrostata: si trovò nel vortice dorato, magnifico e stordente del caleidoscopio, ruotò nel cosmo, cadde infinitamente e si sollevò sopra i ghiacci e le nebbie, per planare nel centro preciso del grande cer­chio di pietra. Lì, finalmente, la sua vista tornò a distinguere gli uomini e le cose, il sogno e la poesia, la memoria e il ricor­do, tra volti resigli familiari dalle pagine, dalle parole, dai libri: e Jorge Luis Borges capì di essere finalmente tornato a casa.

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