Borges custode di Babele

Articolo di Marcello Staglieno, tratto da Antarès.


A quindicimila chilometri da Calle Maipù in Buenos Aires, all’interno di un grande casci­nale della Bassa, Jorge Luis Borges par­la. Con voce tesa, di testa, che tritura le parole in quarti di tono acuti, s’esprime in un francese elegante e scioltissimo, ora volgendosi all’editore anfitrione Franco Maria Ricci, ora alla giovane segretaria che lo guida in questo secondo suo viag­gio in Italia. Attraverso i rami del melo che premono contro i vetri della finestra, la pur debole luce del mattino annuvola­to sembra aggrumarglisi sul volto magro, dalla pelle un poco logora, sugli occhi azzurri spalancati. Sono occhi che non vedono, ma volti intorno per la stanza con curiosità tattile, quasi febbrile, in contra­sto col gestire parco, dall’affabilità rattenuta di gentleman anglosassone.

«Mia nonna era inglese, i miei antenati erano forse Visigoti dell’España rubia» dice con un sorriso. «I miei studi li feci in Svizzera. Non ho nelle vene sangue italiano, come i genovesi del porto di Baires, quindi non posso dirmi davvero argen­tino. Sono dunque un sassone? Nessun uomo sa chi è, affermò Léon Bloy. Ma que­sto è un paradosso. Forse sono un orfano di più civiltà e letterature, un individuo policentrico. Giordano Bruno e Pascal non dissero del resto che l’universo è tut­to centro, o che il centro dell’universo sta dappertutto e la sua circonferenza in nessun luogo?»

Barocco, decadentismo, culto per l’im­magine e per la forma, simbolismi metafisici corretti dall’ironia ma aggrovigliati in una serie vertiginosa di citazioni: già candidato al Nobel e tra i massimi autori viventi, Borges parla come scrive, trasci­nando l’interlocutore su un filo teso fra verità e menzogna (come in Schwob(1), suo innominato maestro). Le immagini sono dense, ma lo stile mira all’essenzialità. Ogni frase di Borges, benché lasci l’im­pressione di un non finito, è un laconico capolavoro. La sua è un’estetica del fram­mento, della perfezione conchiusa d’un microcosmo immediatamente percepibi­le. Centinaia di poesie, brevi saggi, note, recensioni, racconti, antologie: il numero dei suoi scritti è elevatissimo, ma pochi su­perano le otto pagine.

«Non amo scrivere romanzi» precisa. «Una lunga successione rompe ogni unità estetica. La brevità è una delle condizioni per non stancare il lettore, per convertire in lui l’apparente gioco della parola scritta in passione, o in dolorosa verità esistenziale.»

1. «El honor»

«Amo la musicalità di Verlaine, l’iro­nia flaubertiana di Bouvard et Pécuchet, il cavallo nero della notte evocato da Hugo» aggiunge, chiudendo gli occhi. «Devo molto all’avventurosa prosa di Stevenson, alle Mille e una notte, che lessi da bambino, al razionalismo fantastico di Poe, agl’intrighi metafisici di Hawthor­ne e Henry James. Ma sono soprattutto debitore a Conrad del senso dell’onore, dell’individualismo: come dimenticare Lord Jim

È una posizione coerente con l’anar­chismo iberico tutt’uno in lui, con la tradizione rappresentata dalla mitologia del gaucho: fiero, assorto, intransigente, fanatico e puro. I personaggi borgesiani si muovono tra le grandi pianure di Mar del Plata e squallidi quartieri di Buenos Aires. Sono spesso sconfitti dalla vita, wicked, reietti. Ma a riscattarli c’è sempre il senso della dignità personale, il desiderio di lot­tare sino in fondo contro il determinismo dell’esistenza. E a recuperarli dagli ambiti della cultura locale, per collocarli nella geografia letteraria universale, c’è innan­zi tutto un dolente pessimismo che lascia intravedere, di là dagli smalti stilistici, ben precise convinzioni filosofiche.

«Il mio non è un sistema filosofico» in­terrompe. «Lo definirei piuttosto un insieme: sincretismo è la parola esatta. Sono stato anarchico per diventare un uomo li­bero. Sono pessimista, come Schopenhau­er e Nietzsche: la vita è un eterno ritorno. Ritengo che si debba reagire al determi­nismo con l’amor fati, con quello che in castigliano si chiama el honor: qui sta la grandezza dell’uomo.»

2. Come Tiresia

«E la confutazione del tempo?»

«È un divertimento, un paradosso. Ma con un fondo di verità. Ho negato che il tempo, come l’hanno definito Berkeley e Hume, sia una successione di momenti indivisibili e irripetibili, per sottolineare il ripetersi e l’identità (in prima approssi­mazione) delle passioni umane. Ciò che cambia è l’involucro, non l’essenza. Nel passato vivono i fantasmi di cose oggi spa­rite. Durante un viaggio a Montevideo, ero bambino, mio padre disse: Guarda le frontiere, le abitazioni, le uniformi, le ban­diere: cambieranno. Con altri fantasmi, popolano il museo della memoria, in cui abito. Ho settantotto anni, da circa ven­ti non leggo più. Tento di comportarmi come Omero e Milton: scrivo e ricordo. E come Tiresia. Ricordo anche l’avvenire: tutti attendiamo che il presente diven­ti passato per capirlo, e aspettiamo che il futuro si trasformi in fatto compiuto per meditarlo. Perché il passato, in una sfera più alta, rappresenta ciò che Hegel chiamò il non-io, la cultura, le stratifica­zioni successive ripetute dalla storia.

«Ma le teorie, i rigidi sistemi di pensiero non mi convincono» riprende, dopo una breve pausa. «Ho letto il vostro Croce e udito la voce cavernosa dello Stato etico gentiliano. Ho combattuto il fascismo, il marxismo, ho subito sulla pelle la frusta del peronismo, che non ha in sé neppure un’idea, ma rappresentò soltanto un regi­me di profittatori, ho sognato Tommaso Campanella e Fourier, Giordano Bruno e una sirena chiamata Libertà. E continuo a sognare un mondo senza governi, di cui forse l’umanità non sarà mai degna.»

«Quale fu il pensatore a influenzarla maggiormente?»

«Senza dubbio Carlyle, in particola­re con la sua opera sugli Eroi e col Sartos resartus(2), basato sulla convinzione che le istituzioni sono semplici vestiti dello spi­rito, dal valore contingente.»

«Anche le istituzioni democratiche?»

«Nel nostro tempo si parla troppo di democrazia. Una parola che spesso nasconde la tirannia della maggioranza, che Kierkegaard battezzò il numero della be­stia o la bestia del numero. È una tirannia che in passato ebbe la maschera dell’an­tiparlamentarismo. Oggi indossa quella d’un parlamentarismo che è controllato da oligarchie fuori del parlamento, con le masse incatenate a miti ideologici. Nes­suno m’ha ancora perdonato queste cri­tiche, e l’aver definito la democrazia una superstizione fondata sulle statistiche. La politica spicciola in realtà non m’interes­sa. Già trent’anni fa smisi di leggere i gior­nali. Trascorro il mio tempo a ricostruire nella mente vecchi libri che amai, a scri­vere poesie, sonetti, racconti. O a tenere conferenze, e viaggiare.»

«Conosce l’Italia?»

«Da come me la descrivono, è cambia­ta. Sono passati sessantatré anni dal mio primo viaggio. Troppi. Visitai Milano, Verona, Venezia. Tra pochi giorni sarò a Roma, poi a Firenze, tornerò a Venezia. Il mio ricordo è però fermo al 1914. Se mi si parla di Vienna, per esempio, penso subi­to all’Impero d’Austria e Ungheria, alla carta geografica della felix Europa. Lo sa che Talleyrand» dice con un largo sorriso «osservò che solo chi era vissuto prima della Rivoluzione aveva conosciuto la douceur de vivre? Io amo applicare questo detto all’Ottocento: chi ha vissuto, come me, prima della Grande Guerra in Europa ha sentito il sapore di quella douceur.»

«Quale futuro si attende per l’Europa?»

«Potrei rispondere che lo vedo nero: è solo una battuta. Più che un futuro, parlerei di differenti avvenire. De Madariaga definì l’Europa simile a una grande pian­ta, con le radici affondate nella sua storia e molti rami. I caratteri tipici di ogni na­zione, è vero, sotto gli impulsi del bisogno e la necessità di alleanze strategico-mili­tari, si vanno attenuando. Ma le illusioni degli sciovinismi (lo scrissi in Altre inqui­sizioni) sono dure a morire. L’unità del continente credo sia ancora lontana. Nel primo secolo di questa nostra era, Plu­tarco corbellò quanti affermavano che la luna di Atene fosse più bella di quella di Corinto, ma Milton, nel diciassettesimo, affermò solennemente che Dio aveva l’a­bitudine di rivelarsi, prima che agli altri, ai Suoi inglesi: frasi che sono state ripetu­te, e che risentiremo.»

«Quale l’avvenire degli Stati Uniti?»

«Qualcuno, se non ricordo male Carly­le, disse che con la caduta di Atlanta, cioè con la guerra di secessione, fini l’era del re­moto Sud. Procediamo pure per generaliz­zazioni: i sudisti credevano nella cultura, nella tradizione, nella nobiltà del sangue, nell’onore e nella virtù (pur senza prati­carla). Poi venne l’era yankee. Con Car­ter può darsi che quest’era sia già finita. Il profondo Sud, più illuminato e meno paternalistico-filantropico, è arrivato alla Casa Bianca. Ma è solo la mia opinione. Come le ho detto, non leggo i giornali. Nelle mie opere, del resto, mi tengo lon­tano dalle contingenze politiche. Penso che un autore (l’ho anche scritto) debba intervenire il meno possibile nell’elabora­zione della propria opera. Deve cercare di essere un amanuense dello spirito e della Musa (queste due parole sono sinonimi), non delle proprie opinioni, che sono quel che di più superficiale è in lui. Tale fu il parere di Rudyard Kipling, il più illustre degli scrittori impegnati.»

3. Tutta la sua opera

Dopo un’unghiata ai professionisti del vecchio engagement («Oggi ci s’impegna con facilità da una sola parte: ma quan­ti marxisti hanno letto Marx? E perché tanti scrittori di quella parte non s’inge­gnano anche a scrivere con impegno?»), Borges parla dei suoi libri. Per i tipi di Rizzoli dovrebbe comparire, in due grossi volumi, tutta la sua opera(3). Nella «Bi­blioteca di Babele», collana di letteratu­ra fantastica da lui diretta presso Franco Maria Ricci, continuano intanto a uscire i titoli in programma. Per ora, quattro: Le morti concentriche di Jack London, Lo specchio che fugge di Papini, Storie sgrade­voli di Léon Bloy e Il cardinale Napellus di Gustav Meyrink. Ghiottonerie, cui si uniranno presto testi di Kafka, Machen, Stevenson, Voltaire, Melville, che verran­no gustati anche in Francia, in una coedi­zione con Retz(4).

«Sono un custode di libri» dice al mo­mento del congedo. «La parola scritta forse sfugge al determinismo. Gli uomini, benché abbiano il dovere di lottare, no. Sono come le pedine degli scacchi (E pure il giocatore è prigioniero / la sentenza è di Omar, di un’altra scacchiera / di nere not­ti e bianchi giorni)(5). La Biblioteca da me descritta in un racconto(6) contiene tutto lo scibile, esiste ab aeterno, è illimitata e pe­riodica. A ogni libro corrisponde un an­ti-libro, l’insieme dei libri è contenuto in un catalogo, ma si può sempre immagina­re un catalogo che contenga quel catalo­go. Chi possiede il catalogo dei cataloghi, l’ultimo, è Dio. Il paradiso o l’inferno, quindi, possono esistere (Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine)(7).»

Note

  1. Lo scrittore francese Marcel Schwob (1867-1905), autore, tra le altre cose, di Vite immaginarie, libro borgesiano come pochi altri (ed. it. Adelphi, Milano 1972) [N.d.C.].
  2. Ed. it.: Thomas Carlyle, Gli eroi: il cul­to degli eroi e l’eroico nella storia, Rizzoli, Milano 1992; Sartor Resartus, Liberilibri, Macerata 2009. Della seconda opera Borges scrisse l’introduzione [N.d.C.].
  3. Come noto, le opere complete di Jor­ge Luis Borges usciranno nei Meridiani di Mondadori tra il 1984 e il 1985 in due vo­lumi, a cura di Domenico Porzio [N.d.C.].
  4. Nella storica collana diretta da Borges (che sceglieva i titoli e ne curava introduzio­ni e apparati) e pubblicata da Franco Maria Ricci, oltre a quelle citate, verranno date alle stampe opere di autori come Charles Howard Hinton, Gilbert Keith Chester­ton, Rudyard Kipling, Edgar Poe, Natha­niel Hawtorne, H. G. Wells e Oscar Wilde [N.d.C.].
  5. Versi tratti dalla poesia Scacchiera, inse­rita nella raccolta L’artefice (ora in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, vol. I, p. 1181) [N.d.C.].
  6. Cfr. Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele, in Finzioni (ora in Tutte le opere, cit., vol. I, pp. 680-689) [N.d.C.].
  7. Sono le parole che chiudono La bibliote­ca di Babele (ed. cit., p. 689) [N.d.C.].

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