Articolo di Gabriele C. Zweilawyer, tratto dal sito Zhistorica.
Asburgo e Borbone di Spagna: due modi di regnare. Avrebbe potuto essere anche questo il titolo dell’articolo, poiché fronteggiarono in modo diverso le esigenze di governo dei territori europei e, soprattutto, delle lontanissime colonie americane. In questo articolo, Riccardo Mardegan prova a comparare il modus operandi delle due dinastie e il rapporto delle due dinastie con i possedimenti nel Nuovo Mondo.
Avendo ormai portato a termine il compito per il quale sono partito, ora so che sarebbe gradito a Voi essere informati su tutto ciò che ho scoperto durante il mio viaggio.
Al trentatreesimo giorno dopo essere salpato da Cadice, ho raggiunto l’Oceano Indiano, dove trovai molte grandi isole, popolate da innumerevoli abitanti, che furono occupate senza resistenza nel nome del più illustre Re, con proclamazione pubblica ed esposizione delle nostre bandiere. Alla prima di queste isole diedi il nome del Divino Salvatore, confidando che grazie alla sua protezione io fossi arrivato in questo luogo.
Il suo nome indiano, comunque, è Guana-hanyx.
Questo testo, estrapolato da un breve report inviato ai sovrani di Spagna da Colombo in persona a seguito del suo primo viaggio in America nel 1492 e intitolato Le isole dell’India oltre il Gange, non è solo uno dei più grandi abbagli presi dall’uomo nella sua storia (visto che, di fatto, non erano isole indiane quelle terre, ma un intero nuovo continente) ma segna anche l’inizio di una nuova epoca geografica, culturale e, naturalmente, politica.
La scoperta di così vasti e distanti territori, infatti, mette alla prova (primi tra tutti) i sovrani iberici che, alla stregua dei portoghesi (vedi l’articolo Esplorazioni Portoghesi 1415-1446) , cercavano unicamente una via alternativa per raggiungere i ricchi mercati di spezie orientali.
La questione dell’appropriazione di queste terre, abitate peraltro da regni e imperi plurisecolari, arriva come un fulmine a ciel sereno e spiazza completamente i metodi di gestione del territorio che erano stati in uso in Europa sino ad allora.
La spinta espansionistica degli Inca era partita dalla città-stato di Cuzco nel 1438 sotto Sapa Inca. Al culmine del sua espansione, l’Impero Inca si estendeva dal confine meridionale dell’odierno Cile fino al Perù, all’Ecuador e a parte della Colombia (verso l’interno, arrivava a comprendere la porzione nord-occidentale dell’Argentina e quella occidentale della Bolivia). Francisco Pizarro entrò in territorio inca nel 1526 e lo conquistò in una decina d’anni (prendendo come riferimento il fallito assedio di Cuzco del 1537). Il Vicereame del Perù fu istituito nel 1542, ma ebbe una sua struttura solo nel 1572 sotto il primo vicerè Francisco de Toledo, che nello stesso anno distrusse anche le ultime vestigia del neo-impero inca. (Sull’argomento, vedi anche Pizarro e Atahualpa: la Fine dell’Impero Inca) |
Il modello principale di regolazione tra monarchia ispanica (che non ha assolutamente intenzione di cedere la totale giurisdizione sulle nuove terre ai conquistadores) e avventurieri che salpano per il Nuovo Mondo (che a loro volta cercano il massimo del profitto da tale impresa) diviene ben presto quello delle Capitulaciones, accordo che prevede vari titoli onorifici al conquistador e la decima parte di tutti i profitti ottenuti dalla terra colonizzata.
È importante notare come in questa fase le capitulaciones svolgano un ruolo chiave nei rapporti tra sovrano e piccola nobiltà specialmente dopo il 1492, ovvero quando viene a mancare la valvola di sfogo che aveva caratterizzato da secoli la penisola iberica: la Reconquista.
Se precedentemente i rapporti tra piccola nobiltà guerriera e monarchia spagnola erano stati regolati e continuamente rinegoziati in funzione della lotta agli arabi stanziati a sud della penisola iberica (non a caso infatti le Capitulaciones de Santa Fe, stipulate tra Isabella di Castiglia e Cristoforo Colombo prima della sua partenza,vengono firmate proprio nell’accampamento spagnolo durante l’Assedio di Granada); ora tali tensioni interne provocano da un lato un desiderio di ricomposizione razionale dei sovrani, dall’altro una volontà di ascesa sociale degli hidalgos, i figli cadetti dell’aristocrazia iberica che possono affidarsi unicamente all’uso della spada per accrescere la loro posizione sociale.
Testo originale delle Capitulaciones
Nel complesso dunque cos’è la scoperta dell’America per i delicati equilibri della penisola?
Per quanto sarebbe preferibile, credo non si possa dare una risposta univoca. Da un lato i sovrani si rendono conto dell’immenso potenziale di queste nuove terre e tentano quindi (con successo) di farle rientrare dentro i possedimenti effettivi della corona, in quel processo conosciuto in tutta Europa di costituzione di Stati moderni che avrebbe portato al superamento del modello feudale; dall’altro però la vastità e la distanza del territorio, uniti alle ristrette finanze disponibili in quel momento, impone prudenza al sovrani Cattolicissimi, i quali sfruttano a questo punto l’irrequietezza sociale degli hidalgos, orfani di una battaglia nella quale combattere per “ir a valer màs”.
Lungi dall’essere burattini nelle mani dei propri sovrani però, anche i futuri conquistadores sono attori attivi del loro tempo e la rivolta dei fondachi che si trova a fronteggiare Cristoforo Colombo durante il suo terzo viaggio ne è la prova lampante.
La rivolta dei fondachi è un episodio chiave che darà inizio a quella colonizzazione per gemmazione (M. Carmagnani, L’altro Occidente. L’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, 2003) che caratterizzerà tutto il primo periodo coloniale, quello dominato dalla dinastia Asburgo.
Nel primo accordo con la monarchia spagnola, Colombo aveva infatti ottenuto il completo monopolio di ogni attività commerciale che si sarebbe intrapresa sull’isola.
Al terzo viaggio, complici la distanza con la madrepatria, la scarsa leadership esercitata dal navigatore genovese ma, soprattutto, l’intraprendenza degli uomini al suo seguito, un ammutinamento porta alla sua incarcerazione e all’emendamento di alcune clausole delle Capitulaciones de Santa Fe che sanziona la revoca del monopolio colombino.
A questo punto inizia quella che Carmagnani ha definito, con un’immagine molto evocativa, colonizzazione per gemmazione; d’ora in avanti qualsiasi conquistador avrebbe potuto negoziare personalmente con la monarchia spagnola ottenendo i diritti sopracitati.
Le missioni dunque si moltiplicano e la corona spagnola, al prezzo della cessione della riscossione del tributo ai conquistadores, guadagna moltissimi territori in pochi decenni, come dimostra la fondazione delle principali audiencias spagnole (assimilabili a province) in suolo americano: San Domingo (1511), Messico (1527), Panama (1538), Guatemala (1543), Lima (1543), Santa Fé de Bogotá (1548), Guadalajara (1548), La Plata de los Charcas (1559) e Quito (1563) (vedi N. Watchel, La visione dei vinti. Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola, 1977)
Ma, ora che abbiamo parlato della situazione globale, torniamo allo specifico: la dinastia regnante spagnola, i Trastamara.
Il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona, che sarà al contempo l’atto di unificazione delle corone di Castiglia e Aragona, non dà un erede maschio, pertanto attraverso la figlia Giovanna (detta “la Pazza”) che sposerà Filippo il bello, figlio dell’imperatore asburgico Massimiliano I, il potere arriverà al figlio di questi ultimi: Carlo V.
Incoronato Rey de las Españas y de Indias nel 1516, è lui a dover gestire la questione coloniale mentre muove i suoi primi passi e va sicuramente menzionato anche all’interno della diatriba in merito alla natura degli indigeni scaturita proprio durante il suo regno (Gli Indios: Uomini o Animali?).
Carlo V (e tutti gli Asburgo dopo di lui) sceglie una politica di potere decentrato e divide i possedimenti americani in due grandi vicereami: quello di Nueva España, che sorge sul territorio del vecchio impero azteco e quello del Perù, comprendente i territori dell’impero incaico.
L’Impero azteco cadde nelle mani degli spagnoli qualche anno prima di quello incaico. L’espansionismo degli aztechi era esploso nel XV secolo e li aveva portati ad occupare buona parte dell’America Centrale, ma nel 1519 era apparso nel loro territorio uno straniero coperto d’acciaio, Hernàn Cortès, con circa 500 uomini e 13 cavalli al seguito. Nel 1521, non c’era più nessun Impero Azteco. |
Il potere da parte dei conquistadores è mantenuto attraverso un fragile equilibro tra nuovo sistema di potere europeo, incarnato dai cabildos, città fondate da coloni spagnoli e dotate di alcune autonomie, e l’antica tradizione azteca/maya e inca, basata su una gerarchia piramidale formata da capi etnici genericamente chiamati cacicchi che costituiscono l’elemento di raccordo tra l’enorme popolazione indigena e i nuovi governanti spagnoli.
Tale sistema è quello più congeniale sia per i conquistadores, che hanno in questo modo ampio spazio di manovra e il monopolio degli incarichi amministrativi e giudiziari locali, sia per gli indigeni, visto che resta quasi intatta l’intera struttura gerarchica che aveva guidato i rispettivi popoli da secoli, sia per il sovrano che, lungi da ogni idea di assolutismo, ha la necessità di appoggiarsi a dei “privati” per portare avanti l’impresa americana.
Ma le caratteristiche stesse di Carlo V sembrano riassumere le modalità da lui utilizzate per gestire il potere regio: cresciuto nelle Fiandre egli è, dopo il 1530, contemporaneamente Re di Spagna, Re di Sicilia, Re di Sardegna (come Carlo I), Imperatore del Sacro Romano Impero (come Carlo V), Re di Napoli (come Carlo IV) e Duca di Borgogna (come Carlo II).
Egli quindi, molto più che essere il re di una nazione è il re di varie nazioni alle quali riconosce differenze, storie e metodi di gestione dell’autorità differenti.
In un impero così marcatamente multiculturale, pensare di regnare attraverso leggi generali e un forte impianto centralista è semplicemente impossibile.
Il potere di Carlo sui suoi sudditi, come sarà per suo figlio Filippo II e per tutti i successivi sovrani asburgici, è fondato su un patto di mutuo appoggio: il sovrano, riconoscendo alle elitès locali un ruolo fondamentale nella gestione di così vasti e diversi territori, garantisce il completo adempimento dei suoi doveri di regnante cristiano, ottenedendo in cambio la collaborazione e la fedeltà da parte dei notabili.
Incoronato a deo per populum, il sovrano asburgico esercita la sua attività legislativa e fiscale negoziandola continuamente con le elitès locali che, essendo partecipi delle decisione regie, saranno inclini a rispettarle ma, soprattutto, a farle rispettare.
In un mondo sprovvisto di efficaci mezzi di trasporto e comunicazione, il patto tra sovrano e notabili locali è l’unica strada percorribile per garantire l’autorità del re.
Se possiamo dire che questo sistema resta in piedi per tutti i successivi sovrani asburgici (con un innegabile successo pratico, vista la quasi totale assenza di rivolte coloniali fino a quella di Tupac Amaru II che, per l’appunto, avviene in pieno periodo borbonico), non si può non notare una marcata inversione di tendenza con l’avvento della nuova dinastia sul trono spagnolo nel 1713.
Dopo la dipartita dell’ultimo sovrano asburgico Carlo II (morto nel 1700) e la guerra di successione che sconvolgerà l’Europa dal 1700 al 1713-14, si instaura in Spagna la dinastia dei Borbone che porta in dote al paese un’idea e un’ esperienza del potere totalmente agli antipodi da quanto era stato attuato in passato.
Il punto focale in questo periodo (perché anche la narrazione storica ha bisogno di alcuni capisaldi) sono le leggi emanate da Carlo III a partire dagli anni ’70 del XVIII sec.
Tra le principali:
- Riforme contro i privilegi della Chiesa (tra le quali l’espulsione della Compagnia di Gesù da ogni parte dell’impero.
- Riforma dell’esercito, che d’ora in avanti sarà composto attraverso coscrizione obbligatoria e non più da manipoli di professionisti armati dall’alta aristocrazia.
- Riforme contro i privilegi politici dell’aristocrazia, attraverso la creazione delle secreteriasche vanno a scalzare i vecchi consigli nobiliari.
- Creazione di intendentes, una sorta di prefetti imperiali stipendiati dal sovrano con funzione di controllo nelle aree periferiche dell’impero (specialmente in area americana).
- Riforme economiche di stampo fisiocratico e liberista.
Le riforme, prese nella loro totalità, rientrano chiaramente nella cornice assolutistica che i Borbone di Francia avevano iniziato a curare sin da Luigi XIV, tutt’ora celebre per la frase “L’état, c’est moi”, lo Stato, sono io.
L’Europa all’inizio del 1700 (fonte: wikipedia)
Le riforme borboniche sono dunque volte a rendere la Spagna un paese moderno (bisogna ricordare che nell’Europa del XVIII sec. la modernità coincideva con l’assolutismo), burocraticamente solido e unificato sotto un’unica legge generale, quella del sovrano che siede sul trono di Madrid.
Il piano, di per sé encomiabile, intopperà non poche volte: i creoli di Spagna, che fino ad ora avevano goduto di ampia autonomia e avevano goduto della connivenza del sovrano nella gestione del potere, si vedono improvvisamente estromessi e sono sul piede di guerra (non a caso l’indipendenza arriverà qualche decennio dopo); lo scoppio della rivoluzione nella vicina Francia nel 1789 e le successive imprese napoleoniche, che interesseranno direttamente la penisola iberica nel 1807-1808, non fanno che aggravare il precario assetto assolutista, mentre l’abdicazione di Bayona e la scomposizione del potere nelle giunte dà definitivamente il colpo di grazia all’esperimento spagnolo e, più in generale, all’intero impero coloniale.
Si può dunque dire che l’intera operazione promossa in prima battuta da Carlo III fallì per motivi unicamente estrinseci?
Credo di no, e anzi ritengo che il piano di riforme naufragò soprattutto per motivi intrinseci: semplicemente la Spagna era in una fase troppo arretrata della sua storia per potere compiere un passo così gravido di conseguenze senza strappi dolorosi. E quando dico che “la Spagna” non era pronta, mi riferisco ad ogni aspetto del paese: uomini politici, economia e, non ultima, mentalità.
L’idea economica fisiocratica, che andava di moda presso i circoli economici spagnoli dell’ultimo quarto del XVIII sec., si fondava sulla forte convinzione che il settore da incentivare e potenziare fosse fondamentalmente quello agricolo; tale teoria, che alle porte della rivoluzione industriale era ormai stata abbandonata dalle principali potenze europee creò una paradossale situazione secondo cui non vi era uno spazio metropolitano con un’incipiente industrializzazione che sfruttasse le colonie per le materie prima ma “a colonial economy dependent upon an underdeveloped metropolis.” (J. Lynch, The Cambridge History of Latin America Vol. 3, 2008)
Ma se la teoria economica adottata era, ormai possiamo dirlo, totalmente errata per il periodo storico, anche gli uomini politici non erano di meno.
Citiamo l’esperimento di Cadice.
Dopo le abdicazioni di Bayona (1808), gli spagnoli che resistono all’occupazione napoleonica e al nuovo sovrano Giuseppe Bonaparte, si organizzano in un “Junta general extraordinaria” che avrebbe dovuto mantenere intatto il potere fino al ritorno di Ferdinando VII (che sarà soprannominato in questo periodo “el deseado“, il desiderato).
Di fatto però, la litigiosità interna alla Junta e le tensioni proveninti dagli altalenanti scontri con le forze di occupazione napoleoniche portano a una scomposizione estrema del potere con un proliferare di Juntas regionali in Spagna, America e Filippine.
Inutile dire che il potere non verrà mai più ricompattato nella sua interezza visto che al ritorno de “el deseado” nel 1814, le Juntas di Rio de la Plata (Argentina) e di Caracas avevano già intrapreso la strada insurrezionalista per l’indipendenza.