Il mostro nel labirinto

Articolo di Piervittorio Formichetti, tratto da Antarès.


In un’epoca in cui i grandi archetipi umani, veicolati per secoli dalla mi­tologia, dalla letteratura e dalle arti visive, rischiano di essere oscurati dagli antiarchetipi imposti dai mass media e da chi li controlla, parlare di Jorge Luis Borges significa evocare un profondo co­noscitore e utilizzatore di simboli. Nelle sue raccolte più conosciute – Finzioni L’Aleph – ricorrono più volte due strutture simboliche, entrambe imitazioni umane della Struttura per eccellenza – il Mondo, l’Universo – e due archetipi estremamente significativi: il Labirinto e la Biblioteca.

I personaggi de Il giardino dei sentieri che si biforcano, ad esempio, cercando di comprendere che tipo di labirinto sia quello progettato dal cinese Ts’ui Pên, scoprono che esso non è un edificio, ma un enorme romanzo, intitolato come il racconto che ne parla e formato da un’immensa quantità di «manoscritti caotici» con una «trama di tempi che si accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, che comprende tutte le possibilità»(1). Il labirinto di Ts’ui Pên coincide, dunque, con le innumere­voli possibilità dello svolgimento di un singolo testo.

Ne La Biblioteca di Babele, invece, il labirinto coincide con un’immensa e incalcolabile moltiplicazione di testi, è l’intero universo dei testi edificabili con i caratteri alfabetici occidentali, co­sicché Labirinto e Biblioteca si fondono e rispecchiano simultaneamente l’uni­verso e l’insieme di tutte le sue interpretazioni da parte della mente umana. La legge fondamentale di questo smisurato microcosmo è che «tutti i libri, per di­versi che fossero, constavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Inoltre […] non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici»; essa è perciò «totale, e i suoi scaffali registrano tutte le possibi­li combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissi­mo, non infinito), cioè tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue. […] Tutto: il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi ca­taloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo autentico […], la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpo­lazioni di ogni libro in tutti i libri». Di conseguenza, «per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe d’insensate cacofonie, farragini verbali e incoerenze. […] Ogni esemplare è unico, insostituibile, ma (poiché la Biblioteca è totale) restano sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, ope­re che non differiscono se non per una lettera o una virgola».

Borges, d’altra parte, appare a sua vol­ta una figura archetipica: il Poeta cieco, affine all’Indovino e al Profeta, che non può vedere la realtà con gli occhi del corpo ma è dotato di un’altra “vista”: quella metafisica. Ciò richiama la figura mitologica di Tiresia, cieco ma capace di prevedere il destino di Ulisse, e quella di due suoi “colleghi” più antichi, anch’essi menomati nella vista ma non nell’imma­ginazione creatrice: Omero e Milton. Il primo, aedo dei secoli avanti Cristo, con l’Odissea narrava l’avventura affrontata da un re pagano, virtuoso ma estrema­mente scaltro, nel ritornare alla propria patria; John Milton, poeta cristiano, quasi due millenni dopo ma rimanendo sul medesimo modello epico, nel Para­diso perduto raccontava l’antefatto e la cacciata della prima Coppia umana dal­la patria primordiale (l’Eden). Ulisse, Adamo ed Eva sono esuli e sperano nella fine del loro esilio: il primo, pagano, am­bisce al ritorno alle origini, al passato; i secondi – e, con loro, l’umanità giudai­co-cristiana – anelano alla meta, la Città celeste in cui saranno ripristinate la gioia e l’immortalità perdute al principio(2). È comunque un anelito a un compimen­to della propria persona, che può essere sentito quando si ha memoria delle origi­ni, delle “radici”, della propria natura e, quindi, coscienza della propria funzione (destinazione).

Tutti e tre rappresentano un tipo uma­no totalmente opposto a quello occidentale postmoderno, delocalizzato, svuota­to di significato e depersonalizzato. Un orfano metafisico psicologico, giacché «Dio è morto» (Nietzsche), «la Madre è la dimensione della fiducia, della conti­nuità e della stabilità», e il Padre è «la di­mensione dell’avvenire, della speranza, del possibile»(3), ma di queste dimensioni, oggi, rischiano di sopravvivere soltanto lacerti galleggianti nella «modernità li­quida» (Bauman). Un esule esistenziale e un apolide funzionale, senza che si avveda di esserlo, essendo anzi indotto a credere che quest’amnesia di patria (valoriale e culturale più che meramente geografica), famiglia e religione coincida con un’e­mancipazione individuale assoluta.

Nel terrore di essere recluso in un la­birinto etico o filosofico, l’occidentale contemporaneo rifiuta come una gabbia liberticida qualsiasi struttura di pensiero o interpretazione del mondo. È forse soprattutto per questo che alla maggior parte dei contemporanei il labirinto evo­ca perlopiù l’incubo di una strada senza uscita, che ricorda il mito del Minotauro e del filo di Arianna, e solo a una mino­ranza rammenta i significati esistenziali e iniziatici impliciti nella sua figura(4). Del labirinto, insomma, sembra ci si ricordi solo il mostro che potrebbe celarsi al suo centro.

E così si può tornare alla letteratura contemporanea. Una nuova unione dei due archetipi borgesiani – il Labirinto/ Spazio, struttura geometrica, e la Biblioteca/Tempo, deposito di memorie e vei­colo di conoscenza – appare ne Il nome della rosa di Umberto Eco. Se nel mito greco il labirinto costruito da Dedalo rinchiude un mostro fisico, quello della biblioteca dell’abbazia ne cela uno mora­le: il monaco Jorge da Burgos, condotto dal fanatismo religioso all’omicidio e al suicidio. Questo personaggio assomiglia volutamente a Borges – ma anche al mo­naco “gotico” Desertus del romanzo Me­tropolis di Thea von Harbou (1912), an­ch’esso apocalittico, da cui sarà tratto il più celebre film di suo marito Fritz Lang (1926)(5) – in modo allo stesso tempo im­ponente e caricaturale: i due hanno un nome simile, la medesima lingua madre e, pur essendo ciechi, restano padroni in­contrastati del Labirinto (e) della Biblio­teca, luoghi materiali ed enti culturali e simbolici fondamentali.

«Mostro deriva da mostrare. Il mostro è ciò che si indica col dito […]. Più un essere è mostruoso, più dev’essere mostrato.»(6) In questo senso, anche Borges, come il Minotauro, è tale; un mostro sacro della letteratura, nonché una creatura anoma­la ed estranea all’ambiente che occupa(7), anche in rapporto agli altri esseri viventi, i quali appartengono tutti a una determi­nata specie, mentre il Mostro a nessuna in particolare: anzi, sovente è un ibrido tra due, tre o più. E Borges era un incro­cio, un ibrido fecondissimo da un punto di vista letterario, a metà strada tra il Po­eta e il Filologo, l’Erudito e l’Esoterista.

Ma, allora, rispetto al mostro “tradi­zionale” (che è un archetipo, sebbene negativo), l’uomo postmoderno è “diver­samente mostruoso”, poiché è reso tale non dalla propria anomala e irriducibile singolarità – essendo sempre più simi­le a ognuno dei suoi pari – e nemmeno dall’essere imprigionato per mano altrui in una struttura microcosmica, bensì dall’essersi autorecluso in uno dei molti non-luoghi (secondo la celebre definizio­ne di Marc Augé) che caratterizzano la nostra società, estranei all’intenzione di rappresentare in piccolo il Mondo o uno dei suoi luoghi archetipici naturali (la Fo­resta, la Montagna, la Caverna, il Lago, l’Isola…). E, rispecchiandosi in luoghi che non richiamano nulla di archetipi­co o cosmico, egli stesso risulta quasi del tutto disordinato. Per quanto complica­to, infatti, il Labirinto resta una struttu­ra che implica un ordine (kosmos) e una precisa, anche se sconosciuta, serie di direzioni da seguire, nonché l’adesione mentale all’oggettività (geometrica, in questo caso) da parte di chi lo progetta. L’occidentale postmoderno, invece, suc­cube dell’emozione superficiale soggettiva e del desiderio di liberarsi di qualsiasi struttura capace di ricordare che la liber­tà è intrinsecamente limitata, si è libera­to dall’angustia dei corridoi dei labirinti ideologici, ma poi, rigettando ogni cor­ridoio in quanto tale, si è disperso in un nuovo labirinto, «dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vie­tano il passo» (I due re e i due labirinti). Qui è estremamente facile restare fermi per mancanza di punti di riferimento, in un vuoto perpetuo di significati duraturi che proprio per questo può riempirsi di molti più “mostri” di quanti ne contenga il centro del Labirinto “classico”.

Note

  1. Tutte le citazioni di Borges sono tratte da Finzioni (Einaudi, Torino 1958) e L’Ale­ph (Adelphi, Milano 1998).
  2. Si vedano, a questo proposito, i capitoli finali dell’Apocalisse di Giovanni.
  3. Rocco Quaglia, Psicotheosi: Edipo o Adamo, Tirrenia Stampatori, Torino 1994, p. 20.
  4. Cfr. Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo, Frassinelli, s. l. 1984.
  5. Cfr. Piervittorio Formichetti, Metropo­lis: un secolo dopo il futuro?, in «Conexión – Mensile della Convergenza delle cultu­re», n. 47, marzo 2013; Manrico Luzzani, Fritz Lang e la profezia di Metropolis, in «Antarés – Prospettive antimoderne», n. 2, 2012.
  6. Cit. in Corrado Bologna, L’ordine delle stupefazioni, in Liber monstrorum de diver­sis generibus. Libro delle mirabili difformi­tà, Bompiani, Milano 1977, p. 7.
  7. Sull’umorismo di Dio, che lo aveva reso insieme cieco e responsabile di una miriade di libri, Borges stesso aveva scritto – con iro­nia, appunto, mostruosa – nella sua Poesia dei doni, contenuta nella raccolta L’artefice (1960).

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