Per la rubrica de I racconti di Satampra Zeiros, abbiamo il piacere di ospitare Fabrizio Fangareggi, il quale ci propone La lama nella roccia, racconto fantasy di circa 25.000 battute spazi inclusi.
Buona lettura.
Autore
Nato a Modena, dove è cresciuto e attualmente vive insieme alla moglie Elena, lavora per vivere e scrive per necessità sin dall’età della ragione.
Il suo primo romanzo “Ekhelon – Frammenti di Guerre Dimenticate” è pubblicato per il marchio editoriale Nocturna della GDS Edizioni e si è aggiudicato il primo posto al Premio Letterario Nazionale Cittadella 2014.
Ha pubblicato racconti con Delos Book nelle raccolte “365 racconti sulla fine del mondo” e “365 racconti di Natale” e con la casa editrice Damster Edizoni nelle antologie “Soglie”, “Giallo Modena” e “Romanza Noir”. “Quel che resta di niente” è stato pubblicato da Wizards & Blackholes.
Nel 2016 esce per David and Matthaus il romanzo “Il confine del buio”, scritto a quattro mani con l’amico e collega Pierluigi Fabbri, finalista al premio letterario “un libro per il cinema” edizione 2016.
La lama nella roccia
di Fabrizio Fangareggi
L’aria stantia della locanda era impregnata dell’inconfondibile afrore della dissolutezza.
La sala centrale brulicava della disinibita e variopinta feccia di Tradestoke, la città mercato, dove la locanda dei Due Teschi offriva servizi di dubbia moralità e pessima birra al malto. Un luogo di traffici illeciti e incontri clandestini, ideale per gli ospiti dallo stomaco robusto o per gli abitanti poco inclini alla raffinata vita della Cittadella.
La densa coltre di fumo, frutto del tabacco nero, creava una foschia dolciastra, amalgamandosi al naturale lezzo di umanità e alle fragranze stordenti delle prostitute sparse tra la folla rumorosa. Forse erano tutti questi odori insieme a creare quella particolare miscela di malsana ospitalità.
Una rassicurante familiarità per alcuni, come Elgorad, che se ne stava seduto in disparte avvolto in un tabarro grigio, il cappuccio tirato sul volto.
Meglio non mettersi in mostra: elfo tra gli umani.
Rivelare la sua razza diventava spesso una complicazione. Quelli della sua stirpe se ne stavano a Bosco Luce o sulle Navi Eteree, lontani dalle città degli uomini. Allo stesso tempo non mancavano i vantaggi: era in grado di identificare fonti di magia, vedere al buio e individuare porte segrete. Non poco per la professione che si era scelto.
“Se ti siedi devi ordinare qualcosa” sputò l’oste insieme a un grumo di saliva giallastro. Era un uomo piccolo e magro, con la testa calva e occhi sfuggenti.
“Non sono sicuro che la qualità dei servizi valga un penny d’argento” fece notare Elgorad con un sogghigno, guardandosi intorno.
“A Tradestoke ci sono altre locande” rispose l’oste, sventolandogli in faccia uno straccio sporco di cibo, umori e polvere. Lo utilizzò per dare una pulita al tavolaccio e strofinò per bene la conca nella quale venivano servite le vivande. “Per un mezzo penny abbiamo la zuppa di fagioli” rimarcò con orgoglio.
“Non avete scodelle in questa locanda?” chiese l’elfo, tenendo lo sguardo basso.
“Se vuoi mangiare in piatti e con vassoi d’argento c’è sempre la Cittadella” grugnì l’oste irritato. “Ma ti costerà un anno di servigi dai Maghi Blu”. Rise, agitando le spalle, e nel sobbalzo fece tintinnare alcune monete che teneva nella tasca del grembiule.
“E per un buon bicchiere di vino?”.
“Rosso della Valle o bianco delle Colline?”.
“Cosa sta bevendo quel signore là?” chiese Elgorad indicando un avventore dietro all’uomo. L’oste si girò sbuffando. Quando riportò lo sguardo sul cliente, l’elfo teneva un penny d’argento tra due dita. Appena sfilato al suo interlocutore. “Fa niente” riprese il ladro, “Una bottiglia di Rosso della Valle può andare bene” ridacchiò posando la moneta sul tavolo.
Appena l’oste se ne andò, un uomo alto e corpulento, con capelli e barba tanto folti e arruffati da sembrare un orso, si sedette di fronte a lui. Indossava una pelliccia sopra gli abiti laceri e puzzava parecchio. Sventolò davanti all’elfo una piccola balestra, carica, che poi portò sotto al tavolo. “Non cledevi di livedelmi, Val?” biascicò con una pronuncia blesa. Aveva la bocca piegata di lato, il labbro spaccato e diversi denti mancanti.
“Sully” sorrise Elgorad, senza scomporsi. “Maneggi un’arma un po’ piccola per la tua mole. Mi chiedo se rispecchi le misure di tutti i tuoi giocattoli”.
“Che cosa vollesti dire?”. L’omone rimase a fissarlo con occhi vacui. “Oh, non cadlò vittima delle tue plovocazioni. Sai, non ti ho ancola ucciso solo pelché mi devi dei soldi. Palecchi soldi”.
“Ricordami la questione”.
“Blutto figlio di una cagna landagia!” imprecò Sully agitandosi sulla sedia e facendo traballare il tavolo. Faceva fatica a stare seduto: il grasso e la pelliccia uscivano dai braccioli e a gambe larghe avvolgeva quelle del tavolo. La sedia scricchiolò sotto il suo peso.
“Eli davanti al Monile d’olo di quei selvaggi Sclaw e ci hai detto che ela tutto a posto!” riprese l’omone. “Hai detto che non c’elano tlappole e io e la Velgine siamo venuti avanti, verso di te…”.
“Non era affatto vergine” lo interruppe Elgorad. Rimase a fissare lo sguardo attonito di Sully per un istante e continuò: “Giusto perché tu lo sappia, la chiamavano la Vergine ma ti assicuro che quando me lo sono fatta la sera prima, non era la sua prima cavalcata”.
Gli occhi dell’omone divennero umidi. “Siamo caduti in quella fossa. Lei è limasta infilzata da un palo”.
“Proprio quello che ti stavo raccontando”.
“Smettila, Val. È molta!” sbraitò Sully, commosso. “E anch’io sono limasto infilzato!”. Il chiasso di grida e risate nella locanda sovrastava il suo vocione. “Un palo appuntito in una gamba e uno in faccia. Gualda!”. Indicò la bocca menomata.
“Ah” sospirò il ladro, “ora capisco. Ecco perché non mi ricordavo che parlassi così da fesso”.
“Bastaldo!”.
“Ehi, non l’avevo vista” disse Elgorad allargando le braccia. “La fossa. Che cosa ti devo dire? Ho avuto fortuna e voi sfortuna. Sono cose che capitano. E poi, scusa, come hai fatto a uscirne?”.
“Non glazie a te, maledetto! Ci hai lasciato lì a molile”.
“Già, ma gli Scraw non sono cannibali?”.
“Infatti, hanno mangiato la Velgine! Ma io sono liuscito a scappale. Adesso basta con le ciance, Val, dov’è il Monile d’olo”.
“Sono curioso” disse il ladro, pensieroso. “Sai, non credo che tu sia riuscito a scappare. Dimmi come hai fatto a trovarmi?”.
“Forse non sei l’unico fulbo in cilcolazione”. Nel dirlo mosse una mano sotto al collo.
Quando la ritrasse Elgorad scorse un luccichio, una scheggia di amuleto che brillava tra i folti peli. “Quello mi sembra della stessa fattura del Monile. Forse è un incastro dello stesso gioiello…”.
“Smettila e dammelo!”.
“Ah, perfetto, quindi riesci a sentire il Monile tramite la parte mancante”.
Molto interessante.
In quel momento tornò l’oste e sbatté un bicchiere sul tavolo. Da una caraffa svuotò un liquido vermiglio e schiumoso, sbrodolando tutto intorno. Grugnì e andò a servire un altro cliente.
“Alla tua salute” disse il ladro afferrando il bicchiere. Scattò in piedi e lo rovesciò sul volto e il petto dell’omone. Anche la balestra scattò ma il dardo passò tra le gambe dell’elfo e si conficcò nella parete dietro di lui. Quando Sully cercò di alzarsi, si ritrovò incastrato nella sedia. Iniziò a divincolarsi, la mano con la balestra bloccata sotto il tavolo, le gambe che agitandosi lo fecero vacillare. Poi diede un forte strattone per liberarsi e la sedia si spaccò. Finì col sedere per terra e il tavolo gli venne dietro, spezzato.
Elgorad era già sparito. Osservò la scena da dietro una colonna della locanda, coperto da un paio di uomini ubriachi che palpavano prostitute procaci e non più giovani. Vide Sully tirarsi in piedi e scrutare tra la folla, infuriato. L’omone prese la scheggia tra le dita grassocce ma, evidentemente, non captò nulla e così fece quello che l’elfo si aspettava: convinto che il vecchio compare avesse colto l’occasione per fuggire uscì sbuffando dalla locanda per inseguirlo.
Elgorad represse una risata. Sully non era di certo il più furbo tra i briganti e presto la scheggia dell’amuleto avrebbe ripreso a funzionare: i liquidi potevano al massimo confonderla per pochi minuti. Conosceva bene la magia Scraw. E si disse che forse avrebbe potuto sfruttare Sully a suo vantaggio. Ma doveva stare attento. E doveva agire in fretta.
“Due paladini dall’ovest!” gridò un ragazzo che si fiondò all’interno dei Due Teschi come una furia. “Due Pretendenti al trono!”.
La maggior parte degli avventori si azzittì e rimase a fissare il ragazzo che continuava a urlare: “Due paladini dall’ovest. Due Pretendenti per la lama nella roccia”. Dopo aver girato intorno ad alcuni tavoli tornò a correre fuori, sbraitando.
All’esterno, il Lungo Corno echeggiò due volte, suoni lunghi e cupi. Dalla Cittadella il richiamo si propagò per tutta la città mercato e presto la gente iniziò a sciamare per le strade, fuori dai negozi, dai laboratori, dalle case e dalle locande. Quando c’erano dei Pretendenti, la Cittadella apriva i battenti al popolo e per due giorni e due notti sarebbero stati serviti banchetti con prelibatezze e la birra sarebbe scorsa a fiumi. Nessuno avrebbe rinunciato a godere della generosità dei Maghi Blu, depositari del Testamento lasciato da Re Uldred. Elgorad aveva studiato a lungo le leggende che lo riguardavano. Re Uldred aveva sconfitto i giganti delle Colline a nord, i goblin della Valle a est e stretto alleanza con i Regni a Sud. Aveva creato una città-stato, la Cittadella: una gemma incastonata nel continente. I Maghi Blu erano giunti e l’avevano resa ancora più prospera e rispettata. Ma Uldred era morto senza eredi e la sposa era deceduta nell’ultimo tentativo di consacrare il suo lignaggio alla storia. Così il re aveva lasciato il Testamento: chiunque fosse riuscito ad estrarre la lama dalla roccia sarebbe divenuto il nuovo re della Cittadella. I Maghi Blu garantivano da oltre un secolo la sicurezza della città-stato e ne erano diventati, indirettamente, i legittimi sovrani. Negli anni successivi era nata Tradestoke, la città mercato: un coacervo di genti e opportunità, dove tutti i minatori e i contadini dell’ovest giungevano a spendere i loro guadagni o a cercare fortuna.
Chiunque poteva tentare la sorte e cercare di estrarre la lama, ma solo i paladini, stirpe di Uldred, erano considerati Pretendenti. Gli unici considerati degni. Anche se le malelingue asserivano che i Maghi Blu non avessero alcun desiderio di rinunciare al loro potere e che avessero stregato la lama affinché nessuno potesse estrarla. Non che fosse facile. La lama, nera come la notte e affilata come un rasoio, era anche senza elsa. Chi voleva tentare di estrarla poteva farlo a suo rischio e pericolo, e non c’erano guanti d’arme o protezioni magiche che servissero. Il filo era in grado di tagliare i materiali più resistenti. La spada era stata forgiata dalla lacrima del Dio Abissale, il Senza Nome. Racchiudeva un potere malvagio, ma se brandita da un uomo con un cuore giusto e puro, poteva essere domata e usata per fare del bene. E così era stato quando il paladino Uldred aveva impugnato Rasoio Nero per liberare i territori dal male e fondare la Cittadella.
E non era un caso che Elgorad si trovasse proprio lì. Anche quella volta aveva concepito un piano. Era raro che non ne avesse uno, anche se poi spesso non andavano in porto o subivano intoppi imprevisti. Alla fine si trovava costretto a cavarsela grazie a intuito e improvvisazione.
La Sfortuna della strega, rimuginò ricordando quando da ragazzo era fuggito da Bosco Luce.
Man mano che la locanda si svuotava, individuò l’uomo che doveva incontrare. Si scambiarono un cenno d’intesa nella lingua invisibile dei ladri e lo seguì dietro al bancone.
Schivò all’ultimo istante un boccale che, volando a quattro piedi dal suolo, finì frantumato sulla parete alle sue spalle. Seguito da un’imprecazione: “Maledetta lama nella roccia!”. A gridare un ubriaco senza alcune dita. Non gli prestò attenzione e raggiunse il contatto sul retro.
Oltrepassò la cucina, lasciandosi alle spalle i motteggi della poca clientela rimasta.
L’uomo indossava un mantello nero e lo precedeva a passo svelto. Curvò dietro un angolo, gettando prima gli occhi alle spalle per assicurarsi che il suo compratore lo stesse seguendo.
Svoltato l’angolo, l’elfo s’immise in un lungo corridoio dalle luci soffuse. Le ombre danzavano nel baluginio delle torce, ma lui non temeva le tenebre, anzi. Presto si rese conto che i locali attigui alla locanda dovevano comunicare con un altro caseggiato attraverso quello stretto corridoio.
Il pavimento divenne improvvisamente scosceso per poi cadere in un dislivello di alcuni piedi. Una passerella scricchiolante lo guidò verso i sotterranei.
L’uomo dal mantello nero si fermò guardingo a scrutare nella penombra e poi gli fece cenno di seguirlo. Toccò un mattone scheggiato e una porta segreta si aprì sulla parete umida.
Elgorad lo seguì all’interno con passo morbido e silenzioso.
La stanza era piccola, con un solo tavolo al centro e angoli bui. E grazie alla sua vista l’elfo individuò un omino piccolo quasi quanto uno gnomo, rannicchiato nell’angolo a nord.
Non amava le sorprese se non era lui a farle.
Rapido e letale come un serpente, Elgorad estrasse un pugnale e lo tirò contro la spia. Lo centrò in pieno e questo emise un gridolino. Tenendosi la faccia cadde fuori dal suo nascondiglio.
Un Topo della gilda in osservazione.
“Che cosa accidente succede?” sbottò sorpreso il contatto.
“Nervoso?” chiese Elgorad da sotto il cappuccio.
“Certo che sono nervoso” ribatté l’uomo. “Sto vendendo i segreti della Gilda!”.
“E forse qualcuno sospetta di te” lo interruppe l’elfo indicando il Topo gorgogliante. Non era ancora morto. “Oppure fai il doppio gioco. Fatti vedere in volto”.
Riluttante, l’uomo lanciò un’occhiata alla spia agonizzante e poi eseguì. Rivelò una goffa faccia paffuta e due occhietti vivaci, velati dalla preoccupazione. Non aveva più di trent’anni e la fronte imperlata di sudore dimostrava scarsa esperienza nel trattare affari di quella portata.
“Fatti vedere anche tu” disse l’uomo.
“Come ti chiami?” chiese di rimando l’elfo.
“Othis e tu?”.
“Euflin” mentì Elgorad. “Adesso che ci siamo presentati potresti farmi vedere la mercanzia?”.
“Scostati il cappuccio dal viso” ripeté Othis, facendo un passo indietro. La mano scese lentamente all’altezza della cintura. “Ma io ti conosco…”.
Elgorad scostò leggermente il tabarro e Othis intimorito fece un altro passo indietro, incespicando. La mano del contatto corse lungo il fianco alla ricerca del pugnale ma non lo trovò. E quando sentì il rantolo del Topo che spirava, fissò l’elsa che gli spuntava da un occhio e la riconobbe.
“Il mio…” biascicò l’uomo aggrottando la fronte. “Ma come hai fatto?”.
“Ti avevo già individuato in locanda” rivelò sbrigativo l’elfo. Passiamo agli affari”.
Il venditore estrasse da sotto il mantello un involto di tela e lo appoggiò con cura sul tavolo.
Elgorad si avvicinò per aprirlo ma Othis lo fermò con un gesto.
“Prima fammi vedere il compenso” disse l’uomo con un’inaspettata determinazione.
L’elfo infilò le mani sotto le falde del tabarro, provocando una sospettosa attesa da parte del contatto, poi depose un grosso sacchetto scuro sul tavolo.
Othis si gettò bramoso sula borsa, iniziando a districare i lacci che la chiudevano: quattro nodi, ben fatti e doppi. Il tempo fu sufficiente a Elgorad per analizzare l’oggetto. Aprì l’involto con cautela e liberò un taccuino. Con il suo pugnale lo sollevò di lato, esaminandolo alla ricerca di glifi di protezione. Quando fu certo che era tutto a posto, prese a sfogliare il diario: appunti scritti a mano e disegni; risorse, nomi, luoghi e missioni, con codici e messaggi criptati. All’apparenza sembrava un oggetto innocuo, un libriccino dalla scadente rilegatura. Ma nascondeva ben altro.
I membri della Gilda usavano linguaggi e scritti segreti e lui li conosceva. Comprese subito che il quaderno era autentico e riportava dati essenziali sulla Gilda e i suoi traffici.
“Tutto a posto” sentenziò Elgorad, facendo scomparire il diario.
“Ehi” lo chiamò Othis agitato. “Euflin!”.
“Che cosa c’è? Ci sono parecchie sterline d’oro” soffiò Elgorad, “oltre a un Monile che vale più di quanto tu possa rubare in una vita intera”.
Othis sollevò l’oggetto splendente. “Non capisco…”.
“Voglio assicurarmi il tuo silenzio” spiegò l’elfo. Sul viso in ombra gli si allargò un sorriso bieco. “Sai, avevo pensato di eliminarti, ma poi ho riflettuto che non voglio tutta la Gilda alle calcagna. Se un Topo ti sta seguendo, potrebbero essercene altri”.
Per questo l’ho ucciso con il tuo pugnale, terminò mentalmente.
“Ho già un’imbarcazione che mi aspetta ai moli” confidò il venditore, facendo scorrere avidamente le monete tra le dita. “Attraverserò il lago questa notte e prima dell’alba mi godrò il denaro in uno dei Regni a sud”. Trafelato ripose il bottino nel sacchetto e quest’ultimo sotto il mantello.
“Prima di partire, fatti una bevuta alla mia salute”. Elgorad uscì e sparì nelle ombre. Non ebbe difficoltà a compiere il cammino a ritroso, ma non uscì dalla locanda e seguì il percorso che portava al caseggiato a fianco dei Due Teschi. Trovò facilmente la porta segreta. Sbucò in un rudere abbandonato e rimase a controllare la strada, quasi deserta per la chiamata dei Pretendenti alla Cittadella. Attese nascosto dietro un’imposta, per assicurarsi che la sua intuizione fosse giusta.
Dopo pochi minuti, notò Othis uscire dalla locanda. Il ladro s’incamminò guardingo verso il primo vicolo alla sua destra. Non fece molta strada. Sully sbucò da dietro l’angolo e lo colpì in pieno volto con una vanga. Un colpo talmente poderoso da mandarlo a gambe all’aria.
“Ma tu chi accidenti sei?” chiese l’omone, forse convinto di prendere di sorpresa il suo vecchio compare. Othis non rispose, aveva il volto ricoperto di sangue, il naso spaccato. Era svenuto.
Sully frugò nelle sue tasche e quando trovò il Monile d’oro, oltre alle monete, i suoi occhi porcini si illuminarono davanti al tesoro ritrovato. Era pur sempre un ladro e, probabilmente, ogni proposito o accordo preso coi selvaggi svanì all’istante.
Elgorad sorrise deliziato. Addio, Sully.
Il vecchio compare non sapeva cosa lo attendeva: la magia Scraw. Certamente quei selvaggi avevano tenuto qualcosa di lui, pelle o capelli. Elgorad aveva visto un uomo morire trafitto da frecce invisibili, quando invece erano stati gli Scraw a pungere un pupazzo con degli spilloni a miglia di distanza.
Girate le spalle al passato, Elgorad raggiunse con calma un tugurio ai margini della città mercato.
All’interno giaceva il cadavere di Euflin, l’affiliato della Gilda a cui aveva rubato il tabarro grigio e gli stivali. Dalla bocca colava ancora la schiuma del veleno con cui lo aveva ucciso. L’elfo si tolse gli indumenti e rivestì il corpo, poi da una sacca prese i propri stivali e la sua cappa scura.
La notte nella Cittadella era fresca, avvolta in un silenzio irreale e pervasa dall’effluvio dei ciliegi in fiore che decoravano l’agorà. Al centro svettava il poderoso obelisco innalzato al Dio Celestiale che sembrava indicare la mezza luna in cielo. Alla base del monumento affiorava una formazione di roccia bianchissima. La lama usciva di almeno un braccio, nera, lucente, invitante come il peccato. Affilata al punto che quando un petalo la raggiunse, trasportato dal vento, si tagliò in due.
L’agorà era circondata da un portico e il piano superiore della cinta muraria che la delimitava ospitava un loggiato, dove diversi novizi passeggiavano silenziosi nelle loro tuniche azzurre.
Il Mago Blu lo aspettava vicino alla lama nella roccia. Indossava una veste indaco, priva di fronzoli e ricami ma visibilmente pregiata, simbolo di un rango elevato. Aveva capelli e barba ben curati e il sorriso beffardo di un giocatore d’azzardo.
Lo stregone schioccò le dita e le luci delle lanterne si assopirono lievemente.
Forse spera d’impressionarmi, pensò l’elfo che avanzò sino a raggiungerlo.
I festeggiamenti al di fuori dell’agorà perduravano ancora, nonostante il fallimento del primo Pretendente. L’indomani sarebbe toccato al successivo.
Elgorad lanciò un’occhiata maliziosa alla lama nella roccia.
“Ma per pulirla dal sangue, perdete anche voi qualche dita o utilizzate la magia?”.
Il volto sornione del Mago Blu non lasciava presagire nulla di buono. Anche se la maggior parte degli stregoni era intenta a sorvegliare la folla accalcata nella Cittadella, potevano esserci incantatori nei paraggi.
O forse no pensò Elgorad divertito, forse agisce di sua iniziativa.
Non c’erano guardie in giro e i novizi non sarebbero stati un problema.
“Dunque, tutto a posto?” chiese lo stregone accigliato.
L’elfo estrasse subito l’involto e lo porse al compratore. Lo ritirò quando il Mago Blu fece per prenderlo, godendo dell’espressione di rimprovero che gli scoccò.
“Giusto per curiosità” chiese Elgorad con un mezzo sorriso da sotto il cappuccio calato sul viso, “il diario serve per smantellare la Gilda o per prenderne il controllo?”.
L’uomo rimase in silenzio. Mosse una mano in aria e l’espressione corrucciata si rilassò.
“Non ci sono glifi” rivelò il ladro. “Ho già controllato”.
“Ma tu porti magia potente, addosso” obiettò lo stregone.
“Non entriamo nel personale” appuntò l’elfo. Dischiuse le labbra in una smorfia. Era certo che non potesse vederlo sotto il largo cappuccio calato sul volto. D’altra parte, chi lo contattava non conosceva mai il suo aspetto e il suo nome. Era la prima regola che imponeva a ogni contratto.
“Sono anche armato”. Il ladro mise una mano sotto la cappa, stringendo un’elsa d’osso che usciva da un fodero corto. “Ma avrai di certo preso qualche precauzione magica”.
“Sbrighiamoci” tagliò corto il Mago Blu. “Hai già ricevuto il pagamento, come concordato, nel luogo da te scelto e in anticipo”.
“Sai com’è” fece spallucce l’elfo, “ho apprezzato la fiducia. Un’ultima domanda…”.
L’incantatore parve perdere la pazienza, ma tacque.
“Ho sentito che Rasoio Nero aveva un’elsa prima della morte di re Uldred. La lacrima del Dio Abissale gli aveva fornito un oggetto integro”.
“Non gli era stata data dal Dio Abissale…”.
“Be’, insomma, quando la prese o la trovò…”.
“Qual è la domanda?” sbuffò l’uomo.
“L’elsa l’avete voi, vero? La tenete nascosta per evitare che chiunque la estragga e mantenere il potere?”.
“Sono due domande”.
“Be’, non importa” ridacchiò l’elfo, “so mantenere un segreto”.
“Possiamo concludere?” mugugnò lo stregone. Sui lineamenti del viso si leggeva un’improvvisa ansia. Elgorad lo vide guardarsi intorno nervoso.
Mettere il proprio interlocutore a disagio era una tattica che usava spesso per trarre conferme delle sue intuizioni. Agisce da solo, considerò sollevato.
Spazientito, il Mago Blu recitò il suo incantesimo. “Adesso mi darai il diario”.
Prevedibile.
Lo stregone contava nella magia per comandarlo. Solo che ignorava che fosse un elfo, immune a incantamenti di manipolazione della mente.
Elgorad finse di assecondarlo. Protese il braccio con l’involto di tela e se lo lasciò sfilare dalla mano. Attese che il Mago Blu distogliesse lo sguardo e scattò fulmineo.
L’acciaio sibilò e recise la gola esposta con un taglio netto e preciso.
L’incantatore crollò sulle ginocchia, le mani sulla ferita mortale e gli occhi fuori dalle orbite, increduli. Forse si stava chiedendo come fosse stato possibile.
Elgorad si chinò, attento a non sporcarsi col sangue che zampillava tra le dita contratte. Raccolse il diario della Gilda e poi liberò l’elsa d’osso dalla lama omicida.
“Ho speso bene il tuo ricco compenso” sussurrò divertito, prima che la morte reclamasse il corpo dello stregone. Non era stato semplice individuare il Mago Blu reietto che aveva rubato l’elsa, ma gliela aveva venduta senza neanche contrattare, come se non vedesse l’ora di liberarsene.
Elgorad lanciò un’occhiata al loggiato e ai portici: i novizi non sembravano essersi accorti di nulla. Senza perdere tempo, incastrò l’elsa d’osso sulla lama nera e sentì uno schiocco leggero.
Con una leggera flessione del polso fece scattare qualcosa nella pietra e la spada si sfilò come se riposasse in una morbida guaina di cuoio.
In quel preciso momento, tutti i novizi si girarono verso di lui. Allargarono le braccia nelle loro ampie maniche svasate e, come se fossero una sola mente condivisa, gridarono.
Una scarica elettrica percorse i loro corpi e li unì, formando un circolo di fulmini che tuonò e produsse una saetta scagliata direttamente verso il ladro.
Elgorad alzò d’istinto Rasoio Nero e assorbì la folgore. Sentì il potere della spada scorrergli nelle vene e divenire fuoco liquido. Una raffica di vento lo investì in pieno e si ritrovò a terra, il cappuccio liberato dal volto. Per un istante gli sembrò di sentire una voce gutturale nella mente, un suono antico e profondo come l’abisso. Le iridi azzurre gli si tinsero di viola.
Un altro Mago Blu comparve all’improvviso dal nulla. Invocò una vampa di fuoco e, ancora una volta, l’elfo l’assorbì senza difficoltà nella spada. Elgorad avanzò, respinse altro fuoco, fulmini e dardi scaturiti dalle dita dello stregone, sgomento nel vedere la sua magia respinta senza alcuna difficoltà. Quando ormai lo aveva raggiunto, il ladro fu colpito da una lama invisibile e sangue gli sgorgò dal fianco. Strinse i denti e l’impugnatura di Rasoio Nero con forza, fino a farsi sbiancare le nocche. Un vuoto di tenebra gli attanagliò le viscere. Raccolse quel potere e quando affondò la lama nel ventre del Mago Blu, sentì un fluido attraversarlo. La testa prese a girargli, socchiuse le palpebre e varcò la porta del tempo.
Quando riaprì gli occhi, decine di guardie lo avevano circondato e in mezzo a loro diversi Maghi Blu lo fissavano esterrefatti. Non sentiva alcun dolore, anzi, un vigore mai provato prima s’irradiava in tutto il corpo e vibrava di un’energia nuova, irrefrenabile. Scattò in piedi e si guardò il fianco: la ferita era completamente rimarginata.
Quando i suoi occhi viola si posarono trionfanti sui presenti, tutti posarono un ginocchio a terra.
“Lunga vita al re!” gridarono all’unisono.
Gli ci vollero alcuni istanti per comprendere cosa era accaduto.
Maledizione, ancora una volta la Sfortuna della strega…