In questo capitolo si narra degli antichi colonizzatori.
Per comodità e per rendere questo testo più scorrevole, mi riferisco ad essi chiamandoli come li chiamavano gli antichi: “dèi”.
Il termine Dio, che deriva dal latino “divus” (splendente) e “dies” (giorno), connesso con la radice indoeuropea div/dev/diu/dei significa luminoso, brillante, splendente accecante. Stesso valore hanno il “theos” greco e il sanscrito “Deva”(colui che emana luce). Gli antichi si riferivano quindi a loro come portatori di luce?
Luce riferito a cosa? Luce della conoscenza?
Ma risaliamo, per cominciare, al significato vero e proprio del termine “Dio.”
Nonostante il concetto rivoluzionario di un eterno, assoluto, onnipossente e unico dio, proposto per primo nella storia dell’umanità dal faraone Akhenaton, e accetatto dagli ebrei da lui protetti, il termine elohim che troviamo nella Bibbia è la variante ebraica di un antico nome per un individuo luminoso e potente o per parecchi di essi: Ilu, per gli assiri, El nei testi ittiti, Il fra gli arabi.
Yahweh apparteneva agli Elohim, ed era l’elohim (eloah, singolare) di un solo popolo, quello che sarà poi conosciuto come popolo di Israele, così come lo era Kemosh, eloah dei Moabiti, Baal (Cananei), Hadad (Aremei), Milkom (Ammoniti), quindi ogni “essere luminoso” era una sorta di comandante, condottiero, di un preciso popolo.
Queste descrizioni non hanno nulla a che vedere con l’idea di Dio che oggi abbiamo noi occidentali, vale a dire la figura di grande energia creatrice fatta di amore, consapevolezza, onnipotenza e onnipresente, che sarebbe in realtà assai più vicina al centro energetico del cielo “cuore del cielo” –huracan- dei maya, o Parabhraman per gli indiani.
L’energia creatrice d’amore è chiamata “Dio” in modo pressapochista e semplicistico, visto che, come si può vedere sopra, “Dio” è un termine derivante dal latino e dal greco che va ad indicare uno di quegli individui (che sono tanti e non è uno soltanto) che hanno illuminato con il loro misterioso splendore (caratteristica evidente in tutti gli dei a livello planetario) la civiltà e l’hanno evoluta. La loro potenza era palesemente superiore a quella degli umani, tuttavia in tutti i testi antichi si riconosce che nessuno di loro è onnipotente, né onnipresente, né onniscente, nè tantomeno eterno. Nella Bibbia, infatti, salmo 82, viene descritta un’assemblea di elohim, dove invece viene specificato in modo splendidamente lampante l’esatto contrario.
Colui che la presiede è molto adirato con i presenti e li rimprovera perché non stanno governando come dovrebbero. Egli ne riconosce la natura di esseri speciali e si rivolge loro affermando che è vero che sono elohim, figli di Elyon, ma non dimeno ricorda: cadrete come tutti i potenti–
Le caratteristiche attribuite all’ipotetico dio unico, che nulla ha a che vedere con questi individui, è soltanto dovuta a un’interpretazione (non traduzione) teologica costruita diversi secoli dopo la morte di Cristo, che quindi non prendo in considerazione perchè troppo recente, e soprattutto perché non ha nulla a che vedere con il mio lavoro di lettura letterale dei testi alla ricerca della storia nel mito. Con questo non sto affermando che il “Dio” onnipotente, spirituale, trascendente, onnipotente, eterno, di energia immensa e degna di adorazione, non esiste. Sto semplicemente affermando che dalle analisi che vado a eseguire sui testi antichi, semplicemente non appare, o se appare qualcosa di analogo, le forme più simili ad esso non si chiamano “dio”, ma sono sicuramente l’”Huracan” del Popol Vuh dei maya, il cuore del cielo che come una pompa cardiaca irradia e attrae a sé l’energia univesale; e il Parabrahman indiano, fonte energetica da cui tutto si emana, estremamente simile all’Huracan stesso, descritto nei Rig Veda. Gli altri testi che sono andato ad analizzare (Mahabarata, Iliade, Antico testamento, Testi di Edfu) sono semplicemente testi che parlano di colonizzazione, a volte di guerre feroci, combattute con armi devastanti e di cui eroi potentissimi sono protagonisti positivi o negativi.
La descrizione meno spirituale e trascendente che sia possibile.
Eliodoro nelle sue “Etiopiche” afferma che: “Gli dèi possono nascondersi ai profani, ma non possono sfuggire al saggio… Essi infatti avanzano coi piedi uniti, senza muoverli uno dopo l’altro, e fendono l’aria circostante con un movimento e un impeto irresistibili invece di camminare. Proprio per questo motivo gli egiziani fanno le statue degli dei con i piedi uniti, quasi fusi insieme.”
Ne l’Iliade Poseidone viene riconosciuto da Aiace che afferma ai compagni: “Uno degli immortali che regnano nell’Olimpo ci ordina di combattere presso le navi; somiglia a un indovino. Nel passo e nell’andatura lo riconobbi da dietro, mentre si allontanava; si riconoscono facilmente, i theoi.”
Erodoto dice “prima dei 340 faraoni regnò sull’Egitto il Dio Onnipotente in terra che abitava fra gli uomini. Dopo regnò Horus, figlio di Osiride, quello che i greci chiamano Apollo…”
Il manoscritto medievale conservato a Oxford, opera dello scrittore arabo El-Masudi dice: “La piramide non è una tomba. Nasconde una parte più antica costruita da Osiride prima del diluvio, per conservare ai posteri memorie della civiltà da lui fondata”
Dice Platone, parlando della Terra, che i figli del grande re di Atlantide, che per la sua immagine luminosa era chiamato Phos eidon, anche qui ritorna la descrizione di “essere luminoso”, come gli elohim biblici, si divisero la terra fraternamente. Poseidone illustra i domini dei theoi nel canto XV de l’Iliade affermando che: “Tre figli nacquero da Crono e da Rea, tre fratelli: Zeus, io e terzo Ade che regna sui morti. Il mondo fu diviso in tre parti, ne toccò una a ciascuno: io ebbi in sorte di abitare per sempre nel mare bianco di schiuma, Ade ebbe l’ombra e le nebbie, Zeus il cielo immenso, nell’etere fra le nuvole. Ma la terra e l’alto Olimpo sono a tutti comuni.”
Nell’ultima parte il theos dice in modo lampante che le terre appartengono a tutti i theoi e, a quanto pare, alle loro generazioni.
I figli di Poseidone, infatti, erano Danao, da cui discesero i Danai- o achei, che l’Iliade descrive come i greci “dagli occhi lucenti”- ed Egitto, di cui il nome ha un ovvio richiamo.
Questi esseri luminosi erano dotati di intelligenza, afferma anche il Popol Vuh, il libro sacro degli antichi maya, guardavano e istantaneamente riuscivano a vedere lontano e a sapere tutto ciò che vi è nel mondo e contemplavano l’arco del cielo e il volto arrotondato della Terra. Vedevano le cose in lontananza senza doversi mai muovere. Grande era la loro saggezza; la loro vista raggiungeva le foreste, i laghi, i mari, le montagne le valli, ma ad un certo punto gli uomini divennero arroganti e orgogliosi, cosicché gli dèi si chiesero; “Devono forse essere uguali a noi, che li abbiamo creati? Mettiamo dunque un freno ai loro desideri perché non ci piace quello che vediamo.”
Il cuore del cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, cosicché i loro occhi furono coperti ed essi poterono vedere solo ciò che era vicino. In tal modo tutta la saggezza e tutto il sapere degli uomini andò distrutto. Un’inondazione venne prodotta dal Cuore del cielo… Una resina pesante cadde dal cielo… La faccia della Terra si oscurò e una pioggia cominciò a cadere di giorno e di notte.
Spesso nei testi antichi questi theoi/elohim giocano con i mortali di forza/consapevolezza/potenza inferiore. Li usano come pedine per i loro scopi e per i loro bisogni. Il canto 8 de L’Iliade di Omero è molto chiaro in questo, affermando che il volere dei potenti è insindacabile, ma anche volubile. Nestore disse a Diomede, con lo spavento nel cuore: “Volgi in fuga i cavalli dai solidi zoccoli; non vedi che Zeus non ci viene in aiuto? È ad Ettore che Zeus concede la gloria, oggi. Domani la darà a noi, se vuole. Nessun uomo può opporsi al volere di Zeus. Perché Zeus è molto più forte.”
Il capriccio di Zeus viene descritto in modo evidente, il più potente e sovrano dei theoi, che nel quarto canto dice in modo esplicito: “fra le molte città che, sotto il sole, sotto il cielo stellato, sono abitate da uomini mortali, fra tutte mi onorava di cuore Ilio (Troia) sacra, e Priamo e il popolo di Priamo dalla lancia gloriosa” e poi continua affermando il motivo per cui Troia gli onorava il cuore, motivo per niente spirituale, né di alto valore morale né degno di un essere superiore, infatti si tratta di banale ingordigia: “… mai sugli altari (di Troia) mancava la giusta parte di cibo, di libagioni, di grasso: l’onore che ci (ai theoi) dovuto (dai mortali)”.
Il sacrificio agli dèi era frequente anche nell’antica Palestina ed era praticato non soltanto da re Mesha che bruciò il primogenito in onore all’eloah Chemosh, ma anche dagli ammoniti che donavano i loro figli a Moloch.
Secondo l’Iliade i theoi sono nati come i mortali ma, a differenza loro, che muoiono naturalmente raggiungendo la vecchiaia in qualche decennio, i theoi vengono descritti come “immortali”, ma non sono propriamente tali. Più probabilmente hanno una durata di vita naturale ben più estesa di quella umana e gli umani semplicemente non riescono quindi a percepirne l’invecchiamento. Scrivo questo perché i theoi possono essere feriti e morire anch’essi in battaglia, dimostrando la loro natura meno ultraterrena di quello che si pensi. Ne è la dimostrazione il passo del canto 5 in cui l’eroe greco Diomede “…inseguiva Afrodite con la lancia spietata: sa che è una debole dea (theos). Quando l’ebbe raggiunta inseguendola attraverso le schiere, allora Diomede la ferì con la lancia acuta all’estremità del braccio delicato… sgorgò la linfa immortale…l’icore, che scorre nelle vene dei theoi beati: essi non mangiano pane, non bevono il vino fulgente, perciò non hanno sangue e sono detti immortali. Gettò un grido acuto la dea.”
E le troiane, dimostrando il bisogno dei mortali della protezione dei theoi, si recano al tempio della dea Atena a portarle doni, perché la furia di Diomede avesse fine. Anche in questo caso si parla di doni materiali e non certo di preghiere e atti di fede, infatti: “Atena, sovrana” supplicano le troiane, “spezza la lancia di Diomede e fa che anche lui cada ; e subito noi ti immoleremo nel tempio dodici giovenche di un anno, non ancora domate, se avrai pietà di Troia, delle spose troiane e dei giovani figli.”
Gli olimpi degli dei di molti popoli di tutto il mondo presentano un marcato antropomorfismo, che coinvolge non solo l’aspetto della divinità ma anche il suo comportamento. La differenza così fra dio e uomo sembra ridursi, tanto che “Ares e Atena che guidano gli eserciti, d’oro entrambi, e d’oro vestiti, belli nelle loro armi e grandi, si riconosce che sono dèi: sono infatti più alti degli uomini”
Ergo, aggiungo io, se non lo fossero, sarebbero del tutto simili.
La differenza più sostanziale fra umani e theoi/elohim/deva, non sta quindi nell’aspetto, ma nella potenza bellica. Questi ultimi in tutti i testi antichi che ho elencato in precedenza sono estremamente più evoluti e esistono anche svariate e straordinarie analogie fra le descrizioni di questo potere in testi lontanissimi fra loro.
Per esempio l’ira del theos Apollo ne l’Iliade si manifesta come una pioggia di dardi sulle navi di Agamennone, proprio come l’Indaastra del deva indiano Indra produce una “doccia di frecce dal cielo”.
I famosi fulmini posseduti da Zeus o il martello del dio nordico Thor sono esattamente uguali al Vajra indiano, in grado di liberare un’incredibile quantità di energia.
Le pestilenze di Yahweh nell’Antico testamento biblico sono le stesse causate dall’Asurastra, in grado di riprodurre i devastanti effetti di un’arma batteriologica.
Nel Ramayana si narra del saggio Viswamitra che “lanciò una dopo l’altra le sue formidabili armi contro Vasishta. Vasishtha aveva con sé le uniche cose che solitamente un brahmana possiede, una sacca un bastone, una coppa per l’acqua.
Viswamitra usò i missili rivelati dal signore Shiva. Il missile soporifero, l’inebriante, quelli che producono un calore insopportabile, quello che secca tutto, il missile che disintegra ogni cosa, quello che si infrange tutto come il fulmine e uno fatale come la morte.”
E ancora: “Bharata, il fratello minore di Rama, incollerito, liberò una terribile lancia. Presi nel laccio della distruzione, trecentomila Gandharvas furono trucidati in un istante , fatti a pezzi da quell’eroe. Gli abitanti delle regioni celesti erano incapaci di ricordare un altro conflitto così terribile, durante il quale, in un batter d’occhio, fosse morto un così alto numero di guerrieri.”
E proprio qui si apre un altro capitolo. Le armi degli dèi. Forse la loro magia? Ne parleremo nel prossimo capitolo!
Andrea Oliva