Articolo del 13 aprile 2018 di Lorenzo Pennacchi, tratto da L’Intellettuale Dissidente.
Il ciclo di racconti creato da Robert Ervin Howard è la messa in scena di un’eterna tensione, insita nella natura umana: lo scontro tra barbarie e civiltà.
Ci sono grandi scrittori che vengono ricordati nei secoli. Per il fantasy, questo è evidente con J. R. R. Tolkien o C. S. Lewis, emblemi di due modi differenti quanto archetipici di approcciarsi al genere. Poi ci sono quegli autori che, pur avendo lasciato un segno indelebile nella storia, non attirano i riflettori dell’interesse pubblico su di loro. È il caso di Robert Ervin Howard, padre del sottogenere chiamato heroic fantasy (o sword and sorcery). Con questo termine, secondo lo scrittore Lyon Sprague de Camp:
Si indica quel genere di storie ambientate non nel mondo come è, era o sarà, ma come dovrebbe essere per ambientarvi un buon racconto. Le storie che si riuniscono sotto questo nome comune sono fantasie avventurose che si svolgono in mondi immaginari preistorici o medievali, quando – è divertente immaginarlo – tutti gli uomini erano forti, tutte le donne belle, tutti i problemi semplici e la vita tutta un’avventura. In mondi del genere, città scintillanti alzavano le loro torri ingioiellate verso le stelle, stregoni mormoravano sinistri malefici in spelonche sotterranee, spiriti maliziosi saltellavano fra rovine dimenticate, mostri primigeni si aprivano sentieri attraverso giungle dimenticate, e il destino dei reami era in bilico sulle lame rosse di sangue delle spade impugnate da eoi dalla forza e dal coraggio soprannaturali.
È una lunga definizione, ma quanto mai opportuna per inquadrare l’opera di Howard e il suo personaggio principale: Conan il Cimmero. Egli, al contrario del suo creatore, gode di una fama ben più vasta, soprattutto grazie agli adattamenti cinematografici che lo hanno visto protagonista.
Conan il Barbaro (1982): Arnold Schwarzenegger prega il Dio Crom
Howard nasce il 22 gennaio 1906 a Peaster in Texas, da padre americano e madre scozzese. Cresce come un omone, imponente fisicamente, ma anche molto introverso. Proprio nella letteratura trova un rifugio sicuro, fin dall’età di quindi anni, quando incomincia a scrivere racconti. Notano Giovanni Pilo e Sebastiano Fusco nell’introduzione all’edizione italiana del ciclo di Conan edita dalla Newton Company:
Come spesso accade, cercò di riprendersi con la fantasia ciò che la timidezza gli aveva sottratto dalla vita […] Scriveva di getto storie vivaci e colorite, piene d’azione violenta e affollate di eroi possenti e donne sensuali. Sperimentò ogni genere narrativo: il western, il racconto sportivo, le storie di gangster, di pirati, di mercenari, di esploratori, di agenti segreti…non c’era limiti alla sua versatilità.
Nel 1925 inizia a collaborare per la celebre rivista del settore Weird Tales. Da lì a poco, attestati di stima gli arrivano niente di meno che da H. P. Lovecraft, il quale elogia «le enormi città megalitiche di mondi primigeni» presenti nella saga di Solomon Kane. Howard allora capisce che quella strada (pre-storica, dove la magia incontra la spada) deve essere percorsa. Nasce così il personaggio di Kull di Valusia, precursore del barbaro ben più celebre. Conan compare per la prima volta nel 1932, con il racconto La fenice sulla lama. Con questa creazione, il destino di Robert Ervin sembra scritto: fama e soldi lo attendono. Eppure, i beni materiali non possono risolvere le sofferenze dello spirito. Affezionato morbosamente alla madre, alla notizia (11 giugno 1936) della sua entrata in stato di coma irreversibile, decide di farla finita, battendo due versi a macchina prima di spararsi alla tempia in mezzo al deserto:
All field – all done, so lift me on the pyre;
The feast is over and the lamps expire.
A 30 anni, dunque, si spegne una delle grandi menti della narrativa fantastica del secolo scorso. Il ciclo di Conan è il lascito più pregiato, seppur incompleto, date le circostanze. Si parla di ventidue racconti e del saggio che ne fa da sfondo. Per rendere l’ambientazione credibile («un’ambientazione immaginaria per una serie di racconti immaginari»), infatti, Howard dà vita all’Era Hyboriana, un breve trattato in cui spiega come l’universo del Barbaro si sia originato a seguito di un Cataclisma, che ha determinato il regresso della civiltà, e come il nostro mondo sia derivato da quello abitato da Conan. Tutto è spiegato attraverso lo scontro e le migrazioni di popolazioni, civilizzate o tribali che siano. In tale contesto, Conan è un Cimmero. Ecco la descrizione di questo popolo:
A Nord di Aquilonia, il regno hyboriano più occidentale, vi sono i Cimmeri, feroci e indomabili selvaggi, che però progrediscono rapidamente per i contatti avuti con i nemici nei ripetuti, e falliti, tentativi d’invasione. I Cimmeri sono i discendenti degli Atlantidi, e adesso progrediscono più in fretta dei loro atavici nemici, i Pitti, che abitano le lande selvagge a Occidente di Aquilonia.
Discendenti diretti dell’antica civiltà, i Cimmeri sono dei selvaggi che piano piano si stanno civilizzando. Del resto, Conan sa adattarsi alla vita civilizzata, ma non è un uomo civilizzato. Per contrasto ad un altro grande personaggio della narrativa fantasy contemporanea, Elric di Melniboné di Michael Moorcock, lo avevamo già presentato qui. Egli è possente, istintivo, deciso, pragmatico: una forza della natura, incontenibile nei vincoli della civilizzazione. Insistono Pilo e Fusco:
È dotato, certo, di tutti gli istinti positivi dell’indole barbarica: il coraggio, il senso della lealtà, la generosità verso gli amici; ma, per il resto, è un mercenario rozzo e incolto, che non esita di fronte al furto, alla rapina, all’assassinio. Nel corso delle sue vicende, saccheggia, mena strage, non riconosce nulla di sacro né di inviolabile. Non è, come i «cavalieri antiqui» fedele a un’unica dama, ma cambia donna ad ogni storia, senza che si sappia mai che fine ha fatto la precedente.
Questi elementi fanno sì che il ciclo, sebbene riconosciuto e riconoscibile, non sia poi così continuo. Personaggi (soprattutto femminili) appaiono in un racconto per poi scomparire nel nulla: non c’è la ricerca di coerenza assoluta, a R. E. H. non interessa. Ciò che conta è la messa in evidenza dell’eterno scontro tra barbarie e civiltà, tra il Barbaro e il resto del mondo.
Il testo che meglio di tutti rappresenta questa tensione è senza dubbio Oltre il fiume nero. Composto nel 1935, è uno degli ultimi racconti del Ciclo. Il Cimmero ha vissuto già molte avventure, interpretando diversi ruoli:
Sono stato capitano mercenario, corsaro, kozako, vagabondo squattrinato, generale – diavolo, sono stato ogni cosa tranne il Re di un paese civile, e potrebbe anche accadere, prima che muoia.
Come verrà esplicitato ne La cittadella scarlatta, effettivamente, Conan diverrà realmente Re di Aquilonia, sebbene il suo regno sarà tutt’altro che sereno. Tornando alla storia del ’35, quasi ogni pagina può fungere da citazione di quanto detto finora. Ecco come viene introdotto il protagonista:
Nessuna mano civilizzata avrebbe mai forgiato un simile copricapo. E neppur il viso sotto di esso era quello di un uomo civilizzato.
Il Barbaro si presenta come un mercenario che vende la spada al miglior offerente, in questo caso una guarnigione di un forte, l’ultimo avamposto del mondo civilizzato, minacciato dall’avanzata dei selvaggi Pitti, guidati dallo stregone Zogar Sag. Egli sembra essere il ponte tra due estremi. Da un lato, ci sono gli uomini civilizzati, figli della scienza e del progresso, incapaci però di spiegare la magia nera di Zogar Sag. Dall’altra, ci sono quelle che sembrano essere bestie, del tutto irrazionali e diaboliche. In mezzo, il Cimmero, il quale:
Avrebbe potuto trascorrere anni nelle grandi città del mondo; avrebbe potuto camminare con i signori della civiltà; un giorno avrebbe persino potuto vedere avverarsi il suo folle sogno e governare come re su una nazione civile: erano accadute cose anche più strane. Però sarebbe sempre rimasto un barbaro. Si preoccupava solo dei semplici fondamenti della vita. La calda intimità delle piccole cose dolci, i sentimenti e le deliziose sciocchezze che formavano una così larga parte della vita degli uomini civilizzati, per il barbaro erano privi di significato. Un lupo non era meno lupo perché un capriccio del destino lo faceva correre insieme ai cani da guardia. Il massacro, la violenza e l’istinto selvaggio erano gli elementi naturali della vita che Conan conduceva; non poteva e non avrebbe mai capito le piccole cose che sono così care agli uomini e alle donne civili.
È una descrizione suggestiva quella di Howard. Ciò che affascina di Conan il Barbaro è proprio l’incommensurabilità tra noi e lui. Figlio del tempo in cui è stato concepito, nel combattere i Pitti egli è animato da un profondo odio razziale e spesso si ritrova a fronteggiare cose al di là della sua immaginazione. La vittoria su Zagor Sag, sebbene avvenuta in maniera indiretta (lasciamo al lettore il piacere della scoperta), dimostra la veridicità della massima «non c’è nulla nell’universo che il freddo acciaio non possa tagliare». È questa la natura del Barbaro applicata nel concreto. In una realtà instabile, bellica e tormentosa si hanno poche scelte, molte necessità, una certezza: essere se stessi. E, in questo, come dimostrato dalle parole di un boscaiolo che chiudono il racconto, Conan ci riesce benissimo:
La barbarie è lo stato naturale dell’umanità», disse l’uomo della frontiera guardando ancora seriamente il cimmero. «La civiltà è innaturale. È un capriccio delle circostanze. E la barbarie, alla fine, deve sempre trionfare.