Le lezioni americane di Borges

Articolo di Alex Voglino, tratto da Antarès.


Esattamente cinquant’anni fa, vale a dire nell’autunno del 1967, Jorge Luis Borges iniziò un ciclo di lezio­ni presso l’Università di Harvard, negli Stati Uniti, che lo avrebbe tenuto impe­gnato fino alla primavera dell’anno suc­cessivo, toccando temi universali come la poesia, la narrazione e la metafora. Rimaste a lungo solo un episodio nel­la vita del grande letterato argentino, le lezioni americane riaffiorarono come un prezioso frammento di relitto trentatré anni dopo, nel 2000, sotto forma di vo­lume, tradotto anche in italiano per i tipi di Mondadori. In realtà, proprio per la loro colloca­zione temporale – quasi vent’anni prima della sua morte, quando Borges, ormai sulla soglia della settantina, era già una personalità artistica pienamente forma­ta e con gran parte delle opere all’attivo – queste lezioni offrono uno spaccato prezioso per cogliere, nella sintesi e nella profondità insieme, molti aspetti fondamentali della sua visione del mondo e dell’arte nonché, ovviamente, della lette­ratura in particolare.

Dice già molto di lui, per esempio, l’at­tenta distinzione che – quasi per caso – introduce a un certo punto fra i con­cetti di contemporaneo (dicendo di se stesso: «Ovviamente sono un contem­poraneo»; ma, d’altronde, chi potrebbe sottrarsi al proprio tempo?) e moderno, quest’ultimo riferito a coloro che ade­riscono volutamente e positivamente ai valori della modernità. E Borges non era certamente fra questi ultimi.

Ce lo dice piuttosto sottilmente sin dal­la lezione d’esordio su “L’enigma della poesia”, nell’ottobre 1967, quando rilan­cia la grandezza dell’oralità non tanto ri­spetto alla scrittura, quanto piuttosto al culto dell’oggetto libro («troppi confon­dono l’acquisto di un libro con l’acquisto del suo contenuto» ci ricorda, citando Schopenhauer) e del loro accumulo (e qui è Seneca a essere chiamato in causa, con la sua diffidenza per le grandi biblio­teche). In realtà, come sappiamo, Borges era anche un vero e proprio bibliofilo, ma in questo caso l’esaltazione dell’oralità (che si collega a tutta una tradizione di cultura viva trasmessa attraverso la me­moria e il canto delle gesta, un processo di costante rinnovamento generazionale di storie esemplari) sembra una presa di distanza dalla figura borghese dell’in­tellettuale e, allo stesso tempo, una pre­messa alla distinzione fondamentale, su cui molto insiste nel resto della lezione, fra letteratura e Scrittura Sacra. Una distinzione che si completa nel definire rozza quella che Borges classifica come la mitologia del nostro tempo, cioè quella di matrice psicoanalitica, tutta ripiegata sull’inconscio e sul subliminale.

Non per nulla, il 6 dicembre Borges tor­na sull’argomento, esaltando la poesia epica: «Gli antichi quando parlavano di un poeta – un “artefice” – lo pensavano non solo come chi esprime alti accenti li­rici, ma anche come chi narra un raccon­to. Un racconto in cui potevano esserci tutti i toni dell’umanità, non solo quelli lirici, quelli angosciati, quelli malinco­nici, ma anche gli accenti del coraggio e della speranza».

Sicché, citando forse inconsapevol­mente il grande storico delle religioni Mircea Eliade e il suo Trattato di storia delle religioni, poco dopo teorizza il ro­manzo moderno come «la degenerazio­ne dell’epica» per avere perso di vista in molti casi la dimensione dell’eroe, cioè «dell’uomo che è un modello per tutti gli altri uomini» e per avere in definitiva smarrito, con l’indispensabile senso di questa “esemplarità”, la statura del Mito e una corretta concezione qualitativa e non quantitativa del tempo, come sug­gerisce una sua successiva riflessione sul­la filosofia indù: «Tutta la filosofia viene intesa dagli indù come se fosse contem­poranea. Ossia, gli indù sono interessati ai problemi in sé stessi, non al mero fatto biografico, storico o cronologico. A loro interessa l’enigma dell’universo».

Ciò lo porta a intuire pienamente il senso profondo dell’eucatastrofe, così come fatto da Tolkien: l’esemplarità dell’avventura mitica è individuabile proprio nel suo concludersi con il ripri­stino dell’ordine cosmico. Dunque – comprende bene il contemporaneo non moderno Borges – «oggi quando si parla di lieto fine lo si ritiene un mero espediente per compiacere il pubblico, un espediente commerciale. Tuttavia per secoli gli uomini potevano credere sinceramente nella felicità e nella vittoria, pur intuendo l’essenziale dignità della sconfitta». E il fatto che ciò non sia più costitu­isce per Borges «una delle miserie del nostro tempo». Cioè della Modernità, aggiungo io.

Resta curioso – e per me, personalmen­te, motivo di rammarico – che a dodici anni dalla pubblicazione della trilogia de Il Signore degli Anelli Borges dia l’impressione di non conoscere Tolkien e la sua opera, sia quando rimpiange che i «narratori di storie» abbiano perduto l’abitudine di leggerle oltre che di scri­verle (ciò che invece costituiva la ragione stessa dell’esistenza del circolo degli In­klings), sia quando lamenta che a dispen­sare epica (deludente, aggiungiamo) al mondo sia rimasta solo Hollywood, come se la straordinaria Mitografia della Terra di Mezzo non contasse già milioni di lettori.

Il 20 marzo 1968, Borges torna anco­ra una volta, qualora non fosse chiara la centralità che il tema ha per lui (perché, al di là delle diverse sfumature, di un unico tema si tratta), sul linguaggio mi­tico, dimostrando di avere una perfetta comprensione del concetto di simbo­lo e della vera natura delle parole. «Le parole erano intrise di magia» scrive, con manifesta nostalgia per le forme e la sostanza della poesia epica e delle saghe, per le quali nelle lezioni americane ripe­tutamente appalesa il suo amore.

Aggiunge: «La parola hunor indicava sia il dio sia il tuono, ma, qualora aves­simo domandato agli uomini arrivati in Inghilterra con Hengist se la parola significava il boato nel cielo o il dio adi­rato, dubito che avrebbero capito la dif­ferenza». Ebbene, per Borges (come per Ezra Pound, d’altra parte) le parole pos­sono, se usate a livello simbolico, avere significati molteplici e non contrad­ditori e celano entro di sé una propria specifica potenza. «Ritengo» dichiara «che questa teoria secondo cui le parole avrebbero un’origine magica e che ver­rebbero ricondotte verso la magia dalla poesia sia giusta.»

Intellettuale raffinato e aristocratico, atemporale ma in realtà calato nell’“an­tico” in senso etico ed estetico, profon­damente latino e tuttavia innamorato della lingua e della letteratura anglo­sassone, a cominciare dalle epiche in inglese medioevale, tanto remoto dalla sguaiatezza della Modernità da deci­frare erroneamente il fenomeno Perón nel suo Paese natale, Borges comunque giganteggia insieme a pochissimi altri (mi vengono in mente, prima di tutto, Ezra Pound e Louis-Ferdinand Céline) negli scaffali delle letteratura dell’in­tero Novecento. Non si fece mai mae­stro, ma in qualche modo la sua eredità è “esemplare”, come le narrazioni che piacevano a lui.

Vorrei concludere questo breve excur­sus su alcuni dei tanti preziosi elementi che le lezioni americane offrono citando una massima che davvero ognuno di noi dovrebbe portare ogni giorno con sé nella mente e nel cuore. È tratta dalla sua ulti­ma lezione: «Sebbene la vita di un uomo sia composta da migliaia e migliaia di momenti e di giorni, tutti quei momenti e tutti quei giorni si possono ridurre a uno solo: il momento in cui un uomo sa chi è, quando si guarda allo specchio».

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