I racconti di Satrampa Zeiros – “Divorati dalla follia” di Giuseppe Recchia

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Per la rubrica de I racconti di Satampra Zeiros, abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Giuseppe Recchia, autore di Maledetti dalle Fiamme (Watson, 2017), che ci propone Divorati dalla folliaracconto fantasy di circa 47.000 battute spazi inclusi.

Buona lettura.


Autore

16002737_1055612334568424_1525009764052439907_nGiuseppe Recchia è nato nel 1987 a Terracina, dove tutt’ora vive e lavora come archivista e guida turistica. Divora fantasy fin da bambino, in tutte le sue “declinazioni”, ma è solo in tempi più recenti che ha iniziato a scrivere racconti di questo genere, preferendo per molti anni il noir, l’horror e, complici i suoi studi, il thriller storico. Dopo una lunga (diciamo lunghissima) gestazione, e solo attraverso svariati tentativi andati a vuoto, ha dato vita a Maledetti dalle Fiamme, il suo primo romanzo, ambientato in un mondo sull’orlo della distruzione minacciato da forze oscure e incomprensibili per l’uomo. Parallelamente, ha iniziato a collaborare con alcuni siti online e pagine Facebook, pubblicando altri racconti e sperimentando vari sottogeneri, dal dark fantasy, al weird, passando per il grimdark.


Sinossi

I vicoli di Touronne, la Città Libera, cominciano improvvisamente a riempirsi di cadaveri. Non sarebbe una novità per un luogo del genere, se non fosse che i poveri malcapitati sono stati mangiati vivi da quello che sembra essere un branco di bestie insaziabili. La guardia cittadina non sa come reagire, e intanto folli predicatori cominciano ad annunciare per le strade l’avvento di una nuova era.

Tutto ciò mentre, nei sotterranei dell’università, uno strano professore e il suo fedele assistente scoprono con meraviglia che la creatura che stanno studiando si è finalmente risvegliata dopo un letargo millenario… e reclama il suo primo pasto.

Il Verme ha fame. Ma c’è qualcun’altro, in giro per Touronne, che ne ha ancora di più e cerca prede sempre più succulente.


Divorati dalla follia 

di Giuseppe Recchia

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1

Avevano trovato il cadavere in uno dei vicoli più infami di tutta Città Bassa, gettato su un cumulo di immondizia. Rifiuto tra gli altri rifiuti. Scovato lì in mezzo solo perché una prostituta e il suo ultimo cliente avevano pensato bene di andare a cercare un po’ di intimità nel luogo più squallido nel raggio di chilometri.

Succedeva più spesso di quanto si potesse pensare. Il tenente Garonne faceva parte della Guardia da molto ormai e di scene come quelle ne aveva viste parecchie. Chissà perché, le signore che sfidavano le notti nebbiose di Touronne per racimolare qualche spiccio per i loro papponi, erano sempre le prime ad arrivare sul luogo di un delitto, le prime a gridare terrorizzate, le prime a scomparire, lasciando il poveraccio di turno con le braghe ancora slacciate alle prese con la pattuglia in arrivo. Poco dopo – era un copione fisso – partivano i fischi di richiamo e, infine, qualche rompipalle andava a svegliare il tenente, perché “la situazione è strana”.

Non lo era quasi mai, in realtà: del resto quella era la stramaledetta Città Libera, saggiamente guidata da un governo libero, abitata da cittadini liberi, piena fino a scoppiare di figli di puttana liberi di ammazzare il prossimo per i motivi più fantasiosi. Libera sì. Dal tramonto all’alba anche dalla legge.

E in questo vuoto si inseriva gente come Garonne: stanca, depressa e, nonostante tutto, ancora attaccata alla propria spada e alla propria divisa, in un ultimo slancio di orgoglio che portava dritto al pensionamento. Ne aveva viste tante il vecchio tenente con la schiena e le ginocchia a pezzi, ecco perché non si sorprendeva mai davanti alle situazioni strane di Touronne.

Quella notte però fu diverso.

– Dei fottuti…

Il corpo, o almeno ciò che ne restava, giaceva supino su una montagnola di scarti maleodoranti, già marcio come la robaccia che lo circondava. Senza gambe e senza un braccio, con la pancia aperta e pochi rimasugli di intestino che gli pendevano fuori dallo squarcio invaso dai vermi. La faccia letteralmente strappata, gli occhi cavati via dalle orbite.

– Ma che cosa gli hanno fatto? – chiese uno dei miliziani che avevano suonato l’allarme, l’unico che era riuscito ad avvicinarsi al cadavere. Un suo compare restava cautamente all’imboccatura del vicolo, l’altro era da qualche parte lì vicino a vomitare l’anima.

– Dei fottuti… – ripeté Garonne, che aveva smesso di pregare da parecchio tempo e si ricordava delle divinità solo in casi come quello. Casi molto rari per uno che aveva fatto la Guerra Eterna; per un abitante della città più sicura al mondo.

– Chiamo il capitano? – tentò di nuovo la recluta.

Non era per niente una cattiva idea. Garonne era troppo acciaccato per una faccenda del genere. La cosa migliore da fare in quei casi era sempre e solo una: scaricare la responsabilità a qualche superiore.

– Decisamente, – disse. – E fai in fretta, è quasi l’alba e tra un po’ qui si riempirà di bastardi curiosi.

Già, non c’erano dubbi. Perché quello poteva anche essere il corpo di un derelitto mangiato vivo, ma nulla avrebbe fermato gli abitanti di Touronne.

Liberi. Anche di godersi lo spettacolo.

Il capitano Rorshe arrivò con tutta calma, probabilmente convinto di essere stato svegliato per l’ennesimo furto andato a finire male, buttò un’occhiata nel vicolo e vomitò anche lui cena e pranzo del giorno prima, insieme a una buona parte della propria già scarsa credibilità. Poi si riprese, ordinò di formare un cordone per tenere lontani i curiosi e cercò di darsi un tono da capo. Fallendo miseramente. Garonne, che sapeva come funzionavano queste cose, fece finta di niente, piazzò i suoi uomini lì attorno e tornò dal superiore.

– Un regolamento di conti tra bande? – ipotizzò Rorshe. – Pare che Caronte sia parecchio agitato negli ultimi tempi.

Il tenente non ne era affatto convinto. – Non è il modo di agire dei Capi, neanche con i loro peggiori nemici. Lo avete visto?

Il capitano dovette sforzarsi per fissare per pochi istanti il cadavere. In realtà dovette sforzarsi anche solo per trovare la parola giusta. Infine la cacciò fuori con quanto disgusto avesse in corpo: – Lo hanno… mangiato?

– Sembrerebbe proprio di sì, signore, – rispose il tenente. – Le gambe e il braccio sono stati strappati… a morsi temo. E anche la faccia. Non sarà facile capire di chi si tra…

Non fece in tempo a finire, il capitano si era allontanato di nuovo, una mano sulla bocca e gli occhi strabuzzati per i conati. Garonne, con un misto di orrore e tristezza, tornò a fissare quel poveraccio. Se ne sarebbe dovuto occupare lui, lo aveva ben capito. Così come aveva capito che quella storia lo avrebbe fatto penare non poco. Da sveglio e nei suoi peggiori incubi.

– Preparatevi!

Il grido improvviso lo riscosse dai suoi mesti pensieri. L’ufficiale della Guardia si voltò di scatto e vide all’imbocco del vicolo due dei suoi che tenevano a fatica uno straccione con lo sguardo da folle.

– Preparatevi! – stava urlando mentre si sbracciava stretto tra i due soldati. – È il primo segno del Risveglio! Preparatevi all’arrivo delle Sorelle. La Notte senza fine è vicina!

Ovvio: l’apocalisse. Con un cadavere in quelle condizioni pazzi come quello ci mettevano meno di un’ora a uscire fuori dai loro cumuli di rifiuti. Garonne, uomo di mondo, sapeva anche questo e di apocalissi ne aveva viste annunciare parecchie. Anche troppe. Nella Città Libera come in mezzo al fango della guerra.

– Buttatelo da qualche parte, purché sia lontano da me! – ordinò sputacchiando ai suoi uomini. Ci mancava solo una buona dose di follia contagiosa.

Un uomo divorato nel suo dannato quartiere gli era più che sufficiente.

Ne sparirono altri cinque nei giorni successivi. Tre vennero ritrovati, ma solo una volta da una prostituta. Gli altri cadaveri vennero scovati dai soldati della Guardia, che a Città Bassa, all’improvviso, erano aumentati a dismisura. Stato d’emergenza. Ovvero: grossi problemi per Garonne, per la sua ulcera e per i suoi nervi.

Grossi, grossi problemi, perché anche quelle persone erano state divorate.

2

Gli studenti di Scienze naturali ne raccontavano tante sul professor Itzak. Le storie poi si facevano ancora più strambe quando varcavano gli angusti confini della facoltà e tutti, dai filosofi della Torre, ai giuristi dell’Aula Magna, ci ricamavano sopra con estrema fantasia e un pizzico di malignità. Non che a Itzak importasse più di tanto: sprofondato com’era nei suoi esperimenti, aveva ben poco tempo da dedicare a detrattori e contaballe.

Senza contare che alcune di quelle storie erano vere.

Una su tutte: Itzak il Vivisettore non dormiva mai. Il vecchio docente viveva ormai da anni nelle sue stanze in facoltà, non ne usciva mai, e ogni volta che qualcuno andava a trovarlo, puntualmente lo trovava al lavoro, piegato su qualche carcassa di animale, immerso nel fetore tipico della decomposizione, delle sostanze chimiche e di un uomo che non si lavava da parecchio tempo. I suoi assistenti, che finché resistevano al suo servizio erano la maggior fonte di informazione per i curiosi, giuravano di averlo visto in quelle condizioni anche in piena notte; sempre con la testa sprofondata nella ferita di qualche bestia, o con le mani che, febbrili, mischiavano formalina, sali e acidi vari. Non aveva un giaciglio nel laboratorio; neanche una poltrona. La conclusione giungeva spontanea e Itzak non faceva niente per smentirla.

Nessuno lo vedeva quando chiudeva gli occhi per alcuni minuti, a intervalli regolari, e si lasciava andare a quelle che per lui erano soste necessarie per rilassare il cervello prima di un nuovo esperimento. Nessuno poteva sapere che anche Itzak, in quella specie di dormiveglia, riusciva per pochi istanti a sognare, dilatando quel tempo brevissimo in lunghissimi viaggi onirici. E anche lì, in quel suo mondo segreto, ragionava e creava.

Come quella notte.

Itzak era sprofondato nella nebbia, forse perduto in un vicolo di Touronne. No, non un vicolo: un sotterraneo. Umido, pieno di vita marcescente che gli guizzava attorno, con il pavimento ricoperto da un tappeto di vermi, blatte e scutigere, le pareti vibranti di ali di falena, il soffitto dominio assoluto di milioni di ragni. Estasiato, il professore avanzava tra le ombre, guidato dalla luce di alcuni funghi luminescenti, andando sempre più a fondo. Ricordava quei luoghi, li aveva già visitati. Da sveglio, quando avevano trovato… lui. Maestoso, gonfio nel suo letargo millenario, pulsante di energia. Lo stava chiamando, era andato a cercarlo nel suo sogno, lo voleva. E Itzak voleva lui: per la sua più grande ricerca, per portare a termine i suoi studi, per essere venerato da quella comunità scientifica che lo riteneva poco più che un alchimista ciarlatano.

Quando aprì gli occhi, Itzak non fu sorpreso nel trovarsi davanti Ademar. Né lo colsero impreparato le parole dell’assistente.

– Si è svegliato, professore – Il giovane ricercatore aveva le lacrime agli occhi. – È incredibile, è…

Il professore si riscosse completamente dal suo sonno e sorrise soddisfatto. – Perché è incredibile? Non ti fidavi di me?

Ancora troppo agitato, il ragazzo balbettò qualche parola di scusa, che prontamente Itzak ignorò. Ademar era il più resistente di tutti, aveva dato più volte prova di poter sopportare quello che faceva lì dentro il Vivisettore. Era anche l’unico a poter svegliare il professore quando sprofondava in quello stato di trance. Uno di cui fidarsi. Ma pur sempre una mente inferiore, un moccioso che pendeva dalle labbra di un genio senza capire realmente.

No, nemmeno Ademar gli aveva mai creduto, anche lui non si era fidato quando Itzak lo aveva condotto per la prima volta nella vecchia aula sigillata sotto la facoltà. La creatura dormiva da quando l’aveva trovata nei sotterranei della città. Anzi, dormiva da molto prima, forse da quando ciò che esisteva prima di Touronne era crollato ed era stato dimenticato, imprigionando segreti e misteri sotto tonnellate di rovine. Millenni con ogni probabilità. Millenni di letargo. Ma ciò nonostante, Itzak ne era sicuro. Bastava un cambiamento, una variazione nell’ordine che reggeva Touronne e il mondo racchiuso in quelle mura. Infine, negli ultimi mesi, quel mutamento c’era stato, lo si respirava nell’aria malata di Città Bassa, lo si percepiva dai colori del cielo sopra le due colline, da come il sottosuolo stesso pulsasse in maniera anomala. Itzak, che osservava tutto da decenni, lo aveva capito subito. E nel frattempo aveva continuato a curare la sua cavia più splendida.

– Il Verme, professore, – continuava a ripetere l’assistente, emozionato. – Il Verme è sveglio!

Certo.

Non poteva essere altrimenti.

3

Le urla disumane di Ricard l’inserviente li inseguirono per tutta la grande aula abbandonata, e poi anche oltre il grosso portone rinforzato che il professore aveva fatto piazzare lì per nascondere il suo più grande lavoro. Urla adesso più soffuse, ma non meno strazianti, accompagnate da un altro suono, più basso, più gorgogliante.

Il verso della creatura che si godeva il suo primo pasto dopo tanto, tanto tempo.

Tutto tornò a calmarsi in pochi secondi. Un silenzio sporco di paura e tensione calò sui tre uomini.

Col volto imbrattato del sangue del suo collega, Vinicio si staccò dalla porta di nuovo sigillata e si accasciò a terra. Sconvolto. Ademar non poteva biasimarlo: solo per puro caso, il professor Itzak aveva chiesto a Ricard, e non all’altro inserviente, di avvicinarsi al Verme con un pezzo di carne. Per capire se avesse fame.

Oh, se ne ha, pensò Ademar con l’animo stravolto dalle più molteplici emozioni. Terrore, sopra a tutte le altre, ma anche eccitazione, impazienza… gioia. Ha tanta fame, e ne avrà sempre di più.

Ademar lo sapeva. Lo percepiva. E tutto perché, dopo mesi e mesi di attesa, finalmente aveva visto il Verme svegliarsi; lo aveva visto aprire quei grandi occhi neri, liquidi, brillanti di una malignità antica più dell’Uomo. Uno sguardo che si era posato sul Mondo Ancestrale, quando le leggi erano altre, quando la materia stessa non aveva senso e tutto era caos ribollente e aggrovigliato. Dove la vita non aveva limiti.

Il professore non si sbagliava. E anche Ademar non aveva sbagliato a seguirlo con tanta insistenza. Grazie a lui avrebbe raggiunto le vette più elevate della conoscenza. E poi oltre, come Itzak gli aveva promesso.

Eccolo lì il vecchio, entusiasta come un bambino, l’espressione febbrile di chi ha raggiunto il proprio obiettivo. Poco importava se pochi secondi prima, al momento del primo pasto, la bestia non si era accontentata del manzo che le avevano portato e aveva allungato quelle strane fauci dentate verso il povero Ricard. Era solo un dettaglio se il Verme, con quella bocca e con una voracità impensabile, aveva staccato la testa dell’inserviente con un solo morso, per poi accanirsi sul resto del corpo sbavando liquami scuri e bile acida. Anzi, non un dettaglio: un appunto da prendere, qualcosa da analizzare a fondo.

Ovvio, quando la creatura si fosse saziata.

Passata l’emozione iniziale e smaltita la paura per la precipitosa fuga, Ademar tornò a ragionare e intuì che di quell’aspetto, con ogni probabilità, se ne sarebbe dovuto occupare lui.

Non sbagliava.

– Ademar, trovagli da mangiare.

L’ordine del professore arrivò inesorabile, come previsto. Ciò nonostante, l’assistente volle essere sicuro di aver capito bene: – Professore, intendete proprio quello? Parrebbe che alla bestia piaccia…

Itzak scattò furibondo: – Non chiamarla “bestia”! Possibile che tu non abbia colto? C’eri anche tu lì dentro, hai visto che si tratta di qualcosa di più… di più complesso!

Ademar aveva colto eccome, non era stupido come pensava il professore; ma aveva anche appena assistito allo spettacolo di un animale intento a divorare un essere umano come il più feroce dei predatori. Ma se così voleva Itzak, lui non avrebbe di certo obiettato.

– Il Verme, signore. – Era il nome utilizzato in tutte le loro ricerche. Forse non meno dispregiativo di bestia, ma sicuramente più corretto da un punto di vista scientifico. Se di scienza si trattava. – Il Verme pare prediligere la carne… umana. Io davvero non saprei come…

– Non prendermi in giro, – lo interruppe di nuovo. – So da dove vieni e dove sei cresciuto. Sei di certo un passo avanti rispetto ai tuoi simili, ma ricorderai ancora come muoverti in certi ambienti.

Era vero, Ademar aveva qualche possibilità in più, e anche un paio di idee. Ma, dannazione, adesso era un accademico dell’Università di Touronne, una persona civile, uno studioso con un futuro brillante davanti a sé. Non voleva. Non poteva.

Itzak dovette cogliere i suoi dubbi e con un’espressione da faina che gli si dipingeva sul volto rugoso, gli si avvicinò. – Ormai basta solo una mia firma, lo sai Ademar. Un’ultima firma e sarai professore anche tu, avrai la tua cattedra, i tuoi stupidi allievi. Mai nessuno della tua risma era arrivato a tanto. Sarà il premio per essermi sempre stato a fianco, per non esserti arreso nemmeno oggi. Procurami del cibo per la mia creatura.

Una sola firma. Un’ultima, fottuta firma. Ma non era questo, no: Ademar non aveva mai visto il Vivisettore così dipendente da lui. Quel genio aveva bisogno del suo aiuto. La firma in effetti sarebbe stata solo una formalità: già in quel momento, per quella ricerca, loro erano alla pari. Indispensabili l’uno all’altro per poter studiare quella magnificenza vorace al di là del portone rinforzato. In fondo bastava così poco…

– Va bene, – si decise alla fine.

Itzak sorrise soddisfatto. Poi si avvicinò a quel poveraccio di Vinicio, lo tirò su per la tunica da inserviente sporca di sangue umano e gli infilò in una tasca un sacchetto tintinnante – Non voglio mettere altra gente in mezzo, tu mi servi ancora. Questo è solo un anticipo, te ne darò altri.

Prendendoli da quali fondi? si chiese Ademar. Lo stesso inserviente non pareva affatto convinto, sconvolto com’era dall’improvvisa dipartita del collega, e forse conscio della situazione economica in cui versava il Vivisettore.

Ma il giovane non aveva altro tempo da perdere. Li lasciò così alle loro contrattazioni e filò via. Per tornare dove era nato.

Li trovò esattamente dove si aspettava di trovarli. I Ratti di Touronne, quell’informe moltitudine di bambini e ragazzini dalla schiene curvate da anni passati nelle fogne, dai vestiti stracciati, dalla pelle incrostata di sudiciume e malattie, vivevano nelle zone più calde del sottosuolo e uscivano unicamente per le loro razzie, qualche furtarello e, in generale, per inorridire la gente che viveva di sopra. Anche il più pezzente degli abitanti di Città Bassa, o delle baraccopoli, o addirittura di Sottomura, provava disgusto e fastidio davanti a quei portatori sani di scabbia e colera, nessuno poteva sopportare anche solo un loro rapido passaggio. L’aria ne veniva irrimediabilmente contaminata, senza scampo. Ma la Città Libera accoglieva tutti, che fossero mercanti e criminali, santoni ed eretici, mercenari e cavalieri. E allora anche i più disgraziati tra i disgraziati, che andavano così ad animare le sue profondità più recondite, proprio sotto i piedi dei liberi cittadini.

A pensarci bene, il professore aveva detto di aver trovato il Verme proprio nel territorio dei Ratti. Ademar sorrise al pensiero del vecchio calato tra i liquami delle fogne, ma tornò subito serio perché era arrivato.

Lui era stato un Ratto. Per poco tempo, certo, poi era stato uno di quei fortunati raccattati dalle opere pie che nascevano e morivano in città a seconda dei colpi di testa del riccone di turno. Erano passati tanti anni, ma il suo naso non aveva dimenticato. E ancora resisteva. Ecco perché non arretrò quando, tutto d’un tratto, si ritrovò circondato. Ecco perché restò calmo, con il volto sereno. Amichevole.

Questo almeno fino a quando, illuminate da un lampione sbilenco, non vide le loro di facce. In mezzo alla sporcizia, poteva scorgere macchie più fresche e qualche goccia nera che colava già dai menti di un paio di loro. Erano quattro e sorridevano in maniera inquietante, rivelando denti marci ma affilati, sporchi anche quelli. Grondanti di sangue.

Fu a quel punto che Ademar smise di essere tranquillo. Quei Ratti erano diversi. Corse quindi subito ai ripari e giocò di anticipo.

– Volete mangiare?

I quattro sghignazzarono all’unisono e fecero un passo avanti. Prese la parola quello di fronte all’assistente.

– Sì. Mangiare, – disse avvicinandosi ancora di più, come un capo branco che attacca per primo la preda. – Adesso mangiamo.

– No! – fece Ademar allungando un braccio davanti a sé con il palmo aperto e iniziando a girare su se stesso, rivolgendo l’altro palmo verso i Ratti attorno a lui. – Volete mangiare… molto di più?

I ragazzini si bloccarono. I Ratti non riuscivano a mettere più di qualche parola in fila per una frase di senso compiuto, ma capivano sempre al volo quello che si diceva loro, specie quando c’era da guadagnare qualcosa.

Ademar colse l’occasione al balzo: – Io vengo da sotto. Sono nato tra la Fossata e lo Scolo, dove c’è il raduno dei Sangue di Pesce. Sono uno di voi.

– E come ti chiami? – chiese il capo, improvvisamente rabbonito e con gli occhi pieni di curiosità da bambino.

– Addo, – rispose prontamente il ricercatore. – E voglio portarvi a mangiare bene. A mangiare tanto. Siamo amici, no?

Chiuse le bocche e ritirati i denti insanguinati, i quattro si fecero avanti e cominciarono ad annusarlo e toccargli la tunica, le mani, il viso. Ademar, ancora spaventato, si lasciò comunque imbrattare per bene, trattenendo il tremore che gli partiva dalla schiena. Quando infine lo lasciarono andare non poté trattenere un sospiro di sollievo. Quelli, in ogni caso, non se ne avvidero.

– Io sono Uoba, – disse il capo del gruppetto. – Loro Scinco, Tina e Manolenta. Veniamo con te.

Ademar sorrise. – Sono contento. Seguitemi, andiamo a cena.

E, in fondo, non stava mentendo.

4

Puzzavano ed erano brutti.

Quelle sulle loro teste arruffate erano pulci, proprio come sui veri topi di fogna, e quei bubboni che comparivano qua e là sulla loro pelle erano in realtà zecche grosse come mosche. Malati, sicuramente.

Itzak, superato il disgusto, pensò per qualche secondo di mandarli al diavolo e di punire severamente Ademar, che con quei ragazzini rischiava seriamente di danneggiare il Verme. Nonostante ciò restò calmo e infine decise che andavano bene. Del resto era stato lui ad affidarsi alle orride conoscenze del suo assistente, non poteva sperare in niente di meglio. E poi nessuno in città si lamentava quando sparivano tre o quattro Ratti. Nessuno se ne accorgeva.

– Benvenuti, miei piccoli amici, – riuscì a dire trattenendo un conato e avvicinandosi ai quattro reietti. – Oggi mi darete un grande aiuto.

Uno della banda si fece avanti sfoderando i suoi denti da animale. Sorridendo come una iena del Meridio.

– Vogliamo mangiare, – disse. – Portaci da mangiare o mangiamo te.

Il Vivisettore trasecolò, spaventato e affascinato allo stesso tempo. Che bizzarra creatura! Un cannibale, a quanto pare. Quasi quasi gli sarebbe piaciuto fare degli studi anche su di lui e sugli altri esserini delle fogne, ma quello non era il momento. Doveva però ricordarsi di chiedere altre cavie al suo assistente. Per quella firma, poi, c’era sempre tempo.

– Allora cosa stiamo aspettando? – esclamò il professore fingendo – malissimo – di essere un amorevole benefattore. – Seguitemi!

Nonostante la fame evidente, il gruppetto non si mosse finché non fu Ademar a farlo. Si fidavano di lui, forse perché aveva addosso ancora il vecchio odore da Ratto, o chissà per quale altro strano motivo legato alla sua vita precedente. Itzak lasciò fare. Così l’assistente guidò la spedizione, seguito dai quattro ragazzini ricurvi. Per ultimi, il professore e Vinicio, che si era convinto solo dopo la terza sacchetta d’argento. L’ultima a disposizione di Itzak; l’ultima prima del tracollo di ogni sua ricerca. Presto non avrebbe avuto neanche più i soldi per mangiare.

Ma che vado dicendo?! Presto sarò ricco. Ricco e rispettato! Manca davvero poco ormai.

Era vero: gli sarebbe bastato placare l’appetito della sua creatura, cullare dolcemente il suo risveglio da quel letargo millenario e poi… e poi il Vivisettore avrebbe fatto il suo lavoro, rivelando a tutta la comunità accademica di Touronne e del Continente le meraviglie del Mondo Ancestrale, le caratteristiche degli animali che lo popolavano, gli immensi tesori degli eoni passati. A quel punto i soldi per gente come Vinicio non sarebbero certo stati un problema.

Giunsero infine davanti al grosso portale sigillato, ovviamente passando per corridoi poco utilizzati e aprendo porte di cui solo Itzak e qualche pezzo grosso possedevano le chiavi. In facoltà, a parte il professore, il suo assistente e qualche inserviente selezionato, solo il Rettore e pochi altri sapevano di quelle stanze sotterranee. Erano abbandonate, gliele facevano usare senza troppi pensieri. Del resto Itzak era il Pazzo, e i pazzi vanno assecondanti. “Facciamogli pure fare i suoi strambi esperimenti! Almeno finché non dà fuoco alla Facoltà!”

Ridevano mentre dicevano cose come queste. Si prendevano gioco di lui e intanto aspettavano che andasse in pensione. Idioti madornali! Proprio in quelle stanze Itzak aveva accudito in segreto il sonno dell’animale più raro al mondo. Proprio lì avrebbe dato vita a un nuovo paradigma per la scienza!

– Professore, noi siamo pronti, – disse Ademar riscuotendolo dai suoi sogni.

– Qui mangiamo? – chiese il capo della banda di Ratti.

Ignorando la faccia viola di Vinicio e il suo continuo deglutire, Itzak si fece avanti e inserì una vecchia chiave arrugginita nella complessa serratura del portale.

– Prego, amici miei, – li invitò a entrare. – Di qua.

I Ratti scattarono rapidissimi e si infilarono dell’aula abbandonata, incuranti del buio e del fetore che regnavano lì dentro. Itzak e l’inserviente, lesti, richiusero il passaggio.

Le grida cominciarono subito dopo. Grida di bambini terrorizzati, indifesi come qualsiasi moccioso davanti ai mostri dei suoi incubi. Bambini, come tanti altri. Prima. Adesso elemento fondamentale per gli esperimenti del professor Itzak.

Quattro, per di più: se non fossero bastati quelli a placare la fame del Verme, le cose si sarebbero complicate non poco; Ademar avrebbe dovuto ripescarne dalle fogne altri ancora. La creatura sembrava però gradire e gorgogliava felice, riempiendo i sotterranei della Facoltà di un suono basso e vibrante che scuoteva pareti, stomaci e cuori.

Sicuramente quello di Ademar, che sudava e tremava, gli occhi sbarrati fissi sulla porta, un incisivo sporgente che lacerava spasmodico il labbro inferiore. Vinicio poi, neanche a dirlo, se ne stava accucciato in un angolo, le mani sopra le orecchie, i nervi ormai al limite.

D’un tratto però le urla cessarono, e con esse il verso dell’animale. Fu un solo momento. L’improvviso silenzio, fragile come cristallo, fu infranto da un primo suono, accompagnato da altri tre simili. Risate. Gridolini gioiosi, maligni. Poi qualche altro rumore soffuso, qualcosa che cadeva, che si infrangeva a terra, dei richiami. Altre risate.

Per ultimo, l’ululato di sofferenza più forte che un orecchio umano avesse mai potuto udire.

Tanto potente da sembrare in grado di scardinare il portale di legno rinforzato; talmente spaventoso da atterrire i tre uomini davanti a quella porta, schiacciandoli contro le pareti alle loro spalle, per poi proseguire su per le scale e lungo i corridoi della Facoltà.

Fino a fuori, avvelenando la notte di Touronne con il dolore di una bestia millenaria.

5

Passi rapidi e leggeri che risuonarono nel sotterraneo, un rumore metallico; poi la quiete più assoluta.

Più agghiacciante.

Nessuno trovava il coraggio per aprire bocca. Men che meno per muoversi, per fare qualcosa. Per aprire la porta. Ademar, consapevole di essere la possibile causa di un disastro, se ne stava col capo chino, incapace di incrociare lo sguardo con quello del professore. Ma lo sentiva, oh se lo sentiva! Fisso su di lui, furibondo, di fuoco puro.

Stranamente, fu Vinicio a parlare per primo: – Cosa è successo lì dentro? Professore, forse dovremmo avvertire…

– Zitto! – scatto Itzak. – Devi stare muto! Muto! Apri il portale.

L’inserviente della Facoltà non si mosse, rifiutando la chiave che il vecchio gli stava consegnando.

– Professore, io…

– Apri tu allora!

Ademar alzò finalmente gli occhi e incontrò quelli di Itzak. Ne fu terrorizzato. Il Vivisettore stava per esplodere, ma si tratteneva. Aspettava solo di avere una conferma. E intanto offriva a lui le chiavi della stanza abbandonata.

Vuole che sia io il primo a scoprire quello che è successo là dentro, pensò avvilito l’assistente, è così che intende iniziare a punirmi.

Il giovane ricercatore non si tirò indietro. Non poteva farlo. Allora afferrò il mazzo arrugginito e con mano tremante sbloccò il complesso chiavistello del portale. Senza attendere altri ordini, entrò nell’aula.

Mozziconi di candele illuminavano il perimetro della sala, incrostando di cera gli angoli più remoti del vecchio luogo di studio e proiettando ombre di un nero liquido sul pavimento e lungo le pareti ammuffite. Tutt’intorno, fatti a pezzi dal tempo, decine di sedili inutilizzati da anni; al centro, la grossa cattedra sulla quale il Verme aveva passato la fase finale del suo letargo.

Puzzava nell’aula. Ademar, che aveva il naso assai buono, venne schiaffeggiato dal fetore. Tanfo di Ratto, ma non solo. Afrore di morte. A terra, l’origine del pestilenziale odore.

– Che tu sia maledetto!

Il sibilo giunse affilato alle sue spalle.

– Professore…

Itzak non gli diede tempo per giustificarsi in alcun modo. Ademar si era appena voltato quando vide partire la mano adunca del vecchio, che gli artigliò il volto feroce come una fiera. Senza pietà. Con una mano sul volto insanguinato, Ademar si piegò per il dolore e per la sorpresa, dando modo al professore di colpirlo ancora, stavolta sulla nuca e poi, con un calcio, dietro al ginocchio. La rabbia, o forse la follia, davano una forza inumana a quell’uomo decrepito, che continuò così a bersagliare di calci e pugni il suo allievo ormai in ginocchio, mentre indemoniato inveiva contro di lui. Ademar avrebbe potuto reagire, ma era paralizzato dalla vergogna. Dalla consapevolezza di aver deluso l’uomo che poteva accompagnarlo verso la vetta. Invece si trovava lì, steso al suolo, ai suoi piedi, circondato dai resti strappati a morsi del Verme, dalla sua viscida carne fibrosa, dagli umori che aveva espulso mentre veniva divorato dai Ratti. Dai ragazzini che Ademar stesso aveva scelto e condotto lì.

L’assistente nemmeno si accorse che Itzak aveva smesso di colpirlo. Dolorante, alzò la testa e vide il professore e Vinicio seguire incurvati una scia di liquame che partiva dalla carcassa della creatura e scorreva vischiosa verso un angolo remoto della stanza. Una grata scardinata giaceva là vicino. La linfa scura della bestia colava nell’apertura rimasta scoperta. Da dove erano scomparsi Uoba e i suoi compagni.

Vinicio sottolineò l’ovvio: – Quei piccoli bastardi sono scappati.

Itzak, chino su quello che restava del suo esperimento, si bagnò le punta delle dita nel liquido, pensoso. Infine si alzò con un’espressione preoccupata dipinta tra le rughe sempre più profonde. Gettò prima uno sguardo al passaggio aperto nel pavimento, poi si guardò attorno.

– Chiudi quell’affare, – ordinò all’inserviente. – Sbrighiamoci ad andare via.

Non aspettò oltre e si diresse verso l’uscita. Aveva già oltrepassato il portale quando si voltò verso il suo assistente ancora steso a terra.

– Non farti più vedere, lurido mentecatto.

Seguito da Vinicio, Itzak il Vivisettore sparì così, lasciando un Ademar affranto in quel luogo di ombre e decomposizione. Il giovane si trascinò fino alla parete, vi si appoggiò e se ne stette lì, intorpidito dal silenzio e dal calore nauseabondo del sotterraneo.

La parte più consistente di ciò che restava del Verme era lì davanti a lui, a pochi metri. Una massa informe di filamenti e cartilagine elastica, di organi alieni e materia celebrale. Non c’era una testa, né una coda; solo un gonfio corpo segmentato poggiato su un’infinita serie di peduncoli troppo corti, inutili. All’apice di quel fuso di carne sudata, un muso. C’era stato, Ademar lo sapeva. Ma era stato strappato a morsi. I grandi occhi era scomparsi, mangiati probabilmente; anche la bocca dentata che aveva ucciso Ricard non era più distinguibile.

Avvilito, il giovane provò ad alzarsi, barcollò mentre la stanza gli girava attorno, quindi crollò di nuovo in ginocchio e vomitò. Chino su quello che aveva rigettato, si ritrovò a palpeggiare con la mano destra qualcosa di morbido.

E di incredibilmente succulento.

6

Itzak comprese di non avere più scampo non appena riemersero dai sotterranei della Facoltà

L’urlo bestiale del suo Verme pareva aver svegliato ogni singolo professore e studente in quel dannato posto e ora i corridoi dei piani superiori erano pieni di vecchi in pantofole e ragazzi dall’aria confusa che si chiedevano cosa fosse successo. Molti di loro, poi, vedendo passare il Vivisettore, annuivano con una smorfia, trovando una facile risposta alle loro domande. Itzak, mentre filava via, faceva finta di ignorarli, ma dentro di sé schiumava rabbia per gli sguardi di commiserazione e di rimprovero con cui lo stavano bersagliando.

Per quello, e per il misero fallimento della sua più grande opera. Non riusciva a crederci. Non era possibile. Anni e anni di lunga attesa, di preparazione, mandati all’aria proprio nel momento culminante. Gli mancava così poco per ergersi sopra tutte quelle capre dell’università!

– Itzak!

La voce tonante del Rettore Vascar lo riportò a terra dolorosamente, ricordandogli che i suoi problemi erano appena cominciati.

– Rettore, – salutò voltandosi verso il suo superiore e chinando umilmente il capo. Umilmente! Lui che aveva scovato nei recessi più infimi di Touronne l’ultimo resto di un’era passata. Lui che aveva accudito la creatura fino a farla tornare in vita. Lui, Itzak il Vivisettore, lo scienziato più illuminato di tutto il mondo civile!

Vascar non sembrava pensarla alla stessa maniera.

– Maledetto folle, – gli inveì addosso avvicinandosi in vestaglia, seguito da due inservienti e preceduto da quella sua pancia enorme. – Ci sei tu dietro a tutto questo, vero? Cos’era quell’urlo?!

– Rettore, voi non capite…

– Ah, io capisco benissimo, vecchio pazzo. Capisco di aver sbagliato a tenerti ancora così a lungo tra di noi, e capisco che hai perso il controllo della cosa che ti facevo tenere nascosta lì sotto. Cos’è, credevi che non ne sapessi niente? Quello schifo immondo…

Itzak non era abituato a essere interrotto. Di solito, era lui che interrompeva gli altri, che stroncava sul nascere patetiche scuse. Né tanto meno era avvezzo alle umiliazioni. Ma soprattutto non poteva permettere che quel ciccione arrogante insultasse a quel modo la sua creatura. Non poteva permetterlo, anche a costo di essere buttato fuori dall’università. Lo avrebbe colpito, avrebbe sfregiato anche lui come aveva fatto con Ademar; avrebbe sfogato la rabbia infinita che gli ribolliva ancora dentro. Oh sì, lo avrebbe fatto… se solo, all’improvviso, le ombre attorno a loro non si fossero animate.

Per primo comparve quello che doveva essere il loro capo, curvo come gli altri, ma più robusto. Saltò addosso al Rettore prima che lo facesse Itzak, aprendogli la gola con una feroce artigliata. Vascar arretrò terrorizzato, una mano sullo squarcio a cercare di tamponare il fiotto di sangue, un’altra davanti a lui, come a voler tenere lontano il giovane Ratto. Ma questo non si fece intimorire, e prima che chiunque altro potesse tentare una reazione, attaccò ancora, puntando stavolta direttamente al volto del professore.

I due inservienti alle sue spalle, dopo un attimo di smarrimento fin troppo lungo, provarono a intervenire, ma altri due Ratti li presero da dietro, avvinghiandosi con le braccia scheletriche alle loro teste e azzannandoli al collo.

Durò tutto meno di un secondo. L’immagine cristallizzata fu infranta dal grido isterico di Vinicio, che non ci pensò due volte a rifilare una spallata a Itzak e a svignarsela, evidentemente al culmine della sopportazione. Non andò lontano. Spinto verso la parete dalla mole dell’inserviente, Itzak lo vide fare appena qualche passo prima di essere intercettato dall’ultimo Ratto, una ragazzina indemoniata che gli fece lo sgambetto, per poi salirgli sulla schiena e iniziare a colpirlo sulla testa con i pugni chiusi.

Fu allora, mentre ognuno era alle prese con la propria preda, che Itzak ebbe modo di osservarli per bene. E da scienziato ne fu estasiato.

Non più umani, ma qualcosa di diverso. Di mutato, di alterato da una forza primordiale che adesso scorreva nelle loro vene. Fu il loro capo-branco il primo a mostrargli la nuova meraviglia. Accovacciato sul ventre spalancato di Vascar, il ragazzino alzò per un attimo la testa, rivelando due occhi felici e, sotto di essi, un’enorme bocca circolare, gremita di zanne triangolari, piena fino a scoppiare delle viscere ancora pulsanti del Rettore. Fauci ancestrali che Itzak aveva già visto in azione mentre divoravano l’inserviente Ricard. Le fauci del Verme.

E non solo: artigli, anche, e una pelle grigia che sembrava elastica e resistente allo stesso tempo, oltre a una forza straordinaria. Quegli occhi poi, sorridenti e maligni, non neri e liquidi come quelli della creatura, ma rossi, da topo di fogna. Un’evoluzione! Quello era lo stadio successivo che il Verme attendeva da millenni. Libero da quel suo corpo obeso, ora lui riviveva nelle agili sembianze dei Ratti. E tramite loro continuava a mangiare. Affamato per l’eternità.

Una scoperta sensazionale, quella che cercava da sempre. Itzak ne fu estasiato. Ce l’aveva fatta e l’aveva dimostrato anche al dannato Rettore, che era ancora vivo mentre veniva divorato e non poteva non aver compreso il genio del Vivisettore!

Presto però, all’entusiasmo del ricercatore, si sostituì una tremenda consapevolezza: quelle bestie avrebbero mangiato anche lui. Non poteva studiarli in quelle condizioni, aveva bisogno di inservienti, di qualche nuovo assistente… di catene, di molte catene. Di tempo soprattutto. Che non gli concessero.

– Noi abbiamo ancora fame, – sibilò la bambina sul cadavere di Vinicio, le manine ancora infilate in un buco aperto nel cranio dell’uomo, la grande bocca rotonda sporca di materia grigia.

– Ci avevi detto che ci davi da mangiare, – aggiunse un altro, intento a staccare poco per volta la testa di un inserviente dal suo corpo maciullato.

– Mangiare!

– Mangiare!

– Mangiare!

Cantavano la loro litania e intanto si avvicinavano i quattro mostri, lenti, letali come un branco di lupi affamati dall’inverno. Sempre più vicini. Al centro, Itzak, incantato dalla loro bellezza, dal terrore, da quelle bocche enormi.

Suoni in fondo al corridoio. Qualche richiamo. Ombre danzanti di torce che si avvicinavano. Tanto bastò per distrarli un attimo e per riscuotere il professore, la cui mente riprese subito a ragionare. Doveva scappare, sì. Ma doveva anche portarli via, non farli vedere a nessuno. Farsi inseguire. Verso dove? Per fare cosa?

Domande senza risposta, non in quello stato. Itzak allora si mosse d’istinto. Afferrò una torcia appesa alla parete e corse via dalla parte più sguarnita, quella occupata dal corpo di Vinicio e dalla mocciosa. Questa, colta alla sprovvista, reagì solo all’ultimo istante, saltando verso la gola del vecchio e artigliando a caso. Colpì a casaccio anche il Vivisettore, che normalmente avrebbe operato di bisturi, con precisione assoluta, ma che ora aveva solo una torcia a disposizione. La centrò al collo, forse spezzandoglielo, forse no, perché la bambina, atterrata ai suoi piedi con il capo reclinato in modo innaturale, pareva essere ancora viva e vegeta. Itzak affondò quindi una seconda mazzata dritta sul volto della bestia, cancellandole i lineamenti deformati con il fuoco e la violenza della disperazione. Finalmente la bimba urlò e si accasciò al suolo, permettendo al professore di continuare la sua fuga.

Dietro di lui, passi rapidi. Itzak, senza nemmeno voltarsi o rallentare, scardinò dal muro un grosso dipinto a olio raffigurante qualche vecchio Rettore e lasciò cadere dietro di sé la torcia. Avvertì appena il crepitio del quadro che prendeva fuoco mentre si gettava a perdifiato lungo i corridoi dell’antica Facoltà di Scienze naturali, fiore all’occhiello dell’Università di Touronne.

Quando arrivò nelle sue stanze private, altre urla si stavano già alzando in tutto l’edificio, ma lui non se ne curò. Chiuse la porta alle sue spalle e corse ad accendere quante più candele possibile, pensando nel frattempo a cosa fare per risolvere quella situazione. Circondato da bestioline sotto salamoia, animali imbalsamati, teche di insetti crocifissi e da una miriade di boccette piene di sostanze chimiche, Itzak girava vorticosamente su se stesso e pensava, pensava, pensava. Pensava al niente, perché la sua mente geniale si era svuotata di ogni idea per riempirsi solo di pura pazzia e nebbia. Alla fine crollò in un ammasso di arti rinsecchiti e vesti troppo larghe, si accasciò disperato e provò a chiudere gli occhi.

Ecco, sì, devo solo riposarmi, sgombrare la testa, trovare pace e concentrazione.

Varcò subito la soglia di quel suo personale mondo dei sogni e sprofondò… Fino a ritrovarsi in un altro luogo, dopo un viaggio lunghissimo che lo aveva condotto attraverso le fogne di Touronne, oltre i suoi sotterranei dominio assoluto delle blatte e dei vermi, dentro grotte mai esplorate da uomo mortale. Fino a un mondo libero dalla forma e dalla materia, dove il caos modellava secondo la sua folle volontà creature senza senso, alberi contorti, sconfinate paludi di liquami ribollenti. Uno strano satellite verde riluceva in cielo e grondava sangue sulla terra. Ogni goccia che toccava il suolo creava pozzanghere di acido da cui si levavano tentacoli supplicanti verso la luna malata. Tra i tentacoli, striscianti verso una misteriosa meta, milioni di Vermi avanzavano e spalancavano le bocche. In cerca di cibo. In cerca di Itzak il Vivisettore, che in piedi sull’unica altura di quella terra senza confini, attendeva di essere divorato.

Si svegliò di soprassalto, per nulla illuminato dal suo sonno ristoratore, sudato e sconvolto. Ad aspettare il suo risveglio, sorridenti e con le lunghe lingue che serpeggiavano tra le zanne, i Ratti se ne stavano lì a pochi passi.

– Adesso ti mangiamo.

Itzak si mosse senza pensare, ché tanto ormai era del tutto inutile. Al diavolo l’esperimento, alla malora la gloria eterna. Voleva solo sopravvivere, voleva tutto tranne essere risucchiato in quel mondo di orrori che aveva appena visitato. Si alzò di scatto e si buttò sul suo tavolo da lavoro proprio mentre i due ragazzini più piccoli gli azzannavano le caviglie e il loro capo si buttava sulla sua schiena. Ignorando il dolore, Itzak si sbracciò forsennatamente e colpì boccette e candele, gettando contro i tre predatori un getto di fuoco liquido che avvampò all’istante. Avvolto dalle fiamme, il capo-branco prese a gridare, non più animale feroce, ma semplice bambino sofferente. Si agitò come un ossesso e finì col contagiare col fuoco azzurro e verde il suo compagno più vicino e lo stesso Itzak, la cui veste era già imbrattata di sostanze vischiose. Il vecchio si alzò a fatica e riuscì a liberarsi dalla tunica, ma finì con l’inciampare e cadde rovinosamente contro un basso tavolinetto, sbattendo la testa e crollando senza più difese.

Quando riaprì gli occhi, poco dopo, l’ultimo Ratto, un esserino senza una mano ma con l’altro arto mutato in un artiglio ricurvo grosso come uno pugnale, si stagliava contro il fuoco multicolore proprio sopra di lui.

– Mangiare.

Itzak vide quello che successe subito dopo come attraverso un filtro sfocato, come se fosse immerso in una vasca piena d’acqua che prendeva fuoco. Vide la bestia deforme, il suo artiglio e la sua bocca farsi sempre più vicini. Poi ci fu un movimento troppo rapido, un breve scontro, e la testa del ratto spiccò via dal corpo. Dietro di lui, giunto a salvarlo, c’era Ademar, che sorrideva soddisfatto mentre lo portava via dalla stanza in fiamme.

E da quell’incubo.

7

Gli firmò l’accesso alla cattedra senza troppi pensieri, in parte realmente grato per quello che Ademar gli aveva fatto durante la notte del grande incendio, ma soprattutto perché troppo debole e sconvolto per potersi opporre alle semplicissime argomentazioni dell’assistente.

Ex, pensava orgoglioso il giovane mentre il vecchio di fronte a lui firmava le ultime carte. Ex assistente. Ora professore. Il primo uscito dalla fogna a riuscirci. Io.

Professor Ademar, della Facoltà di Scienze naturali dell’Università di Touronne, attualmente priva della metà della sua sede fisica, distrutta nel disastroso incendio di pochi giorni prima, ma pur sempre una delle più rinomate nell’ambiente accademico del Nord.

Professore, sì, proprio come Itzak il Vivisettore, con il quale condivideva il segreto di ciò che era avvenuto quella notte, delle forze che si erano scatenate e avevano finito col consumare Itzak stesso, che pareva invecchiato di cento anni, e che certo non era stato risparmiato dalle fiamme.

Ademar sorrise: la giusta punizione per aver sottovalutato un simile potere. Il neo professore aveva infine capito chi fosse davvero quel vecchio idiota che con una mano tremante e bruciacchiata stava mettendo nero su bianco il loro essere ormai alla pari. Anzi, adesso era proprio Ademar a ritenere insopportabile la cosa. Chi si credeva di essere quel pazzo? Lui che aveva fallito, che aveva sbagliato tutto… lui che non si era evoluto!

Firma quei dannati pezzi di carta,renditi utile per un’ultima volta… poi togliti di mezzo.

Paziente, Ademar attese che Itzak finisse. Dopo l’ultima sigla, il vecchio alzò lo sguardo spento e fissò il suo nuovo collega. – Ecco fatto. Era quello che volevi. Ora vattene, per favore.

Ovvio, se ne sarebbe andato. Non avrebbe sopportato un minuto di più la voce di quell’uomo, il disprezzo che nonostante tutto tracimava ancora da ogni sua espressione, in ogni suo schizzo di saliva che partiva da quella ignobile bocca sdentata. E poi lui ora aveva una stanza tutta per sé, la stanza di un docente, un luogo sicuro dove avrebbe portato avanti tanti, nuovi esperimenti; in cui avrebbe creato qualcosa di diverso, libero da qualsiasi restrizione, anche quelle della materia e delle leggi della fisica, se ne avesse avuto bisogno.

Una stanza sua, dove aspettare la Verde Luna Piangente, l’arrivo delle Sorelle e il Risveglio, quando il Mondo Ancestrale sarebbe stato ancora. Per l’eternità.

Per il momento, tanto valeva festeggiare la promozione. Ademar sorrise e con la mano nascose le lunghe zanne della bestia.

– Grazie professore. Che ne dice di mangiare insieme un’ultima volta?

In effetti, gli era proprio venuta una gran fame.

8

Avevano trovato il cadavere in uno dei vicoli più infami di tutta Città Bassa, gettato su un cumulo di immondizia. Rifiuto tra gli altri rifiuti. Scovato lì in mezzo solo perché una prostituta e il suo ultimo cliente avevano pensato bene di andare a cercare un po’ di intimità nel luogo più squallido nel raggio di chilometri.

Succedeva ormai troppo spesso, e il tenente Garonne ne aveva le palle piene. Stanco,troppo stanco. Vicino a un pensionamento che, lo temeva con tutto se stesso, non sarebbe mai arrivato. Totalmente inorridito davanti a una città, la sua cara Città Libera, che ogni giorno gli regalava qualche nuovo scempio.

– Stavolta almeno sappiamo chi è, – suggerì un suo sottoposto, sempre il solito, quello con lo stomaco più resistente. – O almeno che lavoro faceva.

Una tunica dell’Università, già. Uno studentello in cerca di un’avventura amorosa nei bassifondi. E che, nel suo vagare, aveva solo trovato una morte orrenda. L’ennesima di quelle ultime settimane. Ma per non deludere il tenente, che sapeva bene che al peggio non c’è mai limite, stavolta la cosa era anche più truculenta. Niente testa, niente arti, solo una carcassa aperta e scavata, quasi spolpata fino all’osso. Miracolo che quelle fossero rimaste, lasciate lì peri cani, forse.

– I Ratti, capo, – proseguì il novellino. – Una banda di Ratti… come si dice? Cannibali! Ne sono sicuro.

– Uhm, – mugugnò Garonne.

Fino a quella mattina anche lui aveva pensato che si trattasse di un gruppetto di Ratti particolarmente fastidiosi. Ma adesso… cazzo, quella era opera di una bestia! E dei fottuti, se il tenente Garonne non sapeva con certezza scientifica che Touronne, la sua Touronne, di mostri ne era piena fino a esplodere. Scientifica, proprio così. Quella tunica sbrindellata lo stava ispirando.

Le solite urla richiamarono la sua attenzione.

– Preparatevi! – gridava il solito folle, o magari un altro con un copione dannatamente simile. – È il Risveglio che incombe! Preparatevi all’arrivo delle Sorelle. La Notte senza fine è vicina!

Che facciano in fretta, pensò sconsolato il vecchio soldato.


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