La lama che fa tremare anche il demonio: Solomon Kane – La mano destra del giudizio
Sinossi: un sinistro sodalizio infranto dall’infamia, e una vendetta che si compie quando già il boia ha indossato il suo cappuccio. Chi tradisce un mago accetta un prezzo assai pesante da pagare, e persino Solomon Kane inorridisce nello scoprire per quali nere vie tale debito viene riscosso.
Occhio per occhio, dente per dente.
Nulla può fermare la giustizia, anche quella rabbiosa dei dannati, e dove non arriva il ferro della legge – quella suprema dell’amicizia – giunge per vie misteriose l’odio.
E’ questa, in poche parole, la cupa sentenza che Solomon Kane vede compiersi nella sua seconda, breve avventura.
Siamo ancora in Inghilterra, e visitiamo finalmente Yorktown, cittadina sotto i cui tetti scuri si praticano da tempo i riti immondi di una dimenticata negromanzia.
Chi può macchiare la sua anima di tanta empietà? Ebbene, scopriamo presto la sua identità: Roger Simeon, il cui nome i demoni stanno già annotando all’inferno. Eppure, in fondo, persino un negromante è solo un uomo, e anch’egli nelle pieghe nascoste della sua mente obnubilata conserva almeno il nome di qualcuno da chiamare amico.
E come chiunque riponga fiducia nel cuore fallace dell’uomo, Simeon è costretto ad assaporare ben presto il frutto amaro della disillusione: John Redly, suo unico compagno, lo tradisce, vendendolo alle autorità per ancor meno dei proverbiali trenta denari. Il mesto popolo di Yorktown conta infine un peccatore di meno, certo, eppure – a chi gli riferisce tale tetra vicenda – Solomon Kane, intento a soggiornare nella cupa cittadina, risponde lapidario che l’infamia del tradimento mai si cancella, neppure se il tradito è il più indegno degli uomini.
Come il lettore scoprirà, il nostro puritano non sbaglia, e sarà la forza della più pura negromanzia a dare a Roger Simeon la sua vendetta, prima di incontrare sul patibolo il suo destino.
La mano destra del giudizio è letteralmente una short story.
Pochissime pagine bastano allo svolgimento della trama e, in questo caso, Solomon Kane vi appare unicamente come spettatore inorridito della vendetta del mago Simeon, che poco influisce sul vero scorrere degli eventi; l’avventuriero del Devon agisce quando è ormai troppo tardi e accanto a lui, come attraverso una nebbia sanguigna, anche noi possiamo osservare la furia vendicativa dello stregone, che non esita a farsi amputare la mano destra pur di punire tramite un ultimo sortilegio il suo antico sodale.
Diversamente da altri casi però, l’orrore più grande non nasce dalla ributtante negromanzia di Simeon. Certamente, la descrizione della sua mano che, come un orrendo ragno, strangola il fin lì ignaro Redly è potente, e costituisce il fulcro fantastico del racconto. Ma il vero brivido lo regala il compiersi ineluttabile di una vendetta che – basata sulla primitiva legge del taglione – appare già scritta fin da quando Kane pronuncia all’inizio della storia le sue poche battute: chi manca al patto stretto con un amico non può aspettarsi che la rovina, in questo mondo o nell’altro. E un mago non si tradisce mai impunemente.
Traspare qui, palpabile, tutta la cappa di veterotestamentaria cupezza che davvero deve aver aleggiato sui solitari paesi della vecchia Inghilterra in quei tempi lontani, quando si credeva di leggere in ogni avvenimento il segno di un giudizio divino inappellabile.
Per quanto quindi lo svolgimento del racconto sia prevedibile, come in una profezia che si autoavvera, è suggestivo immergersi in tanta tenebrosa atmosfera.
L’altro punto che risulta evidente, una volta terminata la lettura, è l’abilità con cui la mano (!) di Howard ha tratteggiato la mortifera vicenda di Simeon, Redly e Kane, il tutto con l’ausilio di pochissime e azzeccate pennellate.
In una manciata di pagine abbiamo la descrizione completa e vivida di personaggi e ambientazione, e impariamo – eccome! – quanto c’è da sapere sulle cause e gli effetti dell’infausto tradimento di Redly. Howard è perfettamente a suo agio in questo tipo di narrazione, dove uno spunto d’effetto viene sviluppato in poche righe e portato alle sue estreme conseguenze, realizzando magistralmente i presupposti ideali della narrativa pulp. Non è un caso che persino numerosi frammenti di storie incompiute, o semplici scene rimaste fra le sue carte, appaiano ai nostri occhi di lettori quasi opere complete. Howard individuava d’istinto il centro della trama, e spesso introduzione e conclusione dei racconti sono quasi ininfluenti per la resa di immagini che da sole bastano a sprigionare il proverbiale “sense of wonder”.
In un simile contesto, per altre penne forse troppo angusto, il personaggio di Kane ha il pregio di mostrarsi adatto anche al ruolo di “protagonista passivo”, solo casualmente inserito nel fulcro di avvenimenti che prescindono dalla sua presenza. Una caratteristica, questa, difficilmente attribuibile a proverbiali elefanti nella stanza come Conan e Kull, la cui impostazione tendente all’epicità risulterebbe impossibile da confinare in spazi tanto ristretti e con un ruolo per giunta in ombra.
Ma l’animo fiammeggiante del nostro viandante puritano non deve essere sottovalutato, anche quando pare che solo poche scintille rosseggino fra le ceneri; il prossimo racconto, “Ombre Rosse”, ci mostrerà quale inarrestabile incendio possa sprigionarsi quando le fiamme di Kane divampano senza limiti.
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