Presentazione
Dopo la pausa estiva, siamo lieti di riprendere la rubrica de I racconti di Satampra Zeiros, in cui potete trovare i migliori autori italiani di sword and sorcery.
In questa circostanza abbiamo il piacere di ospitare nuovamente Alessandro Forlani, non solo scrittore geniale e di qualità sopraffina ma anche professore universitario, divulgatore, saggista, blogger e conferenziere, che ci propone Dodici Padroni, racconto fantasy di circa 26.000 battute spazi inclusi.
Se avete il piacere di leggere gratuitamente altre storie di heroic fantasy pubblicate da Alessandro Forlani in questa rubrica, le trovate qui:
- Forlani, Alessandro – Chi di spada ferisce
- Forlani, Alessandro – La Lezione delle Tenebre
- Forlani, Alessandro – Non tutte le avventure
Buona lettura.
Autore
Autore: Alessandro Forlani insegna sceneggiatura all’Accademia di Belle Arti di Macerata e Scuola Comics Pescara. Premio Urania 2011 con il romanzo “I senza tempo”, vincitore e finalista di altri premi di narrativa di genere (Circo Massimo 2011, Kipple 2012, Robot e Stella Doppia 2013) pubblica racconti e romanzi fantasy, dell’orrore e di fantascienza (“Tristano”; “Qui si va a vapore o si muore”; “All’Inferno, Savoia!”) e partecipa a diverse antologie (“Orco Nero”; “Cerchio Capovolto”; “Ucronie Impure”; “Deinos”; “Kataris”; “Idropunk”; “L’Ennesimo Libro di Fantascienza”; “50 Sfumature di Sci-fi”). Vincitore del Premio Stella Doppia Urania/Fantascienza.com 2013.
Dodici Padroni
Alessandro Forlani
La navata era cosparsa di una sostanza lattiginosa dall’odore nauseabondo di deiezioni ed umori umani, una schiuma disgustosa che temé di riconoscere. Malqvist intinse un dito in una macchia di quella roba, la succhiò per sincerarsene:
«È ectoplasma.»
«Che sarebbe?»
«Non vuoi saperlo, fa troppo schifo.»
«Ma che significa?»
«Dovremmo andarcene.»
Festermannen inghiottì, finse un coraggio che non aveva, la foia stupida della sapienza gli fece uscire parole grosse:
«Ti ho pagato la caparra: tu mi porti fino in fondo»; carezzò il calcio della pistola per darsi l’aria che non scherzava.
«Se mi ammazzi resti solo.»
«Resti morto: cosa scegli?»
Lui ghignò fra sé che a quel quattrocchi da biblioteca poteva, adesso, spaccargli il cranio con un fendente: ecco cosa. Mi minaccia! Due libri letti, gingilli a miccia e ci si credono chissà chi!
«Proseguiremo, se proprio insisti. Ma questo muco la dice grama.»
«Mi sembra bava: megalumacidi? Hai un’ascia, ci sai fare: mica che temi quei mostri viscidi?»
«Di ‘sta stagione non ce ne sono. È ectoplasma, ho detto: spettri.»
Festermannen scoppiò a ridere: quelle risate ostentate e forti, ma che tradivano la fifa nera che lo bagnava e l’impallidiva.
La traversata a quel brutto posto era durata per tutto il giorno, prima in sella poi a piedi per una selva di abeti morti. I sentieri e la sterrata – che bene o male promettevano un “qualche parte” – si interruppero nel bosco sotto una coltre di foglie secche, quando apparve in lontananza la guglia erosa di quella chiesa. E il professore esultò che sì: era il luogo che cercava, «com’è descritto nei testi antichi e nei verbali degli inquisiti!»
A lui, però, se ne parlavano i vecchi libri dei maghi, certe storie ed edifici non piacevano granché.
Ma il quattrocchi lo pagava, per portarlo fino a là.
Persero ore di scarpinata nella boscaglia che si infittiva, la sensazione di allontanarsi più si muovevano verso il tempio. Quando ormai ci rinunciarono, e minacciati dall’imbrunire, si ritrovarono sdraiati, esausti, a riprendere le forze su gradini di antracite.
Quella fauce buia, gotica, di un edificio ingarrotato di rampicanti.
Piante grigie e rinsecchite ma che sembravano ghermire i massi, un necrotico rigoglio e un’appassita rifioritura.
Lui lo sapeva che in certi posti è meglio entrarci col sole in cielo, quando è giorno, quando è caldo e se è possibile col pranzo in corpo:
«Accampiamoci», propose, «domattina esploreremo.»
Ma Festermannen tremò dei lupi che udì latrare nella foresta, delle fughe e i calpestii che echeggiavano nel folto.
«Sono lontani, li porta il vento. Gli animali qui non vengono», Malqvist lo assicurò: mica scemi, gli animali. Mica come i tombaroli.
L’imbecille era già corso a rifugiarsi nella chiesa.
Rifugiarsi. Come no.
Gli stette dietro con l’ascia in pugno.
«I fantasmi non esistono, non esiste la magia. La nuova scienza va illuminando i misteri tutti», Festermannen recitò, «ciò che giace in quella cripta è una conferma alle mie teorie.»
E insistette di precederlo per quelle scale maleodoranti.
Troppo buie, troppo nere.
La viva tenebra dell’edificio, la notte fredda che si insinuava dai finestroni, gli sembrarono oltraggiate dal fuoco rosso dei loro lumi. Le due lanterne la rischiaravano appena a un metro dal loro naso: tutto attorno era rovina, polvere, una putredine secolare, e una pece silenziosa troppo ostile e impenetrabile.
«Sono scempiaggini, neanch’io ci credo. Resta il fatto che gli spettri li colpisci e non li uccidi, le fiamme e il ferro non li feriscono: l’acqua santa, casomai. Io, però, non sono un prete, so ragionare con questa e basta», Malqvist si imbronciò Tagliò nel niente con la bipenne.
Festermannen cavò dal fodero la sua lucida pum-pum, quella trappola a rotella con il piombo nella gola. Lui non aveva capito bene perché gli uomini civilizzati, tanto ad Handelbab come a Tjaratur, le due metropoli del Continente, sostituissero balestre ed archi con quegli aggeggi da signorine.
La moda è strana, ma passerà.
«Devi attrezzarti, ché questa è meglio», si bullò il professorino.
Gli fece cenno perché scendesse.
«Perché mi paghi e mi mandi avanti, se ne sei tanto sicuro?»
Malqvist sapeva muoversi tra i trabocchetti da sotterraneo, sopravvivere all’aperto e lavorare d’acciaio e muscoli. Un compare che ha studiato sa tradurre i geroglifici, interpretare grimori e mappe e risolvere sciarade.
«Farebbe comodo un fagotto in più.»
«Abbiamo sacchi abbastanza grandi.»
«Modi di dire dei tombaroli: sono gli idioti sacrificabili. Quelli che lasci mangiare al mostro mentre tu salvi la pelle.»
«C’è in giro gente che ci si presta?», Festermannen si insospettì. Il clac metallico della pistola che impugnò un po’ più nervoso.
«Finché mi paghi tu sei tranquillo. E in ogni caso non sembri il tipo: hai lo sguardo disperato; quelli, beh, li riconosci dal bel sorriso; hanno l’aspetto dei vincitori, chi non getta mai la spugna. Che cosa ridi, che cosa vinci in questa terra dei cimiteri?»
«Un posto all’ombra. Stai lì. Sereno.»
«Ecco, appunto. Capisci subito a chi fa tingolo la Necromadre.»
«Se in questa tomba c’è ciò che penso sarà un trionfo per me e la scienza.»
«Mi porti rogna: chi spera muore.»
«Tu non credi agli incantesimi, ma sei parecchio superstizioso.»
«È la scalogna che crede in me.»
La rampa nera scendeva ripida per gradoni consumati come se i secoli – i millenni, forse – fossero scorsi salini e liquidi; lisci e lucidi di icori che luccicavano ai loro lumi. Le fiammelle si infiochirono per l’aria infetta, che venne meno:
«Non c’è un bel niente, non si respira. Mi sa che è stata una fregatura.»
Malqvist tacque la sensazione che qualcuno li osservasse.
«La parete… è di metallo!»
Festermannen illuminò una sezione rettangolare che luccicava incorrotta e liscia: forse argento, elettro, platino. Ai lati lunghi di quel pannello c’erano maglie, giunture e cardini.
«È una porta, fa’ attenzione: quegli ingranaggi mi insospettiscono.»
Ruote dentate, pistoni e sbarre si sviluppavano dall’architrave, moltiplicandosi fin il soffitto in un disegno di perturbante complessità. Capivi subito che a manometterlo si provocava un gran bel casino. Peggio ancora, quel marchingegno sembrava intonso: manco un’ombra dei tanti secoli che suppuravano in quella tomba; né picconate, né graffi, botte, né il morso ruvido però efficace dell’affidabile levachiodi.
Né i resti sparsi di sfortunati che ci avessero provato.
«Non è possibile che siamo gli unici.»
«Saremo i primi che torneranno.»
«Vacci piano: studia, prof.»
Esaminarono il battente lucido: né serrature né un’iscrizione. Festermannen era chino che elucubrava sui “se” e sui “forse”; Malqvist resto all’erta: due serpenti di metallo li aggredirono dall’alto. Strane bisce silenziose che si calarono dalle volte, il corpo argenteo di fasci, cavi e una testa di madreperla. Una sferetta fosforescente senza fauci e priva d’occhi.
«Che cazzo sono?!»
Brandì la scure: le due bestiacce lo infinocchiarono, scattando in alto scendendo ancora col ronzio di un calabrone. Si muovevano sinuose con i riverberi del mercurio, un balzo avanti per attaccare ma… gli si fermarono a un respiro dalla faccia. Scintillarono di azzurro, lo irradiarono, frinirono; uno dei rettili gli girò attorno in una ellisse di qualche metro, «quanto cacchio sono lunghi?!», schioccò addosso a Festermannen che tirò un colpo con la pistola.
«L’ho colpito!»
Fischia, è in gamba!
«Io non credo siano vivi: penso siano… meccanismi.»
«Sono serpi», grugnì Malqvist: portò un fendente contro la bestia che l’avvolgeva che però schivò fulminea, tornò ad avvolgersi fra le volte.
«Guarda, scemo.»
Festermannen gli mostrò quei fil di ferro, le rotelline, le schegge e perle che sfrigolavano in una macchia di siero azzurro. Quei rottami del serpente che aveva steso di schioppettata:
«Sono automi, insomma.»
«Ovvero?»
«Intuizione interessante.»
Quella voce li gelò. Era un’eco di sepolcro. I raschi esausti di gole estinte e livorose di silenzi. Il portale di metallo si insozzò di macchie bianche, umori densi, viscosi e maleodoranti che si allargarono, gocciolarono e ribollirono sulla soglia. Nelle pozzanghere di putridume presero forma dei volti umani, visi vizzi ed affilati dagli occhi neri incavati e spenti. Ne affiorarono le teste, i corpi magri allungati e pallidi, una dozzina di orrende larve di vecchi curvi emaciati e nudi. L’eterno gelo dell’aldilà li tormentava di convulsioni, la loro carne sembrava morsa da un inverno oltretombale, erano avvolti di fumi freddi e imperlati dalla brina. Un sudario sfilacciato dei loro propri capelli grigi, con le gambe e braccia torte come soffrissero un angusto feretro.
«Non è possibile!»
«Fantasmi, appunto.»
Il professore arretrò tremante, lo sguardo fisso sugli abomini, frugò nel panico la bandoliera e cacciò polvere nella pistola. Un altro colpo, lo scoppio e il fumo: la pallottola fischiò fra quei toraci putrefatti, luminescenti d’insano cerulo, rugosi e inconsistenti. Uno schiocco disgustoso ed il fetore di sangue e visceri; la cartilagine, la carne e l’osso già spezzati dai millenni.
Il proiettile si spense sulla porta di ingranaggi, dietro i morti che avanzavano con famelici lamenti.
Malqvist guardò vigliacco al corridoio e le scale buie che risalivano in superficie alle rovine e la notte e il cielo, fuori. La foresta, gli animali e i pericoli affrontabili. I denti aguzzi dei lupi, i cani e il becco rapido dei corvi. Non era niente che un lenimento non potesse rimediare.
Con gli spettri invece no: non c’è speranza, ci muoio, qui.
Pensò al morso della fame, rinunciare a un compenso; la codardia che ogni sera sarebbe sempre tornata a pungerlo:
Ti ricordi che sei scappato, quella volta, cacasotto?
Prese il compare per la collottola, lo tirò dietro di sé:
«Sgombra, prof: è il mio lavoro.»
Spaccò a terra la lanterna, sparse fiamme sulle pietre: un cerchio d’olio, di fuoco e fumo contro i morti inesorabili. Questo, a volte, li rallentava per qualche istante. Si buttò in mezzo brandendo l’ascia nel grumo viscido di ectoplasma, le grinfie gelide sulla pelle che frugavano fin dentro. Spilli diacci e velenosi nello stomaco, nel cuore. Sopportò, menò fendenti: archi d’acciaio, di forza bruta, contro la nube di quelle cose. Si batteva contro il fumo, l’aria fetida, la schiuma, con lo smegma dei cadaveri e lo spurgo del petrolio. Festermannen approfittò per involarsi alla scalinata: gli abomini lo raggiunsero, gli strisciarono attraverso; un artiglio bianco e freddo gli serrò il collo, lo sollevò, costringendolo a mezz’aria in un’immobile agonia.
Il quattrocchi era spacciato.
Cazzo, adesso tocca a me.
Il fantasmi lo scagliarono, sconfitto, con il grugno al pavimento: la forza gelida gli tolse l’ascia, lo schiacciò contro la pietra.
«Resta vivo, scimmia! Vogliamo lui.»
Lo lasciarono, stremato, e si raccolsero attorno a Festermannen. Il mormorare sommesso assorto dei beccamorti su un ammalato. Lo trascinarono che respirava – però incosciente, gli sembrò in trance – su una scia di muco e fumo fino all’anta di metallo. Al comando di uno spettro gli ingranaggi si attivarono: le cremagliere, le ruote e i cardini ticchettarono e frinirono, polverizzando le incrostazioni e le radici negli interstizi. Uno scroscio di licheni, ghiaia, polvere e terriccio; crepe aperte fra le volte, le pareti e il pavimento. La porta lucida si aprì ronzando su un corridoio di luce azzurra, l’ultimo spettro fluttuò al di là con il compare fra le braccia.
«Mi deve soldi!», si scosse Malqvist: si tirò in piedi, scattò alla scure, balzò nel tunnel per inseguirli che già il battente tornava giù; letteralmente gli morse il culo. Un lamento di ingranaggi, un tonfo sordo definitivo, lo seppellirono col groppo in gola nel lungo tunnel che aveva innanzi.
Forse ho fatto una cazzata.
Sì, l’ho fatta.
Andiamo avanti.
«Festermannen! Ehi, voialtri!», Malqvist sfidò spavaldo: ma era solo. I fantasmi si involarono nel profondo corridoio, era un pozzo di metallo cui malapena vedeva il fondo. Tubi vitrei luminosi lo irradiavano di azzurro, un chiarore abbacinante. Quei serpenti artificiali, con le teste di madreperla, lo circondavano sibilando e scomparivano in fessure e fori, gli sembrò che lo sondassero…
«… o che mi prendano le misure». Quegli scandagli del malaugurio che gli cucivano una bara addosso.
Menò con l’ascia, non li colpì, grugnì scornato da quegli aggeggi. E dove il ferro calava a mordere le superfici incorrotte e lucide ne sprizzavano scintille e lo scottava un fuoco blu; le convulsioni e il dolore intenso di quella volta che beccò un fulmine.
«Va molto male, va troppo male», si avvilì.
Ma proseguiva.
Dopo forse più di un’ora in quel budello accecante e freddo trovò una sala di tali macchine che…
«Io ci rinuncio. Non raccapezzo.»
Era un grumo di cilindri, colonne tortili, immense sfere che crepitavano; grandi giare trasparenti che ribollivano di icori e d’oli. Era una selva di canne d’organo, di condutture e ritorte trombe, con un groviglio di cavi e gomene attorcigliate sul pavimento. Era un coro di vesciche, cornamuse e di comignoli; tubi rotti e steli flosci su una predella completamente ghiacciata. I quadranti, gli aghi, le clessidre, gli astrolabi o cosa diavolo mai fossero – nulla, in quella tomba, assomigliava ai peggio ordigni che conosceva – lo assordavano, e accecavano a intermittenza, di note tristi ripetitive e esplosioni luminose.
Là, incastonati in quello zoccolo gelato, Malqvist poté contare una dozzina di saccelli – sono bare, ci scommetto – dai coperchi di cristallo rovesciati e frantumati.
Brandì la scure. Si avvicinò.
Inghiottì ma sputò un “amen” per quei poveri bastardi.
Non si trattava dei loro feretri, ma assomigliavano invece a letti: con un quadrante di interruttori, di pulsanti e di levette come li trovi nei baldacchini da aristocratici per chiamare il maggiordomo o le servette a colazione. Sui giacigli in pelle chiara, dall’aspetto artificiale, erano stese le mummie gelide di quei dodici vecchiacci.
Un gelo intenso li aveva uccisi nel sonno: e scavato sui loro volti, per sempre in agonia, tale orrore e sofferenza che gli torsero le viscere. La carne vizza di quei cadaveri era crepata dal freddo infame, che aveva loro spezzato l’ossa e consumate le budella.
«Voglio morire in un posto caldo», Malqvist bestemmiò.
Brutta fine. Misteriosa. Perché qui sotto in realtà si suda.
Il pompare e il ticchettio dei macchinari nel sotterraneo, le vibrazioni, quei lampi elettrici e il calore delle lampade gli imperlavano la fronte e gli bagnavano i capelli. Solo lì, sulla predella, soffiava un alito di duro inverno, quella crosta azzurra e grigia sui giacigli e sopra i morti.
Sussultò di un fiato artico, balzò all’indietro. Alzò lo sguardo al vaporoso tossito di un manicotto afflosciato e lacero che pendeva sui saccelli: da quel tubo nevicava; era una neve dal puzzo chimico.
«Sei testardo, cavernicolo.»
La minaccia delle larve che gli apparvero di fronte, raggrumandosi in ectoplasma in un risucchio disgustoso, lo stornò dallo stupore per quell’ennesima diavoleria.
Brandì la scure:
«Dov’è il compare?»
«Non puoi ferirci.»
Si mise in guardia.
Ha ragione, ma è lo stesso.
«Che cosa ne avete fatto?»
«Lo scansioniamo»
«Scannate, mostri?!»
«Non hai capito. Non puoi capire. Sembra adatto ai nostri scopi, e il computer sembra confermi le aspettative.»
«Il compucosa?!»
«Lo esaminiamo.»
«Per farne cosa? Lo ucciderete?»
«Lo abiteremo. Finalmente un cervellino che in qualche modo assomiglia al nostro. Lo useremo come involucro e usciremo da questa tomba. Un corpo fisico ci è necessario.»
«È possessione.»
«Superstizioni. E Festermannen approverebbe.»
«Siete demoni, perciò.»
«Fummo scienziati, nell’Età Antica… come tu la chiameresti. Come lui. Ne sapevamo parecchio in più, però.»
«Bah, non è possibile. Quel quattrocchi è un baule.»
«… e adesso, dopo l’incidente, torniamo fuori a studiare il mondo dopo secoli di assenza.»
«Io, di qui, senza il prof non me ne vado. Voi, da questa tomba, senza combattere non uscirete.»
Come epitaffio suonava fico, gli avrebbe reso giustizia: una carriera con l’ascia in mano senza mai tirarsi indietro. Una carriera di sfighe nere e di avventure finite in troie: come adesso, che si apprestava a tirar le cuoia da duro ma non c’era anima viva che avrebbe fatto da testimone, né avrebbe inciso su quella lapide il giusto merito del suo valore.
Solo loro. Solo spettri. Questi spiriti appassiti.
Che gli smorzarono gli eroismi con un tono da comari:
«Ma perché ci tieni tanto? Siete amanti?»
«Mi ha pagato», Malqvist arrossì.
«Puoi andartene. Respiri: hai avuto il tuo guadagno.»
«Ho una regola. Sto al verde. Muoio qui, ma non di fame.»
«Siamo uomini di scienza. Non ci piacciono le risse.»
«Ma io ci campo, ne vado in cerca. Voi, schifosi, mi fate prudere la scure in mano.»
«Prima ascolta, bestia: vieni.»
Malqvist seguì i fantasmi in una camera adiacente: nuove macchine, prodigi e troppe cose che non capiva. Neri scheletri marcivano fino all’orlo di una fossa, precipitavano nei grandi forni che fiammeggiavano sul fondo bruno. Bocche scure ed incrostate li vomitavano inceneriti. Lui rabbrividì dell’impossibile presentimento di un processo di cremazione che durava da millenni. Fra quell’ossa vide stracci, copricapi, vesti ed armi del proprio secolo e indumenti e spade antiche quali ingrifavano i collezionisti, certa vecchia paccottiglia che ti rifilano in bottega ad Handelbab.
In quel trionfo di assurdità, lampi, scoppi e strani aggeggi, i resti morti, le loro polveri, lo confortarono di realtà.
Ora so perché quel vuoto, nessuna traccia di tombaroli: l’hanno accoppati e portati qui. Sta in campana. Tieni duro.
«Ne possedemmo ed usammo tanti, ma si consumano, li inceneriamo», gli spiegarono i fantasmi. Un serpente di metallo scivolò verso di loro, pigolò, si acciambellò; «le nostre sonde vi hanno scansionato: tu sei inutile, bestione, il tuo compare fa al caso nostro.»
Festermannen era steso su una lettiga di acciaio e vetro, mollette ed aghi ventose e cannule sulle tempie e sulla fronte. Nei pannelli e nelle sfere che scintillavano tutt’attorno si susseguivano fitte righe di scritture incomprensibili, casomai sapessi leggere.
«Lo torturate.»
«Non soffre affatto. Credo anzi apprezzerà.»
«Me, però, non mi sta bene: mi deve soldi.»
«Sarai contento.»
Un vecchiaccio sfiorò i tasti di una specie di scrittoio: un cassettone si aprì di scatto lungo i bordi della fossa, dove sembrava che le fornaci rovesciassero gli spurghi. Dalla cassa piovve a terra una cascata lucente e gialla, crepitò sul pavimento, fumò rovente, si raffreddò: una lingua di oro fuso butterata di rubini, lapislazzuli, diamanti ed ogni fulgido ben d’Iddio.
«I loro scarti», ghignò lo spettro, «li puoi tenere: non ci interessano. L’uomo resta: prendi tutto. Sei pagato?»
«Adesso sì!»
Malqvist stimò basito la pozzanghera corrusca che raggrumava sul pavimento in un’enorme e inestimabile pepita; si tratteneva dall’arraffarla per timore di ustionarsi. Ma quegli sbuffi di strana neve, che eruttavano dovunque, accelerarono il raffreddamento finché un fantasma gli fece un cenno:
«Non temere.»
Gli obbedì. Déi del cielo, se pesava! Le cifre grosse lo istupidirono: ce n’era tanto per dieci vite di tette grandi e liquore buono. Non aveva, nello zaino, sacchi di iuta per contenerla: se la doveva legare in groppa e scarpinare fino a casa.
Però ho finito di fare il mulo.
Una corda. Una carriola. Qualsiasi cosa tra i tanti aggeggi che l’attorniavano che potesse essere utile a trasportare quel sasso d’oro! Farlo a pezzi con la scure poi riempirsene le tasche: ci avrebbe messo un bel po’ di tempo, e non voleva restare ancora a lungo. La lettiga e i macchinari che imprigionavano Festermannen si illuminarono di luci verdi e risuonarono di note d’arpa: sembrò fosse una conferma.
«Il soggetto è compatibile!», esultarono i fantasmi. Sul professore calò un crisolite sfaccettato collegato ai cento cavi, le ventose ed i morsetti; crepitò del tocco freddo di quei dodici dannati. Diventarono più sfocati, le loro voci si affievolirono. Le pareti e il pavimento scricchiolarono, vibrarono, e i cadaveri congelati si sbriciolarono nei loro feretri. Aghi, pendoli e campane rintoccarono funerei dopo un’Era di silenzio: qualcosa accelerò.
«Cos’è successo qui?», Malqvist inghiottì.
«Voi selvaggi edificaste questo tempio su un nostro laboratorio: credevate fosse un luogo benedetto, era solo radioattivo. Ci ibernammo per sopravvivere.»
«Siete stati affatturati.»
«Fu un fatale malfunzionamento delle capsule criogeniche. Sono solo superstizioni.»
«Se queste cose non sono vere…»
«Siamo morti assiderati.»
«… voi, perché siete fantasmi?»
Gli scrollarono le spalle, gli smorfiarono intristiti: perché questa è Thanatolia; gli rispose il loro sguardo. I morti tornano, non c’è riposo. Gli sembrò che scomparissero nel crisolite luminescente: quando la pietra fugava un’ombra Festermannen si contorceva di convulsioni.
È andata male, ma sono ricco: era tempo di smammare. Malqvist imbracò l’oro, se lo prese sulla schiena, e arrancò col fiato corto fino al tunnel che risaliva in superficie. Sperò che i vecchi fossero stati di parola: e che la porta con gli ingranaggi, laggiù in fondo – l’unico scampo da quella tomba – fosse ancora spalancata a consentirgli di farla franca. Gli morivano fra i piedi quei serpenti di metallo; scoppi, scariche e fiammate distruggevano le macchine. Non vedeva più i fantasmi né scorgeva Festermannen, la lettiga era scomparsa in una nube di vapore.
Pensa ai soldi. Pensa a te. Ci sono cose che non puoi combattere.
Arrancò in quel pozzo stretto trascinando il suo tesoro, con le lampade blu e fredde che lampeggiavano poi morivano. Con le scosse, coi boati, col disastro alle calcagna e una scommessa con la fortuna che il passaggio fosse aperto. Il masso d’oro lo rallentava, si incastrava, gli impediva di proseguire, lo costringeva ad un passo indietro e respirare quei fumi acri, per spaccare con la scure e riannodare l’imbracatura. Ozono e zolfo nelle narici e morsi elettrici sulla pelle; un roveto di catene, cavi e gomene schiantate. L’impressione che qualcosa, alle sue spalle, stesse strisciando nel corridoio.
Guarda avanti. Solo avanti.
Finalmente una folata che odorava di sepolcro, muffe, polvere e licheni sulle pietre, la luce fioca di torce esauste e un raggio pallido di superficie. Il colonnato, le scale lise e le volte della cripta:
«Ce l’ho fatta! Sono fuori!», pochi passi alla salvezza. Ma la cornice di ruote argento, a pochi metri di fronte a lui, scricchiolò e rimpicciolì: e non era un’illusione. Il pannello di metallo si abbassava lentamente, fra i grandi stipiti e l’architrave che si incrinavano sotto il crollo del corridoio. C’era appena uno spiraglio per passare dall’altra parte, c’era anche meno di uno spiraglio…
Buttò la scure dall’altra parte, strisciò prono alla fessura, grattò il suolo pancia a terra ma la pepita lo bloccò lì. E la porta, inesorabile, scese a mordergli la schiena. Dal corridoio filtrò la luce delle esplosioni, dei fari blu e il riverbero stupendo di quel bottino di gemme e d’oro.
Tese i muscoli. Tentò. Sudò bestemmie, gli mancò il fiato. Pensò ai ladri che domani, dopo il buio, dopo i vermi, sarebbero scesi fin quel sepolcro per derubarlo del suo tesoro. Sarò ricco, e sarò morto. Sarò un cadavere triturato. Un’altra preda per tombaroli, la ricompensa di delinquenti.
Ma non mi fottono!; si imbestialì.
Prese la lama, tagliò la corda, tolse le gambe da quella pressa. Il tetro gemito del meccanismo e il tonfo sordo definitivo.
Respirò vivo ma a tasche vuote l’aria malsana del sotterraneo.
Salì le scale e tornò all’aperto. Si sedette, indolenzito, sui gradini della chiesa. La foresta si incendiava di un’alba fredda, ma salubre, assordata dal gracchiare e dalle grida degli uccelli, gli invisibili fruscii degli animali fra i cespugli. In lontananza nel folto grigio di là dagli alberi contorti e nudi, dove il sole illuminava fronde scure e piante vive, echeggiarono i nitriti dei due cavalli che lo attendevano, sopravvissuti alla notte e i lupi di quei luoghi maledetti. Malqvist sorrise triste di quella magra consolazione: doveva ammettere che quei brocchi, se davvero erano vivi, erano stati più fortunati – come al solito… – di lui. Sono bestie: biada ed acqua; non impazziscono per fare soldi!
Aveva i lividi, però era vivo. Con ai piedi gli stivali, l’ascia in mano e una storia da raccontare in taverna per scroccare zuppa e vino: quanto basta a un tombarolo per campare un altro giorno. Si sgranchì le membra rigide e indolenzite, sputò a terra, si rialzò, sospirò alla sua scalogna e si ravvolse nel manto logoro scolorito.
«Fermati, selvaggio!»
La stretta gelida su una spalla: le loro voci lo inorridirono. Il coro rauco di quei fantasmi ed il lamento di Festermannen. La carcassa del compare, posseduta dagli spettri, era un’orribile, disgustosa marionetta dal viso ossuto ustionato e pallido paralizzato in un ghigno eterno. Con gli occhialetti offuscati infranti che gli pendevano sul naso adunco. Le convulsioni, le membra rigide e l’inconsulto gesticolare di quegli ospiti spettrali che si abituavano al corpo nuovo. La sua gola si gonfiava, contraeva come un mantice del concerto orripilante delle parole di tutti tredici.
Adesso è carne: posso ammazzarlo; Malqvist si azzardò: cosa avrebbe liberato dalle ferite di quell’involucro? Gli sudò e tremò la mano sul lungo manico della bipenne. La creatura lo fermò:
«Siamo usciti da là sotto, tu sei salvo a malapena. Ti conviene farti furbo. Possiamo stringere un altro accordo.»
«Il professore non vi è bastato, eh? Ma non mi avrete, bastardi morti!»
Il posseduto ignorò la sfida, ma torse il capo, si guardò attorno: nelle pupille infiochite e grigie, gli occhi spenti ed infossati, tornò avida a brillare la millenaria curiosità:
«Questo mondo è un po’ cambiato da che scegliemmo l’ibernazione. Lo vorremmo visitare.»
«Lo vorreste dominare.»
Era la fissa dei negromanti, no?
Uno sprezzante compatimento, o una pena, o un’attonita incapacità di comprendere quel concetto, aggrottò la fronte alta del cadavere o fantoccio:
«Impareremo. Ci adatteremo. Ma, almeno i primi tempi, sarà utile una guida e un energumeno che ci protegga. Hai avuto gemme ed oro, sei rimasto a mani vuote: possiamo darti molto di più, conosciamo altri tesori. Eri al servizio di Festermannen: passa al nostro, ti conviene.»
Malqvist grugnì schifato di quel patto stregonesco: la sua lama non si insozzava di certe tenebre, le combatteva. Ma non puoi vincere sempre: non si vince quasi mai.
Scrollò le spalle, stirò un sorriso:
«Dopotutto è Thanatolia.»
Doveva ammettere di avere torto. Doveva cogliere quell’occasione. Strinse la mano gelata e morta dei suoi dodici padroni.
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