I racconti di Satrampa Zeiros – “Zoth-Tammog” di Riccardo Brunelli

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Presentazione

Per “I racconti di Satampra Zeiros” abbiamo il piacere di ospitare Riccardo Brunelli, giovane scrittore emergente, già presente su Mediterranea con “Shardana”, il quale ci presenta Zoth-Tammog, racconto sword and sorcery di ambientazione africana con contaminazioni lovecraftiane di 25.000 battute spazi inclusi.

Buona lettura.


Autore

photoRICCARDO BRUNELLI (Borgosesia, 1984) vive nella verdeggiante Valsesia, con la moglie Manuela e la cagnolina Tati. Appassionato di fantasy, fantascienza e horror; divoratore di fumetti, romanzi e film, nonché giocatore di ruolo indefesso. Arruolato nell’esercito del fantastico dal 1994, quando entrò in contatto con i giochi di ruolo grazie alla mitica “scatola rossa”. Iniziò ad immergersi nelle atmosfere avventurose con il Conan di Robert E. Howard, passando per Edgar Rice Burroughs e H.P. Lovecraft. Si innamorò ben presto di quel cosmo irraggiungibile e pericoloso, di quei mondi tagliati con la scure, fatti di eroi muscolosi, terribili stregoni e mostri innominabili.
Da sempre affascinato dalla scrittura in ogni sua forma, decide di partecipare al premio Letterario Toth-Amon indetto dall’Associazione Culturale Italian Sword&Sorcery nel 2016 con il racconto Zoth Tammog. Il racconto Sword&Sorcery con ambientazione africana si guadagna il secondo posto in classifica.
Partecipa a Mediterranea, antologia ambientata nei territori bagnati dal Mare Nostrum con un racconto che si svolge nella Sardegna misteriosa e antica, quale rispettoso omaggio a quella terra e a quel popolo dal passato glorioso ed imperscrutabile, nella quale la famiglia di sua moglie affonda le radici.


Zoth-Tammog

di Riccardo Brunelli

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La fitta giungla si estendeva per leghe, brulicando di vita selvaggia. Zanzare, ragni ed altri insetti grossi come il palmo di una mano sciamavano tra liane verdeggianti. Persino le piante velenose, i fiori urticanti ed i rampicanti spinosi parevano dotati di vita propria.  In questo indistricabile labirinto mortale due figure si muovevano con circospezione.

Il primo era un gigante nero. La sua pelle d’ebano era percorsa da decine di cicatrici, come ideogrammi su una tavoletta, raccontavano una storia di schiavitù, battaglie e dolore. Il suo corpo muscoloso era protetto soltanto da un perizoma di pelle, sorretto in vita da una spessa cintura in cuoio adorna di dischi dorati. Una testa di leone in oro faceva da fibbia. Alla cintura pendeva una daga ricurva, inserita in una custodia di leopardo. Sulla possente schiena era assicurato un enorme e minaccioso spadone forgiato da un Titano. Il suo sguardo severo scrutava ogni minimo movimento nella vegetazione. I piedi nudi calibravano con attenzione felina ogni singolo passo. Taharka, era il suo nome. I suoi nemici lo conoscevano come il Leone d’oro.

Il secondo, adombrato dalla massiccia schiena del primo, era di corporatura esile e di statura decisamente inferiore. La pelle nera, come un cuoio scuro e liso, era tirata sui muscoli e sulle ossa, consumate dagli anni. Anch’egli non portava armature ne abiti protettivi, ma il suo corpo era adorno di pitture vivaci a formare segni magici e scaramantici. Alle caviglie e polsi portava bracciali di metallo ed osso. Alla cintola innumerevoli ninnoli e sacchetti ricolmi di misteriose polveri. Il volto celato da una maschera d’ebano, arricchita da un piumaggio variopinto. La Maschera intagliata, fissava nel legno una smorfia minacciosa di qualche spirito dei deserti. Non portava armi, fatta eccezione che per un sottile pugnale d’osso. Si faceva strada tra i rami con un bastone, alla cui sommità era fissato un cranio animale dotato di corna. Ai mortali era noto come Wuenga, lo sciamano nero.

Il passaggio si faceva sempre più angusto. I rami dei rampicanti graffiavano i muscoli di Taharka, e Wuenga incespicava con il fiato spezzato dal caldo umido insopportabile.

“Stregone!” disse il primo, “narrami ancora la storia del palazzo di Zoth-Tammog. Se devo rendere la mia anima a Umun-bha Regina dei Morti, voglio sapere il perché!”.

Wuenga si fermò, appoggiando le sue esauste membra al bastone.  Trasse alcuni lunghi respiri. Bevve da una fiasca, poi disse: “E’ scritto sulla Stele di Kerme” riprendendo fiato. “…che  il palazzo, nei suoi anni migliori, era stato una delle meraviglie del continente di Mu, dimora dei più ricchi mistici. Ultimo fra tutti Zoth, il vecchio, avido e malvagio Zoth-Tammog. Le leggende, tramandate dagli anziani capi tribù che abitavano un tempo queste terre, narrano della sua sconfinata ingordigia e del suo terribile potere. Egli era un adepto degli Dei di Mu, i cui nomi non pronuncerò per nulla al mondo. Zoth conosceva la loro vera natura, e fu un servo devoto. Garantiva a questi esseri dall’altrove sacrifici di primordine!

I suoi falsi Dei gli avevano concessero parte del loro sconfinato potere.  Il Grande Vecchio, come lo chiamavano gli aborigeni, rapiva giovani e belle fanciulle con occhi di zaffiro.  Egli era protetto da Giganti di cobalto ed I suoi nemici bruciavano nel fuoco verde, al cospetto di Shudde m’ell, il grande verme. Più diveniva ricco e potente e più diveniva sospettoso. La sua mente si contorse in un dedalo dal quale non uscì mai più.

Si ritirò dal mondo nel suo palazzo dorato, servito e riverito da esseri striscianti, schiavi del suo potere. Crogiolandosi nei suoi sogni di folle, spese lunghi anni immerso in esperimenti terrificanti i cui frutti deformi ancora abitano i saloni del suo palazzo. Fantastici tesori sono stati abbandonati nei saloni della dimora dell’ultimo Signore dei Falsi Dei di Mu. “

Taharka si era accomodato su un tronco caduto. Ascoltava con attenzione lo sciamano. Cercava di immaginarsi i giorni d’oro di Mu, dei suoi falsi dei e dei suoi stregoni.

“Dimmi Wuenga, quando morì Zoth-Tammog?” Chiese il gigante.

“Chi ti ha detto che sia morto?” rispose sardonico Wuenga. “Certe anime nere trovano sempre il modo di restare nel mondo. Forse i suoi falsi dei hanno ancora dei progetti per lui? O forse quell’empio stregone ha trovato il modo di sconfiggere la morte? Nessuno conosce la risposta…”.

Grattandosi il mendo, Taharka aggiunse: “Se Zoth è pazzo o morto, ed ha dei vermi striscianti per servitori, metteremo le mani su montagne d’oro e gemme!… Su tesori da sultani!”.

“Ma…” Wuenga  fece una pausa teatrale, “ … non incustoditi. I Giganti di Cobalto sono ancora a guardia delle ricchezze del loro padrone. Non è dato sapere cosa siano, poiché nessun predone è mai tornato per narrarlo.”  Poi Wuenga rivolse lo sguardo verso Taharka. I suoi piccoli occhi beffardi lanciarono un’occhiata raggelante, dai dietro la maschera.

“stai sicuro, mio possente amico” disse Wuenga “la morte sarebbe un sollievo, poiché Il più lieve dei supplizi che ci infliggerebbero sarebbe peggio dei tre inferni. E se saremo così fortunati da passare la loro guardia incolumi, ben altre trappole ci attendono…” Wuenga si interruppe bruscamente, poiché Taharka fece segno di  tacere.

Ogni senso del gigante eburneo era attivo. Sfilò lentamente lo spadone dal fodero, afferrandolo con le possenti mani callose. Anche Wuenga tese l’orecchio, ma non percepì che il frinire d’insetti ed il frusciare di foglie.

D’un tratto un sibilo tagliò l’aria. Una corta freccia piumata si conficcò nella coscia di Taharka, ed un dolore pungente raggiunse il suo cervello.

Wuenga diede una rapida occhiata al piumaggio del dardo, staccandolo dalla coscia del compagno.

“Cannibali Ghili-Ghili!” Esclamò lo stregone, guadagnando saggiamente un nascondiglio tra il fogliame.

Il gigante nero balzò invece accanto ad albero secolare, dando le spalle al tronco.

Dalla foresta uscirono una ventina di uomini, invisibili sino a pochi istanti prima. Completamente nudi e pitturati di bianco. Brandivano rozze lance e si incitavano con versi acuti, animaleschi. I loro denti appuntiti come quelli di un coccodrillo. Alcuni si avventarono su Taharka.

Il gigante eburneo caricò un fendente così potente da troncare a metà il primo, conficcando la lama nel ventre del secondo. La titanica arma era lenta, e gli indigeni ebbero il tempo di infilzare il fianco sinistro e la spalla del nero guerriero con le loro leggere lance. Con gli occhi colmi d’ira il gigante estrasse la spada dal ventre del nemico, calciandolo in terra con le budella sguscianti tra le mani. Menò un secondo mortale colpo spaccando la testa del cannibale, che esplose come un vaso colmo di vino. Ormai il nero guerriero non aveva più controllo su di se, e come una belva resa furiosa, menò fendenti distruttivi, falciando ogni cosa. Silenziosi come serpi, un secondo gruppo di indigeni fece la sua comparsa, proprio alle spalle di Taharka.

Wuanga usci dal suo nascondiglio, ed affrontò il gruppo di selvaggi. Afferrò un sacchetto dalla cintola e soffiò il contenuto sul volto dei suoi nemici. Pronunciò poi oscure parole della lingua morta dei Daghomba, ed i selvaggi furono improvvisamente colti da un terrore senza nome, come se stessero fronteggiando il peggiore dei demoni scaturito dall’inferno. Lasciarono cadere le armi, e fuggirono nel folto della foresta, urlando come folli. Wuanga riuscì a calmare il barbaro nero, con parole misteriose sussurrate al suo orecchio. La foresta era cosparsa di cadaveri e budella . Il gigante ansimava, con gli occhi spiritati e completamente ricoperto di sangue. I pochi cannibali sopravvissuti erano spariti, fuggiti senza meta nella giungla. La maggior parte aveva trovato una morte violenta e rapida per mano di Taharka, e giaceva al suolo straziata.

Taharka osservò il massacro dei suoi nemici.

“Ghili-Ghili… non sono degni di essere chiamati uomini” disse con profondo sdegno, digrignando i denti. “non vale la pena che io prenda il loro cuori”.

“Andiamo, prima che l’odore del sangue attiri altre attenzioni indesiderate!” disse il nero stregone.

Entrambi si voltarono e ripresero veloci il cammino.

Taharka si faceva strada tra i rami tranciando e strappando. Wuenga si fermò, pochi passi indietro. Il vecchio stregone aveva notato un frammento di pietra, seminascosto dalla vegetazione. Soltanto un occhio esperto e malizioso come il suo avrebbe potuto notarlo.

Il masso piantato a terra, pareva retaggio di epoche infinitamente più antiche. Si presentava come l’angolo smussato di una colonna, con bassorilievi di finissima fattura. Frammenti d’oro ne adornavano i solchi tracciati dallo scultore.

Taharka si fermò, rivolgendosi al vecchio. “Cosa leggi su quel sasso, stregone?” chiese.

“Un avvertimento…” disse con tono grave Wuenga.

Proseguì poi “è solamente una parte, e recita così…”.

Si schiarì la voce con un rauco rantolo, poi recitò “Non prendere ciò che non appartiene a mani di questo mondo, o conoscerai tormenti nell’altro”.

Taharka si voltò, come colto da un istinto animalesco e primordiale. Con un fendente tranciò un ramo spesso come il braccio di un uomo, liberando un sentiero che pareva portare al fondo di una valle.

Entrambi rimasero esterrefatti.

Adagiata come un diamante raro in un volgare prato, stava il palazzo dorato di Zoth. Nulla aveva a che spartire con la natura selvaggia che le faceva da cornice.  L’antico palazzo di Zoth-Tammog giaceva silenzioso come un gigante addormentato. L’antica dimora era una megalitica piramide, formata da immensi gradoni di pietra perfettamente levigata, interamente ricoperta da fogli d’oro puro spessi un dito. Ai quattro angoli  della enorme struttura centrale vi erano quattro statue gargantuesche, alte dieci volte un uomo. Possenti guardiani dalle fattezze vagamente umane, con enormi gemme per occhi rosse come gli inferi, ed interamente rivestite di cobalto blu come il più profondo degli oceani. Per qualche maleficio o stregoneria dei precedenti padroni, la vegetazione aveva risparmiato la struttura. La costruzione svettava, nel suo arrogante fulgore dorato.  Il sole morente ne infuocava le pareti esterne. Le figure titaniche ai lati della struttura sembravano osservarli con i loro occhi di rubino, mentre la luce del crepuscolo ne esaltava il rosso sangue.

Wuenga trasalì a tale vista.

 “Per tutti i teschi dei Daghomba!” esclamò il vecchio stregone.

Il gigante nero sobbalzò, osservando il palazzo come un leone osserva una preda ambita.

“Morte ed oro ci attendono” ringhiò come esaltato da tale prospettiva.

Persino la giungla fece un sospiro di stupore. Il frinire d’insetti e lo strisciare di serpi pareva essersi chetato.

I due scesero la china, circospetti come pantere.

Le enormi statue sembravano osservarli ad ogni passo. Non poterono non pensare ai guardiani di cobalto del racconto di Wuenga.

Taharka avrebbe giurato che la testa di uno di questi colossi di pietra mosse il capo per meglio osservarli.

Wuenga esclamò “non guardarli negli occhi pazzo!”.

Taharka distolse immediatamente lo sguardo. Il gigante nero sentiva quello sguardo di gemma sul collo, ma resistette.

Si mossero circospetti. Raggiunsero così la scalinata che portava all’entrata, passando accanto alle granitiche gambe di quelle enormi sculture, fin troppo realistiche.

Le scale di pietra e marmo erano perfettamente pulite da terra o rampicanti. I due salirono i gradini, sempre tenendo lo sguardo a terra e senza alzare mai gli occhi verso quei giganti blu.

 “E’ stato facile vecchio stregone!” esclamò il gigante nero.

“Non parlare troppo presto. Potremmo già essere caduti nella tela del ragno senza essercene resi conto. Taci e seguimi” sentenziò infine Wuenga.

L’entrata era alta ed oscura. L’arco che disegnava nella pietra rispondeva a geometrie perdute. Come un pozzo oscuro, inghiottì i due avventurieri.

I saloni interni erano illuminati da una fioca luce, vagamente dorata. Le pareti erano lisce e finemente decorate con inserti di marmo ed oro. La luce arrivava da alcuni pozzetti e, grazie al prezioso metallo che ricopriva ogni cosa, veniva riflessa ovunque. I saloni erano enormi, con volte altissime. In terra vi erano tappeti con trame tanto preziose quanto esotiche. Alcuni bracieri di bronzo erano accesi, ed emanavano un fumo odoroso e basso. Sentori di spezie e esotici profumi colpirono i sensi degli avventurieri. A loro tuttavia parevano dolciastri e nauseanti, come gli unguenti delle meretrici di Sinnara. Il fumo ammantava ogni cosa, impedendo una visuale chiara.

Taharka annusò l’aria. Il suo olfatto da cacciatore captò un odore mescolato al dolciastro profumo della nebbia. Questo lo fece mettere in allerta, come se quel profumo fosse irradiato ad arte per coprire ben altri olezzi.

I muscoli del gigante d’ebano si tesero. Strinse le dita all’impugnatura della spada così forte da sbiancare le nocche.

Wuenga si guardava intorno. Se la maschera di legno non avesse coperto il suo volto, Taharka avrebbe visto dello stupore vero sul suo volto. Per la prima volta in vita sua.

Il silenzio dei saloni venne interrotto da uno sgradevole rumore. Uno strisciare umido ed irregolare. Come se una massa informe e viscida si trascinasse sui preziosi marmi dorati.

Taharka afferrò per un braccio Wuenga, e si acquattarono dietro uno degli enormi bracieri fumanti. Nella penombra videro uscire da uno stretto passaggio su una parete vicina una figura che nulla aveva di umano. Pareva come un pallido globo molle ed iridescente. Si sosteneva a circa due braccia da terra grazie a dei tentacoli bianchicci. Alcune di queste propaggini erano invece rivolte in avanti fendendo spasmodicamente l’aria fumosa, toccando le pareti. Pareva guidarsi con queste appendici, come un vecchio cieco si guida con un bastone.

La creatura ignobile si mosse goffa verso uno dei bracieri del salone, ove erano nascosti i due avventurieri.

Taharka e Wuenga si schiacciarono quanto più possibile contro la parete, sgusciando sotto il piatto del braciere.

La creatura sembrava smuovere la cenere con le sue sguscianti appendici, come a ravvivare la brace. I due si scambiarono un’occhiata d’intesa. Quando la creatura fu proprio davanti a loro, protendendo i suoi tentacoli verso il volto di Wuenga, Taharka scattò come un leone. Appoggiò la schiena al piatto metallico, noncurante del calore. Il gigante nero fletté i suoi muscoli, facendo guizzare i bicipiti e le scultoree gambe. Il piatto bronzeo si rovesciò sul mostro, chiudendolo sotto al suo peso come una mano che cattura una mosca. L’orrore dello sfrigolare delle braci che bruciavano quelle empie carni era superato soltanto dall’odore nauseabondo da esso generato.

Sfruttando il momento sgattaiolarono veloci, lasciando la muta creatura a contorcersi tra le braci roventi.

Giunti ansimanti al passaggio verso il salone successivo, rimasero impietriti. Il salone era perfettamente identico al quello che avevano appena fortunosamente lasciato. Il fetore insopportabile della creatura infettava l’aria. Vi era Il braciere divelto, ed i tentacoli che ne uscivano da sotto.

Era come guardare in uno specchio!

Istintivamente entrambi volsero lo sguardo alle loro spalle. Là dove c’era l’architrave di marmo, ora si trovava solo la nuda parete con i ricami d’oro.

“Vi è un potente maleficio all’opera. I fumi sono drogati ad arte uniti alla potente stregoneria dei falsi Dei!” disse Wuenga, stringendo al petto un amuleto di ossa.

“I nostri sensi sono inutili qui” aggiunse.

Taharka, il gigante nero, ora pareva come sperduto. Vagava con lo sguardo intorno a se, ritornando sempre sul braciere e la creatura contorta sotto di esso.

“Siamo perduti!” esclamo Taharka, guardando lo stregone con gli occhi sgranati.

“Non disperare! O forse non ti meriti più il nome di Leone D’Oro del Mugadhu?. Ora ti guarirò io!” disse, traendo una manciata di polvere giallastra da un sacchetto. Con un soffio veloce, cosparse il volto del gigante.

Taharka cominciò subito ad urlare e sfregarsi gli occhi.

“Cosa m hai fatto? Vecchio stregone traditore!” urlò iracondo.

“Calmati scimmione! Ti ho reso cieco è vero… ma non devi fidarti dei tuoi occhi, poiché si ingannano più facilmente di un bimbo. Concentrati sul tuo istinto, Leone Nero!”.

Disse Wuanga, lanciandosi manciate di polvere negli occhi.

Tracciò poi dei segni misteriosi sulla fronte di Taharka e sulla propria.
“Nel mondo delle tenebre antiche un cieco vede come un falco.”

Rimasero ambedue a brancolare nel buio alcuni istanti.

“Vedi con la mente, guerriero! Vedi!” urlò Wuanga.

Dapprima il buio più nero e profondo si parò dinnanzi ai suoi occhi. Poi una luce, come una torcia infondo ad una caverna, balenò nell’oscurità.

Taharka era cosciente, ma quello che vide gli parve un sogno. Intorno a se alcune figure si muovevano, come scolpite in un fumo dorato. Erano donne splendide, ben tornite e nude. Camminavano in fila verso un altare, anch’esso fatto di fumo. Il gigante nero sentì poi la voce di Wuenga, ma non lo vide.

“Non temere Taharka. Ciò che vedi è in parte sogno, in parte passato. Noi pensavamo di essere scampati alla trappola dei guardiani di cobalto… invece ci siamo dentro. Un telo di illusioni è stato calato davanti ai nostri occhi. Ciò che ci può guidare è soltanto ciò che non si vede alla luce del sole. Segui la mia voce”

“Chi mi dice che questo non sia un altro inganno?” urlo Taharka.

“Hai forse altre possibilità?” rispose sardonico Wuenga.

Intorno al gigante nero si generò dal nulla un fastoso palazzo.  Ora tutto pareva avere una consistenza ed una forma più concreta, tuttavia i contorni rimanevano sfocati. La voce di Wuenga lo guidò attraverso saloni ricolmi di antichi tomi, tavole e steli. Tutto trasmetteva un senso di terribile, antica magnificenza. Splendide fanciulle e orribili e striscianti servitori gli passavano accanto noncuranti, come se Taharka fosse diventato uno spirito.

Infine giunse ad una imponente sala. Al centro vi era un altare in cima ad una scalinata di marmo bianchissimo, striato da lunghe colate di sangue ed altri liquami verdastri. In cima vi era un uomo. Le lunghe e fluenti vesti scendevano fino ai primi gradini, intrise di sangue ed icori, confondendosi con il marmo. L’uomo dava le spalle a Taharka, rivolto verso un idolo osceno scolpito in una enorme stele di roccia nera. Un mostro venuto dall’altrove. Una enorme bocca, irta di denti, senza occhi ne espressione. Appendici simili a tentacoli, alle cui estremità vi erano artigli incorniciavano le terribili fauci nere. Tutto questo pareva disegnato con un inchiostro di nebbia.

“Apri gli occhi!” urlo la voce di Wuenga.

Si senti il volto come sferzato da uno spruzzo. Tentò di aprire le palpebre. A fatica si riappropriò della vista. La sua vera vista.  Vide il pavimento di marmo nero. Alzò lo sguardo e vide Wuenga. Lo stregone teneva in mano un zucca vuota, e dalle labbra gocciolava del sangue.

“Cosa mi hai fatto?” chiese il gigante.

“Magia nera del sangue. Meglio che tu non sappia. E poi non capiresti. Tu capisci il ferro. Lascia il sangue a me.” Disse lo stregone nero.

Entrambi si voltarono e videro ciò che già avevano visto nel mondo delle ombre e del fumo. L’altare imbrattato di sangue, l’idolo mostruoso.

La stanza era deserta, fiocamente illuminata da lampade ad olio. Incensieri pendevano dall’irraggiungibile soffitto, ormai spenti e morti.

Taharka afferrò saldamente lo spadone, guardandosi intorno come un leone a caccia. Wuenga prese a salire le scale imbrattate di sangue. Era così secco da essere penetrato nel marmo, come una orribile pittura indelebile. Giunse in cima ai gradini, raggiungendo l’empio altare. Taharka alzò lo sguardo e vide lo stregone chino sull’altare. La figura mostruosa sullo sfondo pareva voler inghiottire il mondo.

“Wuenga, cosa fai? Dove sono i tesori? Presto voglio uscire da qui!” urlò spazientito Taharka.

L’anziano stregone si girò, tenendo in mano un antico tomo vergato col sangue. Iniziò a salmodiare un canto che echeggiava nella misteriosa sala.

Al suo salmodiare, l’idolo in pietra nera sembrava iniziare a muoversi, come se la pietra diventasse una massa di carni scure.

“Wuenga! Wuenga!” ruggì il gigante nero, spazientito ed inquietato.

Più Taharka gridava e più il canto aumentava di ritmo e volume.

Improvvisamente si aprirono dei passaggi ai lati della stanza. Non erano porte di legno o pietra. Parevano più orripilanti orifizi carnosi. Da queste fauci creature senza nome fecero il loro ingresso.

Taharka alzò la spada all’altezza della spalla, pronto a menare mortali fendenti. Guardò nuovamente lo stregone Wuenga.

La sua maschera era calata, e la sua pelle sembrava afflosciarsi sulle sue membra, scoprendo i muscoli e le ossa. La sua faccia si sciolse come una candela in estate, svelando il suo vero volto. Ora al posto di Wuenga stava una sorta di grottesca e putrescente figura. Il teschio manteneva gli occhi vigili e bianchi. La mascella scarnificata si mosse e parlò.

“Taharka il leone, stolto! Ti sei mai chiesto perché io conoscessi tanto del palazzo di Zoth-Tammog? O come mai i guardiani di cobalto ci hanno lasciato passare?”

Il gigante nero abbassò la spada, incredulo.

La figura marcescente parlò ancora.

“Io sono Zoth-Tammog idiota!” urlo la figura, poi proseguì: “Io lessi le tavole di sangue, io viaggiai nei reami del sogno proibito, Io bevvi il latte dei cuccioli di Shub-Niggurath! Tu povero stolto hai ben servito ai miei piani! Hai preso molti cuori di guerrieri e Re! Quelle anime sono in te, ed io sono affamato di anime. Ora lasciati catturare dai miei servitori e dona il tuo cuore di leone a me! Affinché la tua insulsa esistenza serva al proseguimento della mia!”.

L’inquietante figura proruppe in una diabolica risata, che echeggiò nell’oscuro salone.

Taharka sentì un brivido gelido percorrere la spina dorsale. Il suo amico Wuenga non era mai esistito. Era stato allevato come un agnello sacrificale dallo stregone, per poi morire su un altare nelle profondità del suo palazzo d’oro. Capì che non aveva scampo. Ma come un leone ferito è ancor più pericoloso, il gigante nero accerchiato diventò una furia.

Afferrò saldamente l’enorme spada che, grazie alle sue braccia possenti, vibrava nell’aria come uno stiletto. Fece strage delle creature che gli venivano incontro. La lama tagliava, amputava e squartava quelle rivoltanti figure pallide e globulari, che tentavano di imbrigliarlo con i loro viscidi tentacoli.

Si fece strada nella carne dei suoi nemici, fino a raggiungere uno degli incensieri appesi al soffitto. Con uno sforzo sovrumano si issò a qualche braccio da terra, scalciando e tagliando con la spada le appendici tentacolari. Ormai Taharka non ragionava più. Era come un animale scatenato, ricoperto di brandelli biancastri ed icore.

In un impeto di furia, si dondolò sulla spessa catena di bronzo che sorreggeva l’incensiere. Il colpo di reni fu così potente da far ondeggiare la catena, dandogli lo slancio per lanciarsi sull’altare.

Come un felino balzò, lasciando la catena, che si staccò dal soffitto e cadde sulla massa informe di servitori di Zoth-Tammog. Il gigante atterrò accanto a Zoth, o quello che ne restava.

“Hai ragione stregone. Io non capisco di magia. Capisco soltanto il ferro!” disse il guerriero nero.

Alzò poi la spada sopra la testa, portando un colpo terribile con entrambe le braccia. La lama calò su Zoth, ed il suo marcescente corpo cedette. La testa venne staccata di netto, e la lama possente si conficcò nella spalla.

Taharka calciò via il corpo dalla lama. Raccolse poi la testa che ancora sghignazzava. La mostrò sprezzante al falso dio di pietra nera alle sue spalle.

“Ecco il vostro servo!” Gridò sprezzante Taharka, lanciando poi la testa nelle nere e gorgoglianti fauci.

Un ringhio ultraterreno scosse la stanza. L’idolo parve volersi staccare dalla pietra che la teneva imprigionata.

Il gigante nero si guardò intorno, cercando una via di fuga. Vide che i servitori si erano presto dileguati, alla vista del loro padrone morto.

Balzò giù dall’altare con l’agilità di un ghepardo e corse più veloce che poté. I corridoi di fine marmo ed oro alle sue spalle si sgretolavano come terra secca, squassati dagli spasmi della nera creatura.
Taharka corse finché non vide il portone d’entrata e si lanciò fuori con un ennesimo balzo. Gli occhi ed i polmoni parevano in fiamme per i fumi nauseabondi e per la corsa.

Quando fu finalmente fuori non si voltò. Corse nel fitto della foresta, tagliandosi e pungendosi con spine e rami. Risalì la china da cui era disceso insieme a Wuenga, o qualunque cosa fosse.

Stremato, infine, si voltò. La terra stava inghiottendo il palazzo dorato e le quattro guardi di cobalto sembravano prendere vita. Si contorsero lentamente in  agonia, artigliando la terra, come un uomo che affonda nelle sabbie mobili.

Poi fu silenzio.

Là dove giganteggiava il palazzo d’oro, ora stava una distesa brulla ed irregolare di terra. Come se non vi fosse mai stato altro.

Il ventre del mondo aveva inghiottito quell’abominio, perpetrato nei secoli.

Taharka cadde sulla schiena, ansimando come un cane assetato, mentre la notte calava e le stelle facevano capolino guardandolo, impassibili, distanti e fredde.


 

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