Saggio di Lorenzo Pennacchi, tratto da L’Intellettuale Dissidente del 28 novembre 2018.
L’adattamento in chiave sword and sorcery di una terra leggendaria, da parte di colui che, secondo H. P. Lovecraft: «s’è sottratto ai feticci della vita e del mondo e ha intravisto la perversa, titanica bellezza della morte e dell’universo».
Negli ultimi mesi le pagine de L’Intellettuale Dissidente hanno ospitato diversi articoli riguardanti il fantastico, nelle sue varie forme: dallo sword and sorcery di Conan il Cimmero, alla personalità onirica di Lord Dunsany, dalla nuova fantasia eroica mediterranea al pensiero magico presente nel Trono di Spade. Di fatto, si sta calcando un sentiero, da tempo presente nel percorso del giornale, nella convinzione che ragionare oltre il reale non sia un semplice esercizio di stile e di evasione, ma anche una delle modalità del pensiero critico da applicare alla realtà. Volenti o nolenti, infatti, gli autori del fantastico sono figli del proprio tempo. Nelle loro opere non proiettano solamente le convinzioni, le preoccupazioni e le esperienze personali, ma anche quelle che attanagliano la società. Tuttavia, questi scrittori, per essere autentici, sanno andare al di là dei meri fatti, (ri)scoprendo fenomeni che forse sarebbe stato meglio ignorare, dando nomi a entità indicibili e prefigurando scenari paralleli a quelli generalmente riconosciuti. John Ronald Reuel Tolkien definiva questa capacità (di creare un mondo secondario con caratteristiche altre rispetto a quello primario, ma in grado di far scaturire ragionamenti su quest’ultimo) arte sub-creativa, presentata nel suo saggio Sulle Fate:
Che le immagini si riferiscano a cose che non appartengono al Mondo Primario (se davvero ciò è possibile) è una virtù, non un vizio. La Fantasia in questo senso è, credo, non una forma inferiore ma una forma più elevata di Arte, invero la forma più prossima alla purezza e dunque (quando viene raggiunta) quella più potente.
Nel creare mondi altri, tali autori si riferiscono, più o meno direttamente, a luoghi, tempi, avvenimenti, tradizioni e credenze disseminati nei secoli. Un caso esemplare in questo senso è quello di Clark Ashton Smith (Auburn, 13 gennaio 1893 – Pacific Grove, 14 agosto 1961). Poeta, scultore e scrittore, Smith merita di essere annoverato, assieme ai suoi contemporanei Robert Ervin Howard e Howard Phillips Lovecraft, tra i grandi innovatori della letteratura del fantastico della prima metà del Novecento. Proprio il suo corrispondente, nonché amico, Lovecraft lo presenta così nella recensione ad una raccolta di poesie del 1922:
Il signor Smith è relativamente poco noto al di fuori dell’ambiente californiano a causa dei gusti d’un pubblico che diffida della bellezza e delle avventure dello spirito. Ebony and Crystal rappresenta il coraggioso rifiuto d’un artista di un mondo di macchine e di registratori di cassa, di complessi freudiani e di test Binet-Simon e che ha scelto reami d’intensa e iridescente bizzarria al di là dello spazio e del tempo, eppure veri come qualunque altra realtà oggettiva perché tali li hanno resi i sogni. Il signor Smith s’è sottratto ai feticci della vita e del mondo e ha intravisto la perversa, titanica bellezza della morte e dell’universo; servendosi dell’infinito per creare i propri sfondi e registrando con reverente timore i capricci di soli e pianeti, di dèi e di demoni, e di ciechi orrori amorfi che infestano giardini di fungosità policrome più remoti di Algol e d’Achemar. È un cosmo di vivida fiamma e di glaciali abissi quello che egli celebra, e il rigoglio dai colori, sgargianti con cui lo popolo non deriva da nient’altro se non dal genio più vero.
Nella sua produzione relativa al fantastico, Smith ha ideato diverse ambientazioni (da quella medievale di Averoigne, a quella futuristica di Zothique), ma si è anche rifatto a territori già presenti nell’immaginario collettivo. È il caso della raccolta sword and sorcery che prenderemo in esame in queste pagine: Hyperborea. Come ricorda Umberto Eco nella sua Storia delle terre e dei luoghi leggendari: «Gli iperborei (“coloro che vivono oltre Borea”, che era la personificazione del vento del Nord) erano considerati dagli antichi un popolo che viveva in una terra lontanissima situata a nord della Grecia. Questa regione era un paese perfetto, illuminato da un sole che splendeva per sei mesi all’anno». Riportando la testimonianza di Ecateo di Mileto, nel primo secolo a. C. Diodoro Siculo ci parla di questa terra come un’isola fertile, con un clima eccezionalmente temperato, in cui si venera Apollo e si porta avanti una grande amicizia con i Greci. Col passare del tempo, Iperborea è sempre più venuta a coincidere con la patria di una presunta primigenia razza ariana. In un percorso che inizia nel Settecento e culmina nelle applicazioni plateali del nazismo, anche intellettuali del calibro di Friedrich Nietzsche e Julius Evola si sono rifatti a questa tradizione. Ne L’Anticristo (1888) Nietzsche, con l’affermazione Noi siamo Iperborei, introduce una delle sue molteplici invettive al Cristianesimo, reo di aver soppiantato i forti valori primigeni con «la malattia, la vecchiaia, la contraddizione». Rifarsi ad un tale immaginario è dunque la via per elevare la volontà di potenza, liberandosi dalla piaga cristiana che caratterizza la vita moderna: «Noi abbiamo scoperto la felicità, noi conosciamo la via, noi trovammo l’uscita da interi millenni di labirinto […] Meglio vivere nei ghiacci, piuttosto che tra le moderne virtù e altri venti del Sud!». Così Evola nella Rivolta contro il mondo moderno (1934):
Secondo la tradizione, in un’epoca dell’alta preistoria, che viene a corrispondere alla stessa età dell’oro o dell’“essere”, la simbolica isola o terra “polare” sarebbe stata una regione reale situata nel settentrione, nella zona dove oggi cade il polo artico della Terra; regione abitata da esseri i quali, in possesso di quella spiritualità non-umana (per la quale stanno le già indicate nozioni di oro, “gloria”, luce e vita) successivamente evocata dal simbolismo suggerito appunto dalla loro sede, costituirono la razza che ebbe in proprio la tradizione uranica allo stato puro ed uno e fu la scaturigine centrale e più diretta delle forme e delle espressioni varie che questa tradizione ebbe in altre razze e civiltà.
La ricostruzione editoriale del ciclo di Clark Ashton Smith non è affatto immediata. Egli scrisse dieci racconti e un poema in prosa relativi ad Iperborea, che però furono pubblicati in più riviste (dal 1929 al 1958) e non in ordine cronologico. Nel 1971 Lin Carter decise di dar vita ad un’edizione unitaria dell’opera per la Ballantine Books, secondo un criterio ripreso alla lettera dalla Fanucci nell’edizione italiana del 1989, nella quale, però, non compaiono né l’ultimo racconto (Il furto delle trentanove cinture, pubblicato in un altro volume della serie), né il poema in prosa. Nel suo lavoro, Carter dovette far fronte a diverse problematiche. Innanzitutto, a parte rarissimi casi, Smith è sempre stato vago rispetto alla data delle sue storie. Inoltre, al contrario dei cicli howardiani e di altri suoi contemporanei, quelli di Clark Ashton non sono mai incentrati su un singolo personaggio. Tuttavia, l’editore statunitense riuscì ad operare una scansione spazio-temporale dei racconti che, per quanto criticabile, appare piuttosto convincente. Di fatto, come viene sottolineato nella prefazione dell’edizione italiana, la divisione prevede due blocchi principali, un testo che funge da cardine e una serie di storie ambientate nella penisola di Mhu Thulan (un voluto richiamo al continente di Mu, generalmente associato al mito atlantideo).
Come si legge nell’introduzione all’edizione italiana: «Smith dà ad Iperborea una vaga posizione nello spazio nel racconto Ubbo-Sathla, quando si riferisce di sfuggita al fatto che l’antica penisola di Mhu Thulan corrisponde approssimativamente alla moderna Groenlandia. Oltre a questa osservazione casuale non ci vengono fornite altre informazioni, né sulla grandezza né sulla posizione del continente». Le prime righe de Le sette fatiche, il primo racconto della raccolta, ambientato nel periodo in cui la città di Commorion è la capitale del regno di Iperborea, permettono di comprendere alcune caratteristiche dell’immaginario dell’autore californiano:
Lasciando ai meno intraprendenti i bradipi e i pipistrelli vampiri dell’interminabile giungla, e così pure i piccoli ma pericolosissimi dinosauri, Ralibar Vooz e la sua compagnia si erano spiati oltre, percorrendo il cammino fra la Capitale di Iperborea e la loro meta in un solo giorno di marcia. I declivi erbosi e i sinistri dirupi del monte Voormithadreth, il più alto e inaccessibile dei Monti Eiglofiani, si elevavano dinanzi a loro, stagliandosi cupi contro la luce del sole al meriggio, con i neri picchi vulcanici e celando il trionfo del tramonto. I cacciatori avevano trascorso la notte al disotto dei picchi più bassi, vegliando di continuo, alimentando i fuochi con cespugli secchi e tendendo l’orecchio verso le spaventose alture che li sovrastavano e agli orrendi ululati quasi canini dei Voormis, i selvaggi sub-umani, dai quali la montagna prendeva il nome. Avevano udito anche il muggito degli enormi capri di montagna cacciati dai Voormis, e il ruggito di dolore di una tigre dai denti a sciabola, colpita e abbattuta. E Ralibar Vooz li interpretò come un funesto presagio per la caccia del giorno dopo.
Iperborea viene dunque presentata come una terra angusta, popolata da pericolosi animali e selvaggi sub-umani. In questo contesto, Ralibar Vooz, alto magistrato di Commorion di sangue reale, del tutto avverso a qualsiasi narrazione soprannaturale, nel corso della sua spedizione si imbatte nello stregone Ezdagor, rovinando inconsapevolmente una sua evocazione. La condanna di Ezdagor è lapidaria: «Non me ne importa niente che tu sia magistrato della legge dei maiali e cugino del re dei cani. Per l’incantesimo che hai mandato in fumo con la tua stupida intrusione, ti infliggerò un castigo ben più spaventoso, terribile e amaro». Il magistrato, paralizzato dalla maledizione dello stregone, viene costretto a discendere nelle profondità del monte Voormithadreth, passando disarmato nelle caverne dei Voormis, per offrirsi come vittima sacrificale al dio Tsathoggua. Guidato dall’uccello Raphtontis, Ralibar Vooz riesce a raggiungere l’empia divinità, la quale, essendosi appena saziata, lo rifiuta e gli comanda di offrirsi come dono al dio ragno Atlach-Nacha. Il passaggio di consegne della vittima prosegue a lungo: prima allo stregone antelunano Haon-Dor, poi alla comunità di serpenti-scienziati, infine agli Archetipi. Questi ultimi, le creature originarie della specie umana, si mostrano «disgustati alla vista di una copia così volgare e pervertita, rispetto al vero modello» e rigettano nuovamente lo sfinito cacciatore al grande dio Abhot, il quale, non riconoscendolo come sua progenie, lo rinnega a sua volta e lo condanna a ricercare l’Altro Mondo, «un abisso che nessuno aveva mai tentato di sondare», verso il quale Ralibar Vooz precipita.
In questo primo testo sono dunque prefigurate diverse tematiche che si trovano in tutta la raccolta. In primo luogo, l’enorme influenza della stregoneria. Ne Il testamento di Athammaus la caduta della capitale Commorion viene imputata alla presenza di Knygathin Zhaum, un fuorilegge voormis incapace di morire, nonostante le ripetute esecuzioni pubbliche, che obbliga i cittadini ad abbandonare la città in preda al panico:
Inoltre, la fuga era accelerata dai suoni vocali che, per la prima volta da quanto era tra noi, il mostro emetteva. Più che suoni, avevano la caratteristica di sibili, ma la loro intensità era così insopportabile, da essere un tormento e una tortura nauseante per le orecchie che la ascoltavano. Peggio ancora, era il fatto che uscivano non solo da quella membrana simile alla bocca, ma anche da qualsiasi altra apertura e ventosa di cui il mostro era dotato. A quel lacerante fischio anch’io, Athammaus, indietreggiai ben lontano dalla portata dei suoi lunghi tentacoli.
Questo passo ci permette di sottolineare quanto nel ciclo di Smith la massima howardiana recitata da Conan secondo cui «non c’è nulla nell’universo che il freddo acciaio non possa tagliare» non regga affatto: la stregoneria sembra essere molto più potente della spada. Inoltre, la dimensione prevalente non è determinata dallo scontro, bensì dal terrore, in evidente rapporto di continuità con l’opera di H. P. Lovecraft. Non che Smith abbia solamente preso dal solitario di Providence, tutt’altro. Ad esempio, il già citato dio Tsathoggua, comparso per la prima volta ne Il racconto di Satampra Zeiros del 1929, è stato inserito in diverse storie lovecraftiane, nonché nella celebre classificazione di Miti di Cthulhu operata da August Derleth. Proprio in una lettera a Derleth, del 26 luglio 1944, Smith sostiene: «I miei racconti riguardo Iperborea, mi sembrano, con i loro primordiali, preumani e qualche volta premondani elementi, i più vicini al Miti di Chtulhu, anche se molti di essi sono scritti in una vena grottesca che li differenzia notevolmente. Tuttavia, un racconto come L’avvento del verme bianco può essere considerato come un diretto contributo ai Miti». Nel testo a cui fa riferimento, Smith presenta un’altra divinità del suo variegato pantheon, Rlim Shaikorth, alla quale lo stregone umano Evagh è costretto a prostrarsi:
Alla vista dell’entità che occupava la pedana, le pulsazioni di Evagh furono immobilizzate da un istante di terrore; subito dopo il momento di terrore, la sua gola si gonfiò per la ripugnanza. In tutto il mondo non esisteva nulla che per oscenità potesse essere paragonato a Rlim Shaikorth. Aveva qualcosa che lo faceva somigliare a un grasso verme bianco, ma la sua massa era maggiore di quella dell’elefante di mare. La cosa semiarrotolata era spessa come la spira centrale del suo corpo, e la parte anteriore si sporgeva in avanti dalla pedana nella forma di un disco bianco e tondo su cui erano impressi dei vaghi lineamenti. In mezzo al viso una bocca si curvava oscenamente da lato a lato, aprendosi e chiudendosi incessantemente su delle fauci pallide, prive di lingua e di denti. Le occhiaie erano molto ravvicinate al di sopra delle narici profonde, ma erano prive di occhi, e in esse appariva di tanto in tanto un globulo di una sostanza color del sangue a forma di pupilla; e sempre i globuli si spezzavano e sgocciolavano davanti alla pedana. Dal pavimento di ghiaccio poi salivano due masse simili a stalagmiti, purpuree e scure come sangue coagulato, formate dall’incessante cadere dei globuli.
I rimandi lovecraftiani non terminano certamente qui. Nel racconto Ubbo-Sathla, il cosiddetto Libro di Eibon viene accostato al noto Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred citato in lungo e in largo dallo scrittore di Providence. Così come il debito di H. P. L. verso Smith è testimoniato anche dal fatto che egli è inserito con lo pseudonimo del gran sacerdote Klarkash-Ton nel racconto Colui che sussurrava nelle tenebre. Insomma, un rapporto intenso, sul quale sarebbe stimolante indagare ulteriormente. Nel suo celebre saggio L’orrore sovrannaturale nella letteratura, il solitario di Providence omaggia ampiamente il suo corrispondente:
Degli autori americani più giovani nessuno sa attingere i vertici di terrore cosmico del poeta, artista e scrittore californiano Clark Ashton Smith, i cui scritti bizzarri, disegni, pitture e storie fanno la gioia delle persone più sensibili. Il retroterra di Smith è un universo di remoto e paralizzante terrore: giungle di fiori iridescenti e velenosi sulle lune di Saturno, grotteschi templi carichi di malvagità d’Atlantide, Lemuria e di altri antichi mondi, e umidi acquitrini costellati di funghi letali in paesi spettrali al di là dei confini della Terra. […] Smith non è forse superato da alcun altro scrittore vivente o del passato. Chi mai ha avuto simili fastose, lussureggianti, febbricitanti e distorte visioni di sfere infinite e di dimensioni multiple e vi è sopravvissuto per raccontarle?
È tuttavia doveroso sottolineare come, durante tutto il ciclo, lo stile e l’inventiva di C. A. S. sia ben riconoscibile e non identificabile con quella di nessun altro scrittore, Lovecraft compreso. La capacità di variare gli scenari e di non legarsi a nessun personaggio specifico, che per molti altri potrebbe essere un grande limite compositivo, è il più grande punto di forza di Clark Ashton. In quello che forse è il suo racconto più peculiare, La porta di Saturno, lo scrittore californiano trasporta l’ambientazione su un altro pianeta, Cyranosh (Saturno per gli Iperborei), sul quale due rivali di Mhu Thulan giungono per mezzo di un portale propiziato dal dio Zhothaqquah, entrando in contatto con una molteplicità di popoli e divinità (come Hziulquoigmnzhah, zio paterno di Zhothaqquah). Smith presenta queste popolazioni da un punto di vista antropologico profondo. Dei Bhlemphroims, ad esempio, illustra tutti gli aspetti del vivente, dall’anatomia, all’economia, dalla riproduzione alla spiritualità: «ma oggi parevano diventati deplorevolmente molto più materialistici e avevano smesso da lungo tempo di offrire sacrifici e preghiere agli Dei».
Dopo aver presentato alcuni degli aspetti principali del ciclo di Iperborea, in riferimento alle esperienze e al contesto dell’autore, si può affermare che ad oggi a Clark Ashton Smith non sono riconosciuti pienamente i suoi meriti. Risulta infatti impressionante il divario di pubblico che lo separa da alcuni suoi corrispondenti (dai quali ha preso, ma ha anche certamente dato), nonché la scarsa reperibilità delle sue opere che lo relega allo status di autore di culto per pochi eletti. Anche per questo, in un mondo dove quasi tutto è a portata di click, la sua figura affascina più che mai.
Ringraziamenti
L’autore ringrazia il suo amico e collega Francesco La Manno per averlo introdotto a Clark Ashton Smith e avergli fornito il testo presentato in questo articolo.