Luoghi degli Annali Apocrifi: Testaceus

Nessuno badava alla sua presenza.

In fondo, Arnu Lethiu era uno dei tanti facchini che bighellonava nella zona dei magazzini; sua madre, di origine etrusca, era svanita nelle mani degli Inquisitores dell’Imperatore Traiano, accusata di essere una Striga. Erano passati anni ma Arnu Lethiu non aveva smesso di cercarla: ogni giorno veniva ai piedi del Mons Testaceus per esercitare quel poco di sapienza Rasna che era riuscito a imparare.

Se ne stava semplicemente lì, a osservare il profilo frastagliato delle migliaia di cocci calcificati alla rinfusa, il gioco di luce che il sole creava quando tramontava oltre la vetta della collina. Gli avevano detto che il Testaceus era formato interamente dai resti di anfore distrutte. Una volta aveva provato a scalarlo perfino, ferendosi le mani e le ginocchia. Odore di olio stantio e calce ancora fresca. Lassù gli sembrava di sedere sulla vetta del mondo. In effetti – era stata sua madre a insegnarglielo – se stava con gli occhi chiusi e si lasciava andare riusciva a sentire la varietà di storie che i cocci sepolti avevano da raccontargli.

Anfore vecchie, che avevano attraversato il Mediterraneo per rifornire i magazzini dell’Urbe. Mani sudate, dita callose che le avevano maneggiate e infine distrutte. Racchiuso sotto il Mons Testaceus c’era un groviglio di sentimenti. Dolore. Rancore. Smarrimento. Arnu Lethiu raccoglieva i frammenti sparsi di quei pensieri dentro di sé, componendo il mosaico della propria vendetta nei confronti di quegli uomini che lo avevano privato di sua madre. L’avrebbe ritrovata. A costo di tingere il Tevere col sangue stesso dell’Imperatore.


Sbirciamo fra le pagine dell’Impero Romano fantasy degli Annali Apocrifi. La scena che avete letto è ambientata a Roma, nel cuore stesso dell’Impero. Siamo a sud dell’Aventino, nei pressi dell’Emporium, il grande porto fluviale costruito nei primi anni del II sec a.C. Il solo porto fluviale del Foro Boario non è più sufficiente a gestire l’immenso fabbisogno dell’Urbe.R30X

Qui l’architettura è ben diversa da quella che possiamo immaginare ricordando i templi, le domus o le insule romane. Gli edifici sono bassi, lunghi e ricordano i moderni capannoni industriali. Sono gli horrea, i magazzini in cui vengono scaricati che arrivano a Roma tramite le chiatte che risalgono il Tevere. Grano, vino, olio, marmo e beni da ogni angolo dell’Impero, dalla Britannia all’Egitto.

Nei pressi dell’Emporium era possibile scorgere una struttura peculiare: il Mons Testaceus. Non si tratta di un colle naturale ma di una vera e propria discarica di epoca romana, creata dall’accumulo dei cocci di anfore che avevano trasportato le riserve di olio per la città. Il problema dei rifiuti e di uno smaltimento sostenibile doveva essere una delle sfide di Roma antica: già Agusto (27 a.C – 14 a.C.) aveva creato la carica di curator riparum et alvei Tiberis con lo scopo di vigilare sulla pulizia del Tevere, competenza che Traiano estese anche alla rete fognaria della città [1].

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Il Monte Testaccio a Roma, come appare ai nostri giorni

Le anfore ‘esauste’ venivano infrante, i cocci impilati ordinatamente come tegole; il tutto veniva cementato con colate di calce viva che avevano lo scopo di evitare il cattivo odore e rendere stabile l’insieme. Il Mons Testaceus è un reperto unico nel suo genere [2]: ogni metro cubo non contiene traccia di terra ma circa 600 chili di cocci. Oggi la collina del Testaccio è alta 35 m, si estende per 20.000 metri quadri e contiene più di 40 milioni di frammenti di anfore!

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Note

[1] A. Contino, L. D’Alessendro. I rifiuti nel mondo romano: problema e risorsa. Articolo consultabile al seguente link: https://romatevere.hypotheses.org/529

[2] A. Angela. Una giornata nell’antica Roma, pag. 134. Mondadori (2007)

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