
Per la rubrica de I racconti di Satampra Zeiros, abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Francesco Lacava, scrittore emergente che ci propone La fortezza Grigia, racconto sword and sorcery di circa 30.000 battute spazi inclusi.
Buona lettura.
AUTORE
Francesco Lacava nasce a Taranto il 06 Gennaio 1981. Laureato in Scienze Politiche e Antropologia, è un appassionato lettore e narratore, scrive fin da giovanissimo.
Partecipa a diversi concorsi letterari ottenendo risultati in ognuno di essi, spaziando dall’horror, alla fantascienza e la narrativa.
Collabora con la rivista online Callmeishmael.net e con Nocturno in qualità di Freelancer.
LA FORTEZZA GRIGIA
FRANCESCO LACAVA
Era quasi il tramonto quando Ettore individuò la fortezza. Dai merli e dalle feritoie delle torri si iniziarono a intravedere le torce, piccole stelle tremolanti, a dimostrazione che c’era vita in quelle possenti mura.
Era stanco e impolverato dal lungo viaggio, da settimane cavalcava attraverso la penisola. Adesso sentiva la necessità di riacquistare la sensibilità alle natiche e di un po’ di riposo.
Giunto all’ultima curva prima delle mura, una voce poderosa gli intimò di fermarsi.
«Chi va là?»
Ettore tirò le redini del ronzino e alzò le braccia al cielo.
«Un viaggiatore. Cerco riparo per la notte» rispose.
«Questa è una prigione, non una locanda. Scendi a valle e troverai quello che cerchi» ribatté la voce.
«Mi basta solo della paglia su cui sdraiarmi e un tetto sopra la testa. Ve lo chiedo per amore cristiano e nel nome di Dio, confido che tale virtù alberghi ancora nel cuore degli uomini» insisté Ettore.
«Siete un prete?»
Ettore non rispose, si limitò ad annuire bonariamente.
Il sole era calato del tutto e le ombre iniziavano ad avvolgere la terra, le luci delle fiaccole restavano gli ultimi baluardi contro l’oscurità.
D’improvviso la voce della guardia tornò a parlare: «Venite alla porta laterale, ci sarà qualcuno ad accogliervi.» Il tono era cambiato, non più un tu diretto e informale, ma un voi di rispetto e distanza. L’avevano bevuta, o almeno così sembrava.
Spronò il cavallo verso un piccolo sentiero quasi invisibile e giunse ad una piccola porta a grata. Un armigero smilzo lo attendeva. Ettore smontò da cavallo con lo sguardo più mite che riuscì a sfoderare e si avvicinò, lasciando che la luce dorata della lanterna gli illuminasse la faccia.
«Buonasera» salutò.
L’uomo indugiò qualche attimo, osservando sia lui che il cavallo, dopodiché sollevò la grata lasciandolo passare. Percorsero un breve corridoio fino al cortile interno, circondato da archi.
A destra in un angolo era posizionata una gogna lurida e poco più in là una gabbia di ferro rugginoso dondolava sospesa e vuota. Ettore distolse lo sguardo, la vista di quegli strumenti lo faceva soffrire.
Tutto era stranamente silenzioso e l’armigero non aveva ancora detto una parola, si limitava a fare strada e a lanciare occhiate di traverso. Ad un tratto gli fece cenno di lasciargli il cavallo, Ettore gli consegnò le redini e iniziò a fissarlo.
«Che tipo di prigionieri tenete qui?» domandò.
Lo smilzo, visibilmente scocciato dalla domanda iniziò a roteare lo sguardo evitando volutamente di incrociare quello di Ettore. Messo alle strette rispose:
«Il Capitano, forse, risponderà alle vostre domande.»
«È da lui che stiamo andando?»
La guardia annuì.
Ettore proseguì in silenzio per il tragitto rimanente, accarezzando cautamente la daga nascosta nelle falde del mantello.
Il Capitano lo accolse in una sala circolare, era un uomo sulla quarantina, appesantito dal ruolo e dall’età. Portava una benda sull’occhio destro, una folta barba grigia e capelli lisci e unti che arrivavano alle orecchie. Sedeva ad un tavolo pesante e tagliava una mela con un coltello dal manico di avorio.
«Buonasera padre, avete già cenato?»
Ettore scosse il capo.
«Porta del cibo al padre. E del vino» ordinò alla guardia.
«Non recatevi disturbo, capitano, posso digiunare. Mi basterà solo un tetto, anche la stalla andrà bene.»
«Non posso permettere che digiunate, né che dormiate nella stalla. Mi scuserete solo per tutte queste precauzioni, padre. Io sono Giacomo Masi, e voi?»
«Ettore Borromini.»
«Da dove venite? Il vostro cognome non sembra toscano.»
Ettore annuì: «Dite bene Capitano, vengo dal Veneto. E sono diretto a Roma.»
«Siete un po’ fuori strada, allora. Domattina vi farò scortare da una delle guardie lungo la via che porta direttamente a Roma.»
Ettore sorrise entusiasta: «Siete una persona di vero cuore, Capitano. Dio vi benedica e vi conservi.»
Nel frattempo la guardia era tornata con una scodella di zuppa fumante e un pezzo di pane.
«Prigione singolare questa. Che tipo di persone tenete qui dentro?»
«Gente pericolosa e diabolica» rispose vago Masi.
Ettore si segnò prontamente.
«Non temete, padre. L’intero corpo di guardia è in grado di tenere testa a questi briganti. Senza contare che sono tutti rinchiusi dietro pesanti porte di quercia.»
Dopo un breve attimo di silenzio il capitano iniziò a ridere mettendo in mostra i denti gialli e storti. Ettore rispose con una risata di circostanza, non riusciva a cogliere il significato di tanta ilarità.
Il capitano aveva ceduto ad Ettore la sua stanza nella torre, dicendo che lui avrebbe dormito con i suoi uomini nella grande camerata del mastio centrale.
Della presenza dei prigionieri ancora nessuna traccia. Era come se oltre a lui, il capitano, le guardie, non ci fosse nessun altro tra quelle cupe mura. Eppure Masi gli aveva detto che erano rinchiusi dodici uomini, di cui due francesi ed un cipriota.
Ed era esattamente lui che cercava.
Al solo pensiero di averlo a portata di mano fremette di rabbia, contrasse le mani artigliandosi le ginocchia. Gli occhi per un attimo si velarono. Aveva versato troppe lacrime, nonostante continuasse a dirsi mai abbastanza.
Si alzò e prese a passeggiare nella camera avanti e indietro come una fiera in gabbia.
L’unica luce all’interno della stanza era data da una candela di sego posta sul tavolo. La piccola fiammella tremolava ogni volta che lui vi passava accanto.
Quando ritenne di essersi calmato aprì la porta di uno spiraglio e tese l’orecchio. Oltre al sibilo del vento non c’erano altri suoni. La fiamma della candela danzò allo spiffero e poi si spense.
Fu come un segnale.
Aprì la porta e scivolò furtivamente lungo il corridoio, con la daga assicurata al suo fianco. Gli bastarono pochi attimi perché gli occhi si abituassero alla oscurità. Scese lentamente tenendo la schiena appoggiata alla parete. Al piano terra c’era un fuoco ancora vivo, che rischiarava la sala dove si trovavano due porte. La prima dava sul cortile e l’altra, quella che imboccò lui, conduceva ad un lungo e silenzioso corridoio illuminato da torce alternate.
Si chiese come mai, se quella era una prigione, non ci fosse nessuno che pattugliasse gli ampi spazi interni alla fortezza.
D’un tratto gli parve di udire delle voci sommesse provenire da una rampa di scale, così appiattendosi alla parete, prese a salire, facendo sempre attenzione a non produrre alcun suono. Al termine della scalinata le voci si fecero più vicine. Ettore si acquattò fino a sfiorare quasi il pavimento e attese, ascoltando quello che dicevano.
«Brutta canaglia figlio di un cane, che ti è preso! Tira!.»
Di sottofondo si sentì il suono di dadi rotolare e una bottiglia che veniva appoggiata.
«Non mettermi fretta che devo concentrarmi, schifoso cacasotto» rispose un’altra voce.
«Cosa intendi dire?» Sbottò il primo.
«Lo sai mammoletta, te quassù non ci vuoi mai stare, te la fai sotto ad ogni attimo di silenzio. E di rimando rompi le palle a me! »
Ettore si sporse per osservare la scena.
Alla sua sinistra, al termine del corridoio lungo forse una ventina di passi, c’era un tavolo con due uomini seduti.
«E che ci posso fare. Questo posto di guardia mi mette i brividi.»
«Ma che dici qui è una vera pacchia, stiamo seduti a bere al caldo e nessuno che rompe i gioielli di famiglia.»
«Basta, non voglio parlarne più. Beviamo» concluse il primo dei due, dando un abbondante sorso dal fiasco.
Ettore distolse l’attenzione dalle due guardie e si volse a guardare il buio corridoio sulla destra dove si trovava una serie di celle. Silenzioso, si mosse verso quella direzione.
Arrivato davanti la prima porta aprì lo spioncino. Dentro vide una sagoma eretta al centro della stanza di spalle, immobile e muta.
«Ehi tu» apostrofò Ettore in un bisbiglio «mi senti?»
La sagoma non rispose.
Si appoggiò alla porta per cercare di vedere meglio e la sentì cedere sotto il suo peso, era aperta.
Ettore rimase interdetto, quale prigione non chiudeva a chiave le celle? Tutto diventava sempre più strano e grottesco.
Spinse ancora un po’ e scivolò all’interno della cella tenendo la mano destra sull’impugnatura della daga. Il prigioniero era fermo con le braccia abbandonate lungo i fianchi e gli occhi chiusi, sembrava dormisse profondamente.
«Riesci a capire quello che dico?»
Ettore si avvicinò e gli sfiorò il braccio, la sua pelle era fredda e rigida come il marmo.
Sembra morto, che stregoneria è mai questa?
Si sporse a vedere il volto di quello strano individuo e deluso si ritrasse. Uscì e continuò silenziosamente verso la cella successiva, intanto le due guardie in fondo al corridoio continuavano a bere, le loro voci palesemente alterate dall’alcool.
Aprì lo spioncino e vide un’altra sagoma immobile come la precedente. Entrò. Di nuovo la stessa scena, ma anche questa volta non era il cipriota. Bestemmiò e uscì dalla cella. Fece in tempo ad entrare nella successiva proprio mentre altre due guardie erano arrivate a dare il cambio.
Con la schiena attaccata alla parete e trattenendo il respiro, attese che la ronda passasse. La guardia sbirciò sbrigativamente dallo spioncino dove si trovava lui, un fugace bagliore e poi di nuovo il buio.
Solo quando i passi si allontanarono, Ettore riprese a respirare e si avvicinò all’uomo in piedi.
Quando gli fu accanto vide i lineamenti marcati, il naso grosso e il mento squadrato, il suo cuore ebbe un tuffo.
«Eccoti alla fine!» esclamò Ettore.
Il cipriota non si mosse.
«Mi riconosci, Teodoro?» chiese lui a denti stretti.
La rabbia iniziò a montargli dentro. Quel volto gli ricordò la violenza, la miseria e la morte della moglie e della figlia.
«Ti ho trovato, come ti avevo promesso. Restate soltanto tu e il tuo maledetto capo. Troverò anche lui e subirà lo stesso destino.»
Sollevò la lama nel buio ma esitò. Tutto stava accadendo in maniera inaspettata e insensata. Ricordò quello che aveva passato per trovarlo, le fatiche della ricerca: Nicosia, Costantinopoli, Venezia, Bologna e infine quella fortezza solitaria e cupa. Tutto per poi doversi trovare di fronte alla sua preda già annichilita. Gli restava solo il sapore amaro della sconfitta e il senso di fallimento gli avvampava dentro. Come avrebbe soddisfatto il suo desiderio di vederlo soffrire? Come poteva ucciderlo senza leggergli negli occhi la paura della morte? Ne valeva davvero la pena?
Pungolò il ventre dell’uomo con la daga, nessuna reazione nemmeno una goccia di sangue.
Si riprese. Decise che non importava come, doveva portare a termine il suo destino.
Strinse le dita attorno all’elsa e con un gesto rapido calò l’arma sul suo inerme avversario. La daga balenò nell’oscurità sibilando come una serpe di acciaio.
La testa del cipriota sbatté contro la parete e poi cadde in un angolo della cella con un suono sordo e il corpo si afflosciò istantaneamente.
Sentì una sensazione di liberazione. Si inginocchiò davanti al cadavere e pianse. Un altro passo era compiuto, il desiderio di vendetta che guidava la sua vita era quasi appagato. Adesso poteva concentrarsi verso il prossimo obiettivo.
Ripose la daga nel fodero e diede un ultimo sguardo al corpo scomposto. La carne era stata mangiata rapidamente dalla decomposizione, la pelle ormai nera si enfiò aprendosi in piaghe che colavano siero maleodorante. Disgustato Ettore si apprestò alla porta, era certo che qualche stregoneria fosse in atto in quelle mura, doveva andare via il prima possibile.
Uscì dalla cella e nella fretta imboccò una nuova via, un corridoio lungo circa dieci piedi che girava bruscamente a sinistra, in un angolo buio. Dovette constatare sconcertato che il passaggio era cieco e terminava con due celle.
Dietro di sé sentì le voci delle guardie, sarebbe stato rischioso tornare sui propri passi.
Si avvicinò e tirò lentamente la maniglia di una delle porte per trovare un nascondiglio. La stanza era buia e silenziosa. Avvertì un strano odore, cera per candele mista ad incensi ed altre fragranze sconosciute. Il profumo era così forte da stordirlo, decise entrare nell’altra.
Spinse la porta e con sorpresa constatò che era chiusa. Dall’interno gli parve di udire un suono metallico. Aprì lo spioncino e guardò dentro.
«Tu non sei una delle guardie», gli disse una voce maschile stupita «Chi sei?»
Ettore rimase interdetto, non vedeva bene chi c’era dentro e non si aspettava più di trovare qualcuno di senziente in quelle celle. Fece per chiudere lo spioncino ma la voce gli parlò nuovamente:
«Aspetta ti prego, tu non sei uno di loro. Fammi uscire.»
«Questa porta è chiusa e non ho le chiavi.» rispose Ettore bruscamente.
«Sono nella stanza accanto. Ti supplico, voglio uscire da questo inferno. Ti ripagherò in qualche modo.»
«Ti tengono legato?» domandò Ettore.
«È una lunga storia. Te la racconterò una volta fuori.»
«Addio.» rispose Ettore chiudendo lo spioncino.
«No, aspetta!»
Stava per allontanarsi quando il prigioniero iniziò ad urlare: «GUARDIE! VENITE, PRESTO!»
Ettore bestemmiando a denti stretti, aprì la porta accanto e la richiuse dietro. I passi degli armigeri scalpicciavano sul pavimento di pietra verso di loro.
Mano alla daga attese, se avessero varcato quella soglia li avrebbe uccisi senza esitazione.
«Cosa vuoi?» urlò una delle guardie che aveva aperto lo spioncino.
Ettore strinse le dita attorno all’elsa, attendendo di essere denunciato. La voce borbottò qualcosa, ma gli fu impossibile sentire le parole.
«Va’ a prendere un mestolo d’acqua.» sentì dire dalla guardia. «La prossima volta ti spacchiamo le labbra se urli così nel cuore della notte» lo ammonì l’uomo.
Attese che i passi si allontanassero.
“Altro tempo perduto” pensò. Quella stanza buia stava iniziando a dargli le vertigini, l’odore era troppo acuto, come se molto profumo fosse stato versato sopra ad una carcassa in decomposizione.
Ettore aprì l’uscio, il corridoio era sgombro, l’uomo nella cella non sarebbe stato misericordioso per una seconda volta. Sfruttando la luce della torce poté vedere parte della stanza e individuare l’anello dove era appesa una grossa chiave, la prese.
Torno verso l’altra cella e si affacciò allo spioncino.
«Ho la chiave.» Sussurrò Ettore.
«Sapevo che saresti tornato. Presto, apri la porta e fuggiamo da questo posto» esclamò.
«Sono armato.» Anticipò Ettore. «Prova a fare un passo falso e ti sgozzo come un maiale, hai capito?» Il tono della voce era fermo e duro.
«Stai tranquillo. Voglio solo andare via.»
Ettore aprì la porta. Incatenato alla parete con i ceppi ai polsi c’era un ragazzo sporco, smunto e vestito di stracci. Ettore lo liberò dai ceppi e il giovane cadde in avanti con un grugnito di dolore. Restò fermo per qualche attimo, boccheggiando e massaggiandosi i polsi, poi lentamente e a fatica si mise a sedere. Il ragazzo aveva l’occhio destro gonfio e tumefatto.
«Che ti hanno fatto?»
«Nulla che non abbiano fatto ad altri prigionieri.»
«Dobbiamo andare via di qui. Ce la fai a camminare?» domandò Ettore.
«Accompagnami nella stanza accanto e poi potremo fuggire.» rispose lui. «Devo prendere alcune cose.»
«Non possiamo perdere altro tempo.»
Il ragazzo sorrise con una espressione che nascondeva qualcosa: «Non temere, non si accorgeranno di nulla. Portami nella stanza, per favore.»
Ettore lo accompagnò scocciato e, una volta dentro, lo vide andare alla ricerca di candele. Il ragazzo accese le fiamme e gli intimò di avvicinarsi. Ora che la luce illuminava la stanza Ettore poté vedere che al centro vi era un leggio e tracciati a terra tutt’intorno dei cerchi con strani simboli geometrici. Su di un tavolo vi erano pergamene arrotolate e una serie di contenitori di terracotta. Del sangue era rappreso in macchie scure sul pavimento.
«Sei un negromante» esclamò sguainando la daga verso il ragazzo.
«Sono un Alchimista.» Ribatté secco e in tono offeso. «Uno studioso del corpo umano, della vita e della morte.»
«Quei poveri corpi nelle celle sono opera tua, vero?»
Ettore era spaventato, non aveva mai incontrato un alchimista, però ne aveva sentito parlare e mai con toni lusinghieri. Poteva ucciderlo e Dio gli avrebbe reso grazie.
«Stai pensando di uccidermi, vero?» domandò sorridendo.
Ettore si irrigidì.
«Non temere non ho fatto nessuna magia per capirlo, lo leggo nei tuoi occhi. Sì, quei corpi sono opera mia, ma non sono poveri, bensì criminali, briganti e assassini della peggior risma. Io ho solo eseguito degli ordini.»
«Ordini del capitano?»
Il ragazzo annuì.
«Perché in nome di Dio?»
«Non mi è stato mai detto perché. Le volte che ho domandato ho ricevuto in cambio bastonate e questo mi è bastato. Adesso ti chiedo: vuoi uscire da qui incolume o vuoi uccidermi adesso e affrontare l’intero corpo delle guardie da solo?»
Il ragazzo sembrava avere più anni di quelli che mostrava, anche nel portamento e nei gesti appariva più maturo della sua giovane età.
«Cosa vuoi fare?»
«Organizzerò un diversivo che ci permetterà di scappare senza essere disturbati.»
«Come?»
«Usando quei corpi ovviamente. Lasciami fare e saremo fuori di qui prima dell’alba. Resta alla porta e se qualcuno dovesse arrivare fallo fuori con quella tua lama. Io penserò al resto.»
Ettore attese prima di rispondere, il suo retaggio cristiano gli implorava di fermarsi prima di varcare un limite pericoloso. Ma non aveva scelta.
«Fa’ quello che devi, io non lascerò avvicinare nessuno. Ma prova a tradirmi e…» alzò la daga vero di lui.
«Mi sgozzi come un maiale. Ho capito» lo anticipò il ragazzo.
Iniziò a lavorare sul banco prendendo manciate di erbe dai vasetti di terracotta e mescolandoli in un recipiente di legno d’ulivo.
«Da dove vieni?» chiese mentre mescolava ingredienti come se fosse un cuoco che preparava le spezie per l’arrosto. «Hai un accento, strano. Sei italiano, ma il tuo accento sembra straniero.»
«Venezia.» Rispose secco Ettore.
Il ragazzo sorrise «Certo, come no. Venezia forse è solo una tappa del tuo viaggio, vieni da molto più lontano. Il mio nome è Damiano e vengo da Napoli, anche se sono nato a Roma.»
Dopo aver preparato una mistura di sostanze, Damiano si avvicinò ai due bracieri spenti e versò il contenuto al loro interno. Poi con lentezza rituale prese una candela e diede fuoco a entrambe le misture nei contenitori.
Il giovane si voltò verso Ettore. «Adesso dovrai rimanere fermo e zitto. Non aprire quella porta, per nessun motivo.»
Prima di ricevere una risposta si mise di spalle e alzò le braccia al cielo iniziando a recitare una nenia in una lingua sconosciuta. Aveva gli occhi semichiusi e il volto senza espressione.
Ettore si chiese se Damiano fingesse o se effettivamente stesse recitando delle formule magiche. D’improvviso ebbe un brivido freddo, i peli sulle braccia si rizzarono. Le fiamme delle candele tremolarono, come mosse dal vento.
I fumi che salivano dai due bracieri si condensarono, i bordi delle spire si allargarono lateralmente fino a prendere la forma di due occhi di colore argento con pupille cremisi. Lo sguardo vagava per la stanza, poi si soffermò su Ettore, penetrandogli dentro l’anima.
«Non è per lui che ti ho chiamato, Principe Rosso.» La voce di Damiano aveva perduto del tutto la giovinezza. «Allontanati da lui, poiché la sua vita non ti appartiene. Va’ e riempi i simulacri che attendono le tue spire, o Multiforme. Fa’ che essi siano gli strumenti della mia vendetta. Te lo ordino per i Segni e le Parole di Koth, per le catene che ti vincolano a me e per il mio Nome Tre-volte-Benedetto!»
L’alchimista riprese la sua nenia, infine pronunciò forte e chiaro un nome e un cognome, Giacomo Masi.
Il Principe Rosso volò fuori dalla stanza, passando attraverso il corpo di Ettore. Fu una sensazione viscida e sgradevole che durò solo un attimo, ma in quell’istante Ettore conobbe la Vastità e l’Orrore dell’Altrove, di ciò che si cela dietro le illusioni materiali della realtà. Si rese conto di essere inerme e vulnerabile. Sentì una voce di donna che lo chiamava, che invocava il suo nome, era sua moglie.
«Cosa hai fatto? Chi… cosa era quello?» Balbettò lui.
«Nessuno di cui preoccuparsi. Bevi questo, ti aiuterà.» gli porse un bicchiere di terracotta, reggendogli la testa.
L’uomo accostò le labbra all’orlo del recipiente e mandò giù un sorso di un liquido caldo e dolce, che aveva un vago sapore di fiori. Il calore della bevanda attutì il gelo dell’anima, tanto da farlo smettere di tremare.
«Quegli occhi e quella sensazione. Che cos’erano?» Domandò sgomento Ettore cercando con lo sguardo la sua arma.
Damiano inarcò un sopracciglio. «Credi che volessi farti del male? Se avessi voluto, gli avrei ordinato di prendere il tuo corpo. Ma non l’ho fatto, ho un debito di gratitudine verso di te.»
«Consideralo saldato. Non voglio favori da un negromante» rispose.
«Bene.» Disse Damiano «Allora ognuno vada per la sua strada, ma ti consiglio di aspettare, sta per succedere qualcosa di spiacevole.»
Dall’esterno giunsero le voci delle guardie che urlavano, subito dopo il sibilo di lame e altre grida.
Il giovane aveva iniziato a mettere in ordine la sua roba, come se nulla fosse.
«Devo prendere il più possibile. Posso lasciare alcune erbe, ma non i decotti e i libri.» gli disse come se fossero in procinto di un viaggio di piacere.
Tornò il silenzio, poi dopo poco udirono il suono chiaro di una campana di allarme.
«A questo punto sarà sveglio anche il capitano. A breve qualcuno arriverà qui a chiedere conto, dobbiamo andare.» Affermò Damiano.
Ettore si alzò stringendo la daga e tenendola puntata verso il giovane: «Se provi…»
«A fare qualcosa, mi sgozzi. Ho capito, sarà la terza volta che me lo dici. Ripeto, voglio solo andare via da questo posto. Prometto che non nuocerò in nessuna maniera alla tua persona. Parola d’onore.»
«Parola di negromante» sentenziò Ettore.
«Dovrai fartela bastare» rispose Damiano noncurante.
Avanzarono lungo il corridoio, trovarono le porte aperte e le celle vuote. All’altezza del pianerottolo giacevano i corpi delle due guardie, una aveva il cranio fracassato contro la parete, la seconda aveva la testa girata di centottanta gradi.
«Buon Dio» esclamò Ettore.
«No, fidati. Lui non c’entra. Muoviamoci, adesso.»
Scesero le scale, Ettore si diresse verso la porta d’uscita, ma Damiano lo bloccò. Dal cortile venivano urla e rumori di battaglia.
«Non di là. Conosco una strada più veloce che ci porterà direttamente alle stalle, ma prima sarà meglio passare dalle cucine a prendere qualcosa per il viaggio.»
Voltarono un angolo attraverso un passaggio privo di finestre e sbucarono nella grande cucina. La porta era spalancata e sembrava non esserci nessuno. Damiano afferrò un sacco buttato in un angolo e vi ficcò dentro un salame, del pane e del formaggio, poi si guardò intorno e indicò ad Ettore un punto alla loro destra.
«Dobbiamo trovare da bere, prova a cercare in quella porta, il capitano ha delle scorte di Chianti.»
Ettore si avvicinò, sovrastandolo con la sua mole: «Non stiamo per fare un viaggio di piacere. Quello che hai preso è sufficiente. Adesso andiamo» ordinò.
Damiano sospirò deluso, scosse la testa e si avviò verso la parte opposta da cui erano entrati.
Mentre il giovane stava per aprire la porta che li avrebbe condotti all’esterno, il fuoco nel camino prese vita. Le fiamme avvamparono con una intensità mai vista e alcune lingue di fuoco eruppero come serpi dal focolare, cercando di afferrare Ettore e Damiano.
«Sangue di Giuda!» Bestemmiò Ettore. «Che cosa stai combinando, stregone?»
«Non è opera mia» rispose Damiano proteggendosi la testa con le mani.
La porta alle loro spalle sbatté verso l’interno e sulla soglia apparve una figura umana, immobile.
«Masi!» esclamò Damiano schermando la fronte con la mano.
Al capitano mancava la benda e nella cavità vuota brillava una pupilla rossa e tremula, dell’uomo era rimasto solo l’involucro, dentro vi era qualcun altro.
«Attento, non è più lui!» Urlò il ragazzo rivolto ad Ettore
Quasi contemporaneamente gli oggetti all’interno della sala cominciarono a volteggiare freneticamente, dapprima in circolo e poi scagliandosi con ferocia verso Ettore e Damiano.
Stoviglie, brocche, forme di pane, tutto danzava nell’aria spinto dalla forza di volontà dello spirito che possedeva il cadavere del capitano.
«Avevi detto che potevi controllarlo!» ruggì Ettore schivando un vassoio di stagno che sbatté alle sue spalle.
«Cerca di tenerlo a bada, qualcosa mi inventerò» gli rispose lui tirando fuori dalla bisaccia uno dei tomi.
Ettore vide l’incredulità e la paura negli occhi dell’alchimista. Sentì un brivido gelido scendergli lungo la schiena. Fino a quel momento il ragazzo si era comportato come se tutto fosse ordinario e naturale, adesso invece era spaventato quanto lui. Qualcosa non stava andando nel verso giusto.
Decise di agire e cercò di avvicinarsi al capitano facendosi scudo con il coperchio di una pentola.
Il mostro sollevò le braccia e richiamò le fiamme del camino, dirigendole in spirali verso di lui. Alcune lingue lambirono il mantello e alcuni ciuffi di capelli, ma il fuoco non attecchì, tanto era umida la cappa.
In due passi Ettore gli fu addosso e vibrò un colpo di netto con la daga. Il capitano fu più veloce e indietreggiò un attimo prima che la lama gli tranciasse la gola di netto, ma Ettore non si perse d’animo e lo colpì di piatto con il coperchio della pentola dritto nel viso. Il capitano barcollò per l’impatto e parve stordito.
Le fiamme svanirono e gli oggetti caddero per terra, ma lo spirito si riprese, ancora più arrabbiato.
Si scagliò verso Ettore con le braccia protese e con la bocca allargata a dismisura, in una voragine di denti aguzzi. L’uomo indietreggiò di poco spostando il peso del corpo sul piede sinistro e alzò la daga pronta a colpire. Calò l’arma con tutta la forza che riuscì ad imprimere e tranciò di netto il braccio destro del cadavere all’altezza del gomito. Il corpo del capitano si sbilanciò e cadde su Ettore, entrambi crollarono a terra. Il braccio che impugnava l’arma rimase incastrato sotto al mostro.
Dalla gola del capitano uscì un sibilo, la bocca andava allargandosi sempre di più e qualcosa di viscido stava uscendo, come una sottile ugola serpentiforme.
«Non ce la faccio più, maledetto stregone, fa’ qualcosa» la voce di Ettore era un rauco lamento. Quella strana appendice cercava la sua faccia come per baciarlo.
Con uno sforzo enorme Ettore riuscì a liberare la mano con la daga e a piantarla nella gola del capitano. La lama uscì dalla parte opposta del cranio. Il cadavere sussultò e questo bastò ad Ettore per scivolare di lato e liberarsi dal peso innaturale.
La voce di Damiano si impose nella sala con un tono feroce, parole incomprensibili uscirono dalla sua bocca. Impose la mano destra sul mostro, aveva l’indice, il medio e il mignolo distesi e l’anulare tenuto basso verso il palmo dal pollice e urlò: «Per il Segno Rosso io ti impedisco di nuocere ancora!»
Il corpo del capitano fu preso da convulsioni e iniziò ad contorcersi verso il pavimento come schiacciato da una forza invisibile. Dalla bocca del cadavere fuoriuscirono una serie di escrescenze rossastre e umide, vermi tentacolari palpitanti che si depositarono intorno al corpo.
«Afferra la daga, presto!» ordinò Damiano.
Ettore obbedì, si avvicinò timoroso ed estrasse l’arma dal cadavere.
«Hai disobbedito al nostro patto Multiforme e pagherai per questo, per il Segno Rosso e il Segno di Koth, benedico questa lama, possa recidere la tua materia e bandirla per sempre da questo mondo.»
Ettore avvertì la daga diventare calda e pesante, sul filo della lama parvero danzare piccole scintille porpora.
«Colpiscilo!» urlò Damiano.
Ettore colpì il Multiforme più e più volte con la furia della disperazione e della rabbia. Ad ogni colpo inferto avvertiva uno strano potere che amplificava i danni inferti della daga.
Infine la massa giacque immobile in una pozza di liquami e sangue scuro. Ettore era completamente esausto e respirava affannosamente.
«E’ finita.» gli disse Damiano toccandogli la spalla.
Con un ruggito di risposta Ettore si scagliò contro l’Alchimista: «Questa è opera tua, negromante! Ti avevo promesso la morte se avessi provato a nuocermi!»
Damiano alzò le mani in segno di resa: «Non è stata colpa mia, lo giuro. Qualcosa ha scisso il vincolo tra me e lo Spirito. Credimi, avrebbe dovuto obbedire completamente a me e non rivoltarsi contro.»
Ettore poteva sentire la paura che emanava il ragazzo. Sembrava sincero nelle sue parole, ma poteva essere un altro trucco, un’illusione da mago.
Abbassò la lama e distolse lo sguardo dal ragazzo: «Vattene via»
«No, ho bisogno del tuo aiuto» disse poi il ragazzo.
«Che cosa vuoi dire? Ti ho liberato, tu mi hai salvato la vita, siamo pari.»
«Vorrei fosse così. Ma quello che è accaduto qui questa notte non è normale.»
Ettore rise amaramente: «Chiami normale queste cose?»
«So che ti sembra strano, ma ti assicuro che l’ordine delle cose è stato stravolto. Esistono dei patti da rispettare, vincoli che non possono essere scissi, in caso contrario accadranno conseguenze inimmaginabili e disastrose.»
L’uomo si avvicinò alle bisacce, afferrò un fiasco di vino e bevve avidamente, asciugandosi col dorso della mano: «Che tipo di conseguenze?»
«Creature come quelle. Libere.» Rispose Damiano, indicando l’ammasso informe. «O peggio.»
Ettore rabbrividì. Pensò per qualche attimo a quello che aveva visto in quella notte, a come tutte le sue certezze si fossero sgretolate sotto il peso di un cadavere.
«Senza contare poi i profitti che potremmo trarne in due, io la forza accademica e tu la forza bruta, pagano molto per gli esorcismi» aggiunse, osservandolo di sottecchi.
Ettore pensò brevemente alla sua vita, con il compiersi della sua vendetta non avrebbe più avuto uno scopo.
«Va bene, facciamo un patto.» Disse poi.
Damiano lo guardò come se stesse scherzando, poi vedendo che Ettore era serio, chiese scettico: «Cosa vuoi?»
«Io ti aiuto in questa faccenda di Demoni e evocazioni»
«Non sono Demoni, ma Entità vere e proprie.»
Ettore agitò una mano noncurante delle precisazioni: «Io ti aiuto e tu aiuti me nel trovare una persona.»
«Vendetta?» chiese Damiano.
Ettore annuì.
«Mi piacciono le vendette, mi danno un senso di appagamento.»
«Allora è fatta?» Ettore gli tese la mano.
Il giovane la strinse.
«Il patto è concluso.»