Cronache nemdiane – L’ambiguo confine: foreste e uomini nell’Alto Medioevo

 

È difficile immaginare oggi, guardando alle nostre città intrise di asfalto e cemento, ma anche alle campagne modellate sull’esigenza dell’agricoltura e dei campi, che un tempo queste zone fossero largamente spopolate e selvatiche. Che dove oggi ci sono città, edifici e campi, un tempo ci fossero boschi, selve e paludi. No, questo articolo non sarà una lode cieca a (presunti) bei tempi andati, in cui tutto era verde, tutto era puro, tutto era bello. Perché se  l’urbanizzazione e la massiccia industrializzazione degli ultimi due secoli pongono interrogativi importanti e urgenti alla nostra società, le risposte non si troveranno in un’acritica adorazione di un passato atavico, idealizzato ma mai realmente esistito. Solo facendo i conti con la realtà effettiva – e non con quella da noi immaginata o desiderata – si possono elaborare soluzioni. Questo articolo non ha pretesa di fornire soluzioni, ma solo di indagare quello che dovette essere il rapporto tra l’uomo e le foreste dalla fine dell’Impero romano e lungo l’Alto Medioevo.

È ormai appurato come la caduta dell’Impero romano d’occidente non si compì in un singolo atto, ma lungo un arco prolungato di tempo. La stessa deposizione di Romolo Augustolo nel 476, adottata dagli storici come spartiacque tra età romana e Medioevo, provocò all’epoca ben poco rumore, certamente meno del sacco di Roma perpetuato dai Visigoti nel 410. Non voglio addentrarmi troppo sulle cause e dinamiche della crisi dell’Impero romano d’occidente, argomento vasto e dibattuto. Quello che mi prese sottolineare è un aspetto specifico di questa crisi: la decadenza del sistema infrastrutturale romano e le sue ripercussioni su città e campagne.

Mentre i Greci si distinsero per gli studi teorici su geometria e algebra, i Romani furono esperti nella realizzazione pratica di strutture e soluzioni architettoniche. I grandiosi acquedotti, alcuni ancora oggi in piedi, che permettevano di rifornire le città di acqua, ne sono l’esempio più eclatante. Ma non vanno dimenticate neppure le estese reti fognarie – fondamentali per la vita di una città quanto l’intestino lo è per la vita di un uomo – né le strade lastricate che permettevano i viaggi e i traffici commerciali tra città vicine. Strade lastricate che non conobbero eguali fino all’avvento della Rivoluzione industriale. Era questo sistema di acquedotti, fognature e strade che sosteneva la civilizzazione romana, che rendeva possibile la stessa esistenza di città enormi, come Roma con il suo milione di abitanti.

Ma era un sistema delicato, che richiedeva una continua manutenzione: con la decadenza dell’Impero e le distruzioni portate dalle popolazioni germaniche cadde in rovina. Le città senza più acquedotti e fognature adeguate si spopolarono, le strade lastricate si riempirono di erbe, mentre i traffici commerciali languivano, le distanze percorse si riducevano. In modo forse non troppo dissimile ai tempi nostri, l’uomo romano e greco aveva creduto di poter dominare con la tecnica la natura, di poterla piegare ai propri bisogni; scopriva invece quanto effimera fosse questa pretesa.

In un precedente articolo avevo descritto come le città, nel mondo greco-romano, fossero considerate il luogo della ragione, delle leggi, della civiltà per eccellenza. Questo aspetto nella tarda antichità venne meno. Le città stesse non solo si spopolarono, ma si riempirono di erbe e piante, dove non raramente venivano portate a pascolare le pecore. Dall’altra parte i nobili che un tempo avevano vissuto in città ora le abbandonavano e si rifugiavano nelle loro ville in campagna: costruite come soggiorni temporanei, diventarono residenze permanenti, centro di un nuovo tipo di dominio: la curtis. Abbiamo così un duplice movimento: le città si ruralizzarono, le campagne a loro volta acquisirono una nuova dignità come centri autonomi di potere. Certo, anche nei momenti più bui le città mantennero un loro status superiore, simboleggiato non più dagli antichi fasti romani quanto dalla dignità episcopale: erano infatti i vescovi a mantenere vive le tradizioni urbane. Ma la netta dicotomia greco-romana tra città e campagne, visto come contrasto tra mondo civile e selvaggio, perse importanza.

Il confine tra mondo civilizzato e mondo selvaggio si spostò tra abitati umani e foreste. Foreste che, con la fine dell’Impero romano, si espansero lungo le pianure prima coltivate, avanzando come una lenta e silente marea verde. E con loro giungevano gli animali selvatici che la popolano, i lupi in primis, famelici predatori degli animali allevati dall’uomo. La foresta era pericolo, era minaccia, era qualcosa di alieno, di diverso e di irriducibile al mondo umano. Ma il rapporto con i boschi non era solo negativo: al contrario essi erano necessari per la sopravvivenza delle persone. Dai boschi proveniva la legna per scaldarsi e cuocere il cibo, il miele per conservare e condire gli alimenti, frutta come castagne e ghiande, ma anche più pregiata selvaggina, per integrare la dieta.

Questa ambiguità del rapporto con le selve filtra e si conserva ancora oggi nelle fiabe. Il bosco, la foresta, è il grande pericolo, il luogo dove si possono incontrare lupi, streghe, orchi, dove si rischia la morte. Ma è anche la residenza di entità benefiche come fate, folletti, esseri incantati, che dispensano doni necessari per la salvezza e la crescita dei personaggi (da qui l’interpretazione delle fiabe come riti di passaggio tra fanciullezza ed età adulta). Uno stesso personaggio può assumere le fattezze di un animale per poi riscoprirsi un umano; il principe ranocchio è il caso più celebre, ma non l’unico. Il rapporto tra mondo selvaggio e abitati umani non è quindi solo di contrapposizione, ma quasi di simbiosi; il passaggio dall’uno all’altro è sempre aperto, come ci illustra nel folklore la figura del licantropo.

Per gli uomini dell’Alto Medioevo le foreste erano famigliari e vicine, eppure ammantate di mistero e magia; recavano in sé un pericolo mortale, eppure erano necessarie per la sopravvivenza; erano il simbolo di un mondo selvaggio, opposto a quello umano, eppure questa opposizione non era irriducibile: il passaggio dall’uno all’altro era sempre possibile. L’uomo poteva sempre ricadere in quel mondo selvaggio, perdere il suo stato razionale e ridursi a pura bestialità. Parimenti questa caduta non era irreversibile, perché la possibilità opposta, di ritornare al suo stato di uomo, rimaneva aperta. Non è infatti la dicotomia manichea tra selve e abitati umani, tra bestialità e civiltà, a dominare il Medioevo, ma l’ambiguità di un confine labile, sempre percorribile in una direzione o nell’altra.

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