I racconti di Satrampa Zeiros – “La torre degli spergiuri” di Giuseppe Cerniglia – Ciclo degli Annali Apocrifi

Per “I racconti di Satampra Zeiros” torna a farci visita Giuseppe Cerniglia, scrittore e membro dell’Associazione Culturale ItalianSword&Sorcery, che ci propone “La torre degli spergiuri”, racconto di sword and sorcery con ambientazione romana di circa 18.000 battute spazi inclusi, appartenente al Ciclo degli Annali Apocrifi.

Se volete leggere anche gli altri episodi di questa serie, li trovate qui:

 

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La Torre degli Spergiuri

Ciclo degli Annali Apocrifi

di Giuseppe Cerniglia

 

 

La Pulce Scarlatta sorgeva oltre le mura di Carnutum.

Quella sera Anfindur Arhathel sedeva in un angolo della sala comune. Era una figura solitaria col cappuccio del manto sugli occhi e l’armatura d’acciaio nero che luccicava alla luce di un moccolo di candela. Nessuno dava segno di averlo riconosciuto come elfo. Al centro della stanza, in uno spazio ricavato fra i tavoli, una ragazza danzava sulle note di una coppia di musici, un flautista e un suonatore di cetra. Anfindur non riusciva a distogliere gli occhi dal vorticare dei nastri legati ai suoi polsi: era deliziosa, con una bocca simile a un bocciolo di rosa e occhi grandi, color nocciola, che di tanto in tanto si soffermavano su di lui. Pochi tavoli più in là sedeva un giovane dai tratti delicati ma il volto sfregiato da una cicatrice che gli solcava l’occhio sinistro fino alla bocca; anche lui come la ragazza guardava Anfindur sfacciatamente.

L’oste, un uomo corpulento dall’accento marcatamente germanico, vagava fra i commensali con una brocca di vino speziato. Anfindur mise una mano sul proprio bicchiere e l’uomo passò oltre, dirigendosi verso la schiera di soldati romani che sedeva agli sgabelli lungo il bancone. Anfindur aveva origliato a sufficienza per sapere che erano ausiliari che stavano passando la notte a Carnutum prima di oltrepassare il fiume Donau. I problemi nelle terre dei Marcomanni erano usuali eppure c’era dell’inquietudine nella coppia dei mercanti all’angolo che, ignorando apertamente lo spettacolo, continuava a parlare sommessamente di ‘disordini’ e della necessità di lasciare alla svelta la città.

La ragazza danzava languida come una fiamma, gli occhi scintillanti sotto la frangia di capelli castani. Il vino dell’oste gorgogliò nei bicchieri dei soldati che brindavano alla salute di Cassia, il legato della legione di stanza a Carnutum. Il giovane sfregiato accostò lentamente il tavolo di Anfindur. Aveva un viso piacente non fosse stato per la cicatrice e la palpebra sinistra rattrappita. Osservò brevemente il taglio esotico dell’armatura dell’elfo, la coppia di spade che sporgevano oltre la sua spalla, poi chiese: «Sei tu il guerriero che chiamano Ashaman?»

Anfindur rispose senza guardarlo in viso.

«Chi è quella ragazza?»

«Lei? Si chiama Artemisia.» Il moccolo di candela proiettava ombre sul viso mostruoso del giovane. «Fa parte dei Ribelli. Io sono Gunnar.» Informazioni come quelle potevano rivelarsi pericolose se fossero arrivate all’orecchio di Cassia. «Perché non ti unisci a noi?»

Artemisia ballava a piedi nudi, sulle punte. Anfindur riusciva a sentire fin lì l’odore del sudore che luccicava intorno al suo viso.

«Cosa volete da me?»

Gunnar scosse la testa, sostenendo lo sguardo dell’elfo con l’unico occhio. «Non qui. Aspetta la fine dello spettacolo e segui Artemisia.» Appoggiò entrambe le mani sul tavolo e fece per alzarsi. «Sarà lei a condurti da Khanos.»

Anfindur lo guardò andare via impudente, scambiando un cenno d’intesa con Artemisia. Stando alle voci che aveva sentito, Khanos era a capo della fazione che voleva scacciare i Romani dalla città, di fatto il patrono di tutti i Germani che risiedevano nella riva romana del Donau. La musica terminò fra applausi radi, i due musici esibirono un inchino. La ragazza aveva il volto accaldato, i nastri le pendevano dai polsi simili a catene di satin. I soldati lasciarono la taverna alla spicciolata e Artemisia guardò Anfindur con occhi che lo invitarono a seguirla al piano superiore.

Il ballatoio in penombra abbozzava le sagome delle sentinelle che vigilavano dall’alto sulla sala comune, uomini robusti con lunghi coltelli che pendevano dalla cintura. Altri, armati di spade, sostavano ai lati di una porta appena dischiusa. All’interno della stanza Gunnar discuteva con un uomo seduto presso un tavolo ingombro di rotoli di pergamena. Khanos aveva una chioma leonina striata di grigio, occhi imperiosi e un mantello di pelliccia gettato sulle spalle. Interruppe quanto stava dicendo per studiare Anfindur con il mento poggiato sul pugno chiuso. «Non avevo mai visto un elfo con i miei occhi. Mostrami il tuo volto.» Anfindur fece scivolare il cappuccio sulle spalle, scoprendo un volto angoloso, incorniciato da lunghi capelli corvini fra cui si scorgevano le orecchie a punta.

«Benvenuto a Carnutum, Ashaman.»

«Come fai a sapere di me?»

Khanos gli rivolse un sorriso.

«Nessuno varca il Donau senza che io ne sia a conoscenza. Nessuno. Nemmeno gli elfi.» Con Gunnar e Artemisia in piedi ai due lati, Khanos sembrava un Re nella propria corte.

«Dicono che i Romani ti cercano» rispose l’elfo. «L’agnello non dovrebbe dormire nel covo del lupo.»

«Se fuggissi Cassia manderebbe qualcuno a tagliarmi la gola.» Khanos appoggiò le mani sulle ginocchia e si sporse in avanti. «Invece, qui a Carnutum, sono al sicuro: la legge romana mi dà garanzie sufficienti.»

«Finché non farai un passo falso, allora nessuna legge tratterrà Cassia dall’inchiodarti su quella sedia.»

Khanos rise come se trovasse la cosa divertente.

«Lascia pure che Cassia lecchi la polvere dai miei stivali.» Gli mostrò una mappa della Pannonia, indicando un punto a nord-est di Carnutum. «In questo momento la legio X Gemina si trova oltre il fiume a sedare una rivolta fra i Marcomanni.» Fece scivolare il dito lungo la sponda orientale del Donau per un tratto corrispondente a cinquanta miglia. «Ciò che Cassia non sa è che stiamo organizzando altre rivolte, a tre giorni di cammino l’una dall’altra.»

Anfindur trasse da sé la conclusione.

«Vuoi lasciare la città sguarnita.»

«In questo modo le nostre forze si equilibreranno. Ho solo bisogno di un’ultima cosa per vincere la mia battaglia: un guerriero che elimini Cassia, qualcuno affidabile e audace che Roma non possa ricondurre a me.» Si inumidì le labbra. «Ti ho visto combattere, Ashaman. Voglio le tue spade al mio servizio.»

Per essere un Marcomanno, Khanos aveva imparato fin troppo bene dai Romani.

«Questa battaglia non mi appartiene.»

«Chiedimi ciò che vuoi e ti sarà dato.»

Anfindur rifletté in silenzio. Quale fosse stata la sua decisione, Romani e Germani si sarebbero sgozzati come maiali: non gli rimaneva che schierarsi con una delle due parti.

«Dammi la ragazza.»

Khanos, pensieroso, picchiettò un dito sulle labbra. Artemisia sbarrò gli occhi e incrociò lo sguardo di Gunnar, scuro in volto, che cercava di mantenere il proprio contegno.

«E sia.» Khanos rivolse all’elfo il segno del martello, poi s’avvicinò e mise entrambi le mani sulle sue spalle. «Questa notte gli Dei hanno benedetto la nostra impresa.» Stretto nel suo abbraccio, Anfindur si chiese chi per primo sarebbe venuto meno alla parola data.

Dopo aver suggellato l’accordo, fecero in modo di non incontrarsi più in maniera diretta. Gunnar sapeva dove trovare l’elfo. La casupola in cui dormiva era una delle tante baracche di fortuna della zona dei carrettieri, non certo l’alloggio più confortevole di tutta Carnutum, ma comunque a buon mercato e abbastanza fuori mano da non dare troppo nell’occhio. La casa, che non era molto spaziosa, divenne quasi angusta quando Artemisia si trasferì da lui con pochi averi chiusi in un fagotto. La ragazza passò i giorni successivi rigida come un bastone, osservando l’elfo con occhi un po’ sgranati come se potesse saltarle addosso da un momento all’altro. Anfindur rispettava i suoi silenzi. Se le rivolgeva la parola era solo per avere informazioni su Cassia, sui presidi dei soldati a Carnutum e sulla torre che ospitava gli alloggi del legato; soltanto, una volta al giorno in tarda mattinata, la mandava al mercato per orecchiare quanto accadeva nel castrum: venne così a sapere che un messo imperiale aveva fatto ritorno di gran carriera portando a Cassia la notizia che la legione era stata trattenuta oltre il fiume dallo scoppio di ulteriori disordini nelle terre dei Marcomanni. Il piano di Khanos andava avanti come stabilito, inesorabile come la ruota di un mulino. La notte successiva, tuttavia, Cassia costrinse i ribelli a rivedere i propri progetti.

«Ashaman, Ashaman svegliati.» Artemisia, con una lucerna in mano, aveva l’aria di essere stata sbalzata dal letto in tutta fretta. «Hanno attaccato la Pulce Scarlatta!» Anfindur si sollevò sui gomiti. Indossava soltanto delle brache di tela, le spade gemelle si trovavano poco lontano dal suo giaciglio come anche l’armatura. «Chi ha attaccato la Pulce Scarlatta?» chiese l’elfo. Artemisia guardò titubante un uomo che attendeva oltre la soglia, uno dei due musici che aveva suonato nella taverna. L’altro si strinse nelle spalle.

Poco più tardi il gruppo si affrettava fra le baracche della zona dei carrettieri. Stretta in un mantello color cammello, Artemisia indicò il cielo di un viola intenso che a sprazzi si illuminava d’arancio. Laggiù doveva esserci un incendio. Le fiamme che divoravano la Pulce Scarlatta si riflettevano sugli elmi lucidi dei romani che occupavano la zona tenendo alla larga la folla dei presenti, tutti sostenitori di Khanos. Si parlava di un incidente avvenuto nelle cucine della taverna, ma i cadaveri allineati alle spalle dei romani mostravano ferite da taglio. Gunnar era fuori di sé, l’elfo dovette tirarlo per la collottola fuori da una rissa.

«Qualcuno ci ha traditi» urlò il giovane senza curarsi di chi lo stava ascoltando. «C’è stata una soffiata.» La cicatrice tesa sul viso pallido gli disegnava una smorfia orribile.

«Hanno ucciso Khanos?» volle sapere Anfindur.

«È ancora vivo, l’ho visto con i miei occhi. L’hanno portato via.» Sembrava paralizzato da un misto di rabbia e paura. «È finita, ti dico. Finita.» Cassia aveva cercato di soffocare la rivolta giocando d’anticipo; se non avessero agito immediatamente, senza dare ai Romani il tempo di organizzare le proprie forze, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di vittoria.

«Raccogli più uomini che puoi e va a liberare Khanos» disse Anfindur.

«Cosa vuoi fare?»

«Stanare Cassia.»

«Questa notte?»

«Questa notte.»

Gunnar assunse un cipiglio deciso.

«E lei?»

Artemisia era rimasta ad ascoltarli con il respiro irregolare, il fuoco faceva apparire i suoi occhi ancora più grandi. L’elfo decise che non si sarebbe separato da lei per nessun motivo.

«Lei verrà con me.»

Artemisia annuì con un movimento accennato della testa.

Partirono in fretta. Gunnar scomparve fra i crocevia accompagnato dai due musici; Anfindur e Artemisia entrarono a Carnutum dalla Porta Decumana, scoprendo che drappelli di Germani rivoltosi erano già insorti in diverse parti della città trascinando in strada intere famiglie romane, donne svestite e bambini piangenti, mentre una turma di cavalieri romani travolgeva i nemici lungo la Via Pretoria.

In un batter d’occhio Carnutum era precipitata nel caos.  

Artemisia sgattaiolava alle spalle di Anfindur fra le ombre squadrate che le case, alte appena due piani, disegnavano nelle viuzze secondarie. La torre di Cassia sorgeva in cima a un’altura interna al perimetro del castrum, era una costruzione antica, di basalto nero, che i Romani avevano provato a incorporare in una domus. La porta di legno di quercia era spalancata e il salone interno profumava di oli aromatizzati. Le lucerne nelle nicchie dei muri rischiaravano un pavimento in mosaico di tessere smaltate. Gran parte delle guardie romane era impegnata a fronteggiare una banda di Germani inferociti, uomini a torso nudo armati d’ascia che inneggiavano al nome di Khanos. Di tanto in tanto apparivano sagome indistinte fra i colonnati della domus, servi privi di controllo che evitavano in tutti i modi Anfindur e Artemisia. L’accesso alla torre si apriva in angolo del cortile interno della casa, una spirale di gradini irregolari ne risaliva il ventre cavo illuminato da fiaccole infilate negli anelli del muro. In cima si trovava una stanza dal soffitto basso, a volta, con spesse cornici di pietra intorno alle finestre. Presso una di queste stava un uomo dal viso severo, con i capelli grigi dal taglio corto. L’armatura muscolare fittamente decorata lo identificava come un alto ufficiale dell’Impero. Anfindur non aveva dubbi che si trattasse di Cassia.

All’arrivo dell’elfo, il legato rimase con le braccia puntellate sulla finestra, a guardare Carnutum dall’alto. Aveva un’aria infelice. Anfindur spinse dietro di sé Artemisia, poi fece scivolare lentamente la due spade fuori dal fodero quando due guardie si fecero avanti dai lati della stanza, circondandolo. L’elfo passava gli occhi da uno all’altro dei tre avversari, soffermandosi di tanto in tanto su Artemisia, di cui vedeva soltanto le mani e la testa in ombra nel vano delle scale. Cassia si fece avanti per primo. Andò in affondo col gladio, poi cambiò passo e colpì di nuovo dal basso. Anfindur ne intercettò la spada con la propria mentre l’altra lama parava il fendente della guardia che gli stava a sinistra, un numida dal viso d’ebano. L’elfo ruotò su se stesso, mantenendo il contatto con le spade degli avversari, in modo da ingaggiare la terza guardia, un ragazzo dal viso scarnito. I tre romani provarono a sopraffare l’elfo con un attacco combinato, ma le lame di Anfindur scintillavano dall’uno all’altro con una successione fluida di parate, finte e attacchi che aveva lo scopo di sfasare fra loro gli avversari. Uno alla volta, caddero tutti: il numida, trafitto al piede e colpito al volto, rotolò sul pavimento lasciando una scia di sangue; il secondo soldato, disarmato, non riuscì a evitare un affondo diretto fra la spalla e il collo. Infine Cassia, con entrambe le spade affondate nello stomaco, il accostò il viso a quello dell’avversario, guardandolo con occhi penetranti. 

«Khanos è un assassino» mormorò. Anfindur spinse più a fondo con le armi. Cassia digrignò i denti e fu sul punto di crollare, ma rimase in piedi ancora un momento, il viso esangue e le dita strette sul mantello dell’elfo. «Sei dalla parte sbagliata.» Poi perse la presa e si accasciò a terra, gli occhi spenti e un rivolo di sangue all’angolo della bocca. Anfindur ripulì le lame sul mantello di Cassia e le ripose nei foderi. Lo sforzo si era trasformato in una tensione che gli piegava le spalle. Artemisia entrò nella stanza in punta di piedi, rivolgendosi intorno occhiate ansiose. «Li hai uccisi tutti.» Sembrava stentare a crederlo, come se i corpi potessero rialzarsi per riprendere la lotta. «Sei ferito?»

«Nulla di cui preoccuparsi.»

«Khanos aveva ragione» disse Artemisia ricevendo un’occhiata metallica, che rimase indifferente anche quando la ragazza aggiunse, piena di ammirazione: «Sei un guerriero formidabile, Ashaman.» Anfindur guardò fuori dalla finestra. Una serie di fuochi puntellava Carnutum. In strada la battaglia doveva essere stata feroce. Piccole macchie scure si muovevano in gruppi per le vie maggiori del castrum, da lassù era impossibile dire se si trattava di Romani o Germani.

«Non è ancora finita» disse Anfindur.

«Invece sì, Cassia è morto.»

Artemisia accennò un sorriso ma rimase turbata dal silenzio dell’elfo. Anfindur le sfiorò il viso con un dito disegnandone la curva ovale della guancia paffuta.

«Khanos verrà a cercarmi.»

Silenzio. Proprio non riusciva a capire.

«Accuserà me di quanto è accaduto.»

Le labbra di Artemisia si incurvarono, tremando leggermente.

«Tu lo sapevi. Lo sapevi dall’inizio.» gli si buttò addosso, battendogli i pugni sull’armatura. «Perché hai accettato allora?»

La strinse a sé con un braccio e la baciò sulla fronte.

«Era l’unico modo per proteggerti.»

Rannicchiata contro di lui, Artemisia trattenne il respiro. Passi affrettati sulle scale, sferragliare di armi e corazze. Stavano arrivando: l’ultima cosa che avrebbe voluto era che lei vedesse l’epilogo di quella farsa. La stanza si riempì di soldati germanici che si disposero in doppia fila mentre giungeva Khanos, dagli occhi spietati e il sorriso sornione; dietro di lui Gunnar, con la cotta di maglia lacerata sulla spalla e i capelli impiastricciati di sangue. Il giovane trascinò Artemisia per i polsi, allontanandola dall’elfo nonostante lei opponesse resistenza. I soldati fecero due passi indietro, lasciando Anfindur da solo al centro della stanza.

«Ben fatto, Ashaman.»

Khanos lanciò appena un’occhiata al corpo di Cassia, rimase invece concentrato sull’elfo. Le dita stringevano la lancia fino a far sbiancare le nocche, tradendo l’intenzione di attaccare. Anfindur lo anticipò di un soffio, costringendolo a ripiegare l’affondo in una parata. Nonostante la mole, Khanos era veloce e riuscì a prendere il tempo all’avversario, ruotando l’arma e colpendo Anfindur al viso. L’elfo scivolò sul pavimento evitando la punta della lancia e con un unico movimento riuscì a rialzarsi, troncare la lancia con la prima spada e recidere la testa di Khanos con la seconda.

Artemisia, piegata su se stessa, lanciò un urlo. Allora Gunnar si lanciò contro l’elfo chiamandolo assassino, ma i suoi colpi erano prevedibili e Anfindur li respinse uno dopo l’altro, sperando che il giovane riprendesse il controllo di sé; invece l’unico occhio di Gunnar era accecato da una furia che finì per fargli sprecare la vita sulle spade dell’elfo.

Uno strano silenzio scese sui presenti. I Germani, rigidi, evitarono di incrociare gli occhi dell’elfo. Artemisia, inorridita, si premeva le mani sulle tempie e scosse la testa quando Anfindur fece un passo nella sua direzione. Il guerriero la guardò, sulle ginocchia e circondata da cadaveri, simile a una bambina in un campo di battaglia. I loro cuori si erano sfiorati, solo per un attimo, prima di perdersi irrimediabilmente. Non rimaneva nient’altro per lui, lì a Carnutum. Quale che fosse, il futuro del castrum non gli apparteneva, quindi andò via senza che nessuno provasse a fermarlo, con la sensazione fatale di essere stato ancora una volta l’Ashaman, il Divoratore della Speranza.

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