
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Andrea Guido Silvi, scrittore che ci propone “I gatti e i ragni”, racconto sword and sorcery di circa 25.000 battute spazi inclusi.
Buona lettura.
Autore
Classe 1981, sono nato a Rieti, dove il verde non manca e si respira ancora un po’ di magia tra boschi, laghi e santuari. Ho sempre viaggiato molto, sin da ragazzo, alla ricerca dell’incanto di paesaggi diversi ed ho continuato a viaggiare per studio (ho studiato in tre continenti), per lavoro e per passione (amo il trekking e la vita all’aperto). Nelle descrizioni delle mie ambientazioni, fantasy e non, c’è infatti poco d’inventato, perché non c’è nulla da aggiungere, se non la giusta storia, alla bellezza del grande nord o delle creste vulcaniche d’isole quasi incontaminate. La magia che non ho potuto vivere direttamente l’ho cercata nella lettura, e ho chiari numi cui ispirarmi: H.P. Lovecraft, E.A. Poe, E. Salgari, C.A. Smith, J.R.R. Tolkien. A questi s’accompagnano tanti altri che, anche con un solo racconto, mi hanno fatto dono di esperienze irripetibili (come King, Chambers, Howard…).
Come scrittore ho un’unica ambizione: mettere davanti agli occhi del lettore il mio mondo, trascinarlo al suo interno e coinvolgerlo. Questo non solo per fargli dimenticare il suo mondo per qualche ora, ma per consentirgli di vivere avventure, sfide, contesti morali e punti di vista diversi con cui confrontarsi. È questo il motivo per cui, a mio avviso, si scrive ancora oggi fantasy con draghi, cavalieri e castelli nella nebbia: la promessa di un mondo onirico, diverso e distante dal giornaliero, predispone al meglio la mente del lettore a regole per lui inusuali o aliene, consentendogli esperienze uniche che si aggiungono al suo bagaglio in maniera del tutto simile a quelle del suo vissuto ordinario.
Bocconiano, nel mio vissuto ordinario lavoro a Roma, dove mi occupo con soddisfazione di marketing per una delle principali compagnie assicurative in Italia, creando prodotti d’investimento destinati alla distribuzione bancaria.
Prefazione dell’Autore
La Guerra tra Divinità e Demoni s’approssima, sostiene Emith-Frael, mago e veggente fedele ai Giusti Dèi degli Uomini. I mortali sono le pedine che, mosse sulla scacchiera, preparano gli schieramenti al conflitto, e il loro posizionamento prende anni, decenni, forse secoli. Ladri, guerrieri e mercenari vivono le loro vite, mentre il veggente li indirizza sulla la strada che dovranno percorrere. Edhar “Edh” Manhak (“I Gatti e i ragni”, “Il Nero”) non ha mai conosciuto il veggente, eppure lui ha segnato la sua strada. Edone, lo sgraziato guerriero dalla braccia lunghe (“Il Nero”, “Ynghwamokka”, “La Sfinge” e altri racconti), è allo stesso tempo pedina ed amico di Emith-Frael, che lo spinge verso il suo destino impresa dopo impresa. I Gatti, animali ambigui, sono parte attiva nella lotta alle forze demoniache che minacciano il Creato, ma si muovono perlopiù nell’ombra, vittime ed artefici della superstizione che li circonda.
Il filo conduttore della raccolta è dato dalla predestinazione dei personaggi nella trama decisa dalle divinità, il cui disegno però non è mai chiaro. Attraverso il racconto di vicende tra loro collegate, si scoprono motivazioni e storia dei vari protagonisti, coinvolti in una sorta di staffetta che procede lentamente verso un obiettivo ignoto. Ogni racconto è un tassello del puzzle.
Nota: nei racconti i nomi di alcune creature o animali, come avviene per i Gatti, vengono scritti con l’iniziale maiuscola per indicare che si tratta d’esseri appartenenti a specie dotate d’intelletto o dalla natura oltremondana. Allo stesso modo si parla di Uomini, con l’iniziale maiuscola, così come di Nani, Elfi e Gnomi, che insieme compongono l’insieme dei comunemente detti “esseri umani”.

I gatti e i ragni
di Andrea Guido Silvi
“Iarai, Primo Asceso, e i Fratelli che per sé aveva creato mossero al nuovo mondo, per aggiungere la Loro Luce a quella di un Sole rosso.
Spinti dal desiderio, gli Dèi dagli occhi viola innalzarono l’immacolato disco lunare a rischiarare le notti e dar moto alle maree.
Spinti dal desiderio, gli Dèi dagli occhi viola diedero vita a forme della fantasia e dell’esperienza, poi ammirarono il Creato e lo chiamarono Barda.
Da millenni, dalla sua torre d’opale su Dinas O’ Bearth, Aemagar guarda al Creato, e sulle sue vesti scorrono immagini d’infinite possibilità.
Il Dio della Magia conosce il Fine di Tutto e si farà garante del Disegno, perché il veggente che conosce il destino non può che esserne motore.
Da millenni la Gatta Frigga, bianca e grigia, lo guarda amandolo, e nei suoi occhi misteriosi brucia la magia che benedì le prime città, Klebe la Santissima e Iastra nel Deserto.”
Da “Canti riveduti e corretti”,
appunti del Maestro di Studi Emith-Frael dell’anno 769.
Basso Berdor del Sud, tra gli alberi del Groviglio e le pendici delle Montagne Idias. Dal 12° al 14° giorno di Primosole dell’anno 789 dal Mare Ritirato.
Rahada e Vuhur già avanzavano nel cielo che si faceva più chiaro e Mahon, la stella della Dolce Alba, le seguiva dappresso preannunciando l’imminente sorgere del disco solare. Dopo la pioggia notturna il cielo s’era aperto e da lì, sul sentiero che saliva verso le vette ancora innevate, tra gli alberi si vedeva qualche scorcio della vallata, dove il Groviglio si mostrava più impenetrabile e velato dalla nebbia.
Il Gatto rosso se ne stava ritto sull’arcione della sella, modificato per dargli appiglio durante la cavalcata, senza interferire con il cavaliere incappucciato: guardava davanti a sé tra le orecchie del baio che avanzava con passo cadenzato. Elsiathir, “un Quarto di Sangue Benedetto”, capelli neri e occhi verde acceso come un comune Elfo del Groviglio, teneva le redini aprendo la strada al cavallo di Söth e del suo fidato compagno felino, un grosso Gatto nero di nome Kyriphal. Bäst era invece il nome del Gatto rosso, e come Elsiathir era alla prima uscita.
Erano partiti dal loro villaggio, Esilthe, il giorno prima, per seguire il percorso della ronda. La guida era toccata a Elsiathir per quello scomodo lignaggio, quel quarto di sangue d’Uomo che il nonno sconosciuto aveva inflitto alla sua famiglia in una notte di violenza, possedendo selvaggiamente una giovane Elfa come avrebbe fatto un Fauno. Quella notte aveva accorciato le orecchie ed abbruttito il viso di suo padre con una barba ispida, come poi era toccato a lui. Era cresciuto in un villaggio fedele alle antiche tradizioni, che riservavano agli Uomini, i Non Creati alla cui razza appartenevano gli Dèi, tutti gli onori di esseri superiori. Lui, un ragazzo precoce, si ritrovava ora a trent’anni con la responsabilità della vita di Söth, un cacciatore esperto tre volte più vecchio, oltre che della sua.
Con il sorgere del Sole i raminghi ed i loro compagni felini aguzzarono la vista in cerca dei movimenti che possono tradire le belve al ritorno dalla caccia, spaziando sulla valle e sui brulli pendii montani.
Gli Elfi del Groviglio non avevano contatti con le altre razze d’umani. Dato il loro isolamento, potevano ritenersi al riparo da scorrerie, ma nella zona non mancavano pericoli: Manticore e Chimere, abomini figli della magia perversa d’altri abomini, infestavano i monti, a volte calando a valle per procurarsi prede più facili d’orsi e alci.
Era stata forse una Manticora l’assassina di una decina di pecore e del loro pastore una settimana prima, così le ronde avevano via via allargato il perimetro alla ricerca di tracce, sperando di prevenire un nuovo attacco.
Elsiathir in cuor suo s’augurava di non trovare nulla, che il mostro se ne fosse andato, riempitosi i visceri di tanta carne di pecore e pecoraio da averne ormai nausea.
Convinti che nulla si muovesse, ripartirono dopo un paio d’ore.
Nel primo pomeriggio arrivarono ai piedi delle falesie di granito, dove erano rimaste poche tracce di neve: la primavera entrante aveva liberato scarpate e ghiaioni, rifugio di gongili ed altre lucertole. Lì, tra crepe e fratture nascoste da una vegetazione misera e rinsecchita, potevano nascondersi le fiere supreme cacciatrici della regione, le stesse fiere cui loro davano la caccia.
Bäst saltò giù dall’arcione e partì alla scoperta senza bisogno d’incoraggiamenti, muovendosi agile tra le rocce. Pareva consapevole dell’aiuto che il suo colore gli dava nel passare inosservato. Kyriphal lo seguiva attento con lo sguardo, come un più esperto soldato osserva una matricola, ed Elsiathir e Söth non dubitavano che sarebbe intervenuto in caso di necessità.
Il Gatto rosso esplorò diversi anfratti, facendosi vedere di quando in quando, prima di far ritorno. Non aveva trovato nulla, ma Elsiathir non riuscì a fare a meno di accarezzargli la testa, ripagato da un miagolio appena trattenuto. Bäst era di norma tutt’altro che taciturno, eppure non miagolava mai lontano dal villaggio. Quel miagolio gli costò un’occhiataccia del grosso veterano nero.
Proseguirono le ricerche costeggiando il muraglione fino al tardo pomeriggio e si misero al trotto all’approssimarsi del tramonto, dirigendosi alle falde d’un’altra guglia. Li, pensavano, avrebbero trovato rifugio in una delle grotte che avrebbero ispezionato.
Il sentiero prese a salire con curve e tornanti incastonati tra il granito. Alla svolta di uno di quei tornanti, all’ombra d’un muraglione, una folata di vento odorosa di tabacco preannunciò agli Elfi un incontro inatteso. L’Uomo che si trovarono davanti, seduto su una roccia, era interamente coperto di ragnatele, tanto da nascondere il colore delle vesti. Era un giovane con la faccia sveglia, con capelli neri corti e barba e mustacchi curati, che li guardava a sua volta stupito tra le volute di fumo della sua pipa d’osso. Doveva star lì da qualche tempo ed aver sentito i cavalli avvicinarsi. D’altra parte, qualcosa era andato oltre le sue attese:
«Due Elfi… e due Gatti?»
La domanda, seguita da un colpo di tosse per il fumo respirato, confermò a Elsiathir e Söth le voci circa la superstizione degli Uomini nei confronti dei piccoli felini. I due animali, che fissavano l’Uomo senza tradire emozioni, erano guardati alla stregua di terrificanti mostri antropofagi.
«Sono i nostri compagni di caccia», gli disse Elsiathir. «E voi? Perché siete coperto di ragnatele?»
«Perché mi trascuro…», rispose ironico l’Uomo, che, accettando che la battuta non fosse stata colta, poco dopo si decise a spiegare: «Sono coperto di ragnatele perché sfuggito, con un capitombolo di decine di braccia, dalla tana di un Manticora morta, diventata rifugio di una colonia di grossi ragnacci famelici. La ragnatela e i cespugli mi hanno salvato: la tela mi ha accompagnato fino a dove siedo ora… e spero che nasconda il mio odore a quelle bestie per la notte».
«E perché eravate dentro quella tana?»
«Recuperare qualche pezzo della Manticora, per ricordo…»
«E come sapevate che c’era una Manticora morta?»
«Perché l’ho uccisa io…»
Gli Elfi legarono i cavalli ed accesero un basso fuoco di radici e legni sbiancati, tenue ed incostante, ma sufficiente ad ammorbidire del formaggio e scaldare del vino speziato. I tre decisero di passare la notte in quel punto, abbastanza riparato, e l’Uomo, infine presentatosi come il cacciatore di mostri Edh Manhak, accettò di buon grado il cibo offertogli. Nel ringraziarli gli spiegò che il suo cavallo, con provviste ed equipaggiamento, era rimasto sull’altro versante dei picchi, dov’era l’ingresso della tana della Manticora. Edh gli raccontò d’aver ucciso la bestia avvelenandone la pozza d’acqua una settimana prima, approfittando delle piogge per avvicinarsi senza che potesse sentire il suo odore. Era tornato solo quando, non vedendola più uscire in volo, si era sentito certo della sua morte. Per sicurezza aveva tirato due frecce avvelenate al cadavere appena lo aveva scorto, ma la Manticora era già morta da tre o quattro giorni. Tanto però era bastato a ragni con sederi grossi come cocomeri per prendere possesso dell’antro. Il maledetto labirinto in cui l’avevano spinto aveva rivelato un via di fuga sull’altro versante, ma la corsa era finita con un salto nel vuoto.
Elsiathir, Söth, Kyriphal e Bäst ascoltarono con attenzione, i primi due non nascondendo ammirazione per le gesta di Edh. Elsiathir, convinto d’avere la fortuna dalla sua, gli chiese di lasciarsi accompagnare nuovamente nella tana, riferendogli il perché della loro ronda. Era possibile, disse, che la bestia fosse l’assassina che cercavano: per averne prova sarebbe bastato aprirle lo stomaco. L’Uomo, che ancora guardava a Kyriphal e Bäst non nascondendo la sua diffidenza, rispose:
«Accetto l’aiuto offerto nel momento del bisogno e confermo tutto quanto di buono ho sentito degli Elfi del Groviglio: è la prima volta che tratto con voi. Vi prego solo di tenermi lontani i vostri compagni di caccia».
Elsiathir fu sorpreso dalla richiesta. Non trovando conforto nell’espressione interrogativa di Söth, volle rassicurare Edh:
«Se mai un Gatto ha leso ad un Uomo, uno della razza di Iarai, io non ne ho avuto notizia. Ad ogni modo Kyriphal e Bäst terranno le distanze», disse guardandoli. «Interverranno comunque in tua difesa fino a quando sarai con noi.»
Edh non sembrò troppo rassicurato da quelle parole. Liberatosi dalla ragnatela al momento di coricarsi, approfittando d’una coperta anch’essa offertagli da Elisiathir, faticò a prender sonno. I Gatti, gli unici con lui rimasti svegli, si erano posti sul sentiero uno a monte e l’altro a valle del campo, vedette silenziose e quasi invisibili.
Mossero con l’alba, dopo una veloce colazione con frutta secca e latte fermentato, gradito anche dai guardiani pelosi che avevano vegliato sugli umani tutta la notte. La meta, ammesso fosse stato possibile ritrovare la galleria dalla quale Edh era precipitato, non doveva essere distante più di un centinaio di braccia verso l’alto, ma non v’erano pareti che consentissero l’arrampicata.
Seguendo le indicazioni dell’Uomo, che preferì muoversi a piedi pur di non condividere il cavallo con uno dei felini, proseguirono sul sentiero. Erano obbligati ad inoltrandosi nel massiccio.
Il cammino si fece una mulattiera abbarbicata alle pendici di montagne sempre più alte, con vette bianche di neve che il disgelo aveva segnato con cicatrici color mattone. Spesso si fermavano paralizzati, ascoltando il brontolio delle slavine che precipitavano dai costoni. Attraversarono con difficoltà gande depositate da poco e la neve sporca di terra strappata alle giogaie; superarono spoglie vallate racchiuse da muraglie di scisto verde, scavate da ghiacciai scomparsi e spesso occupate da stretti laghi limpidi. Dal primo pomeriggio falesie di granito nero e serpentinite incombenti gli nascosero il Sole, mentre avanzavano stretti tra i picchi gelati, costeggiando baratri di centinaia di braccia. Quell’oscurità precoce li accompagnò fino alla vera notte, quando avevano quasi completato il giro attorno al giogo roccioso da cui Edh era caduto. Al di là di una profonda forra che avrebbero attraversato l’indomani, potevano scorgere oltre gli alberi l’imboccatura dell’antro del mostro avvelenato.
Approfittarono del poco riparo offerto da una sparuta macchia d’abeti rachitici e non accesero il fuoco, per non rischiare d’attirare l’attenzione d’altre bestie maligne di cui quei clivi sembravano infestati. Come la notte precedente, solo i Gatti fecero da guardia, mentre Edh faticò ad addormentarsi. Kyriphal e Bäst avevano invece dormito tutto il giorno, acciambellati sulle selle tra le gambe degli Elfi, svegliandosi solo alla sosta per il pasto.
Al mattino, lasciati i cavalli al riparo degli alberi, discesero nella forra in un punto che trovarono agevole. Guidava Edh, seguito a stretto passo da Elsiathir, i due Gatti e Söth. Guadarono le acque impetuose saltando tra le rocce e risalirono, mirando alla macchia dove il cacciatore di mostri aveva lasciato la sua cavalcatura.
L’animale, uno stupendo corsiero, purtroppo non ce l’aveva fatta, e lo trovarono ridotto ad un mucchio di pelle rinsecchita. Elsiathir, che non aveva mai visto nulla del genere, era inorridito. L’Uomo disse ad alta voce quello che pensava:
«Quei ragni maledetti… sul collo ed i garretti ci sono i fori dei loro morsi… dopo averlo ucciso hanno banchettato una notte intera».
Recuperato quanto gli occorreva dell’equipaggiamento, un’ascia ed un piccolo scudo, Edh si disse pronto. Elsiathir s’armò d’arco, subito imitato da Söth, e poi si chinò su Kyriphal e Bäst, che attendevano indicazioni:
«Lasciate fare a noi, compagni: ragni così grandi e ragnatele non fanno per voi».
I due, obbedienti, seguirono gli umani sino all’imboccatura della grotta, osservandoli mentre s’addentravano nell’oscurità.
Elsiathir si sentiva al sicuro al fianco dell’Uomo. Mentre Edh era costretto al corpo a corpo perché il suo arco era ancora lì dentro, da qualche parte impigliato ad una ragnatela, lui e Söth avanzarono pronti a scoccare. Una luminosità debole li accompagnò per qualche decina di passi all’interno del grande ambiente, umido e silenzioso, che era la parte iniziale della caverna, poi dovettero impugnare spada e torcia. Edh legò lo scudo all’avambraccio ed accese una torcia a sua volta.
Non videro ragni, eppure ve n’erano segni ovunque ed il cacciatore di mostri disse che molte delle ragnatele erano nuove rispetto al suo primo ed ultimo ingresso. Forse i ragni erano ancora sazi del pasto offertogli dal corsiero, per questo non si vedevano.
Finalmente raggiunsero il cadavere della Manticora sul fondo di quel primo grande ambiente, davanti all’imboccatura di diverse gallerie. Il mostro era impressionante anche da morto, con il gigantesco corpo grigio maculato di un leopardo delle nevi, lungo sei braccia dall’inquietante muso umano all’attaccatura della coda coperta d’aculei, lunga altre tre braccia. Aveva ali membranose da pipistrello ed avrebbe potuto agilmente ghermire un vitello in volo. Elsiathir non ne aveva mai vista una così da vicino, ne aveva scorta solo una volare in lontananza, anni prima. Guardò l’Uomo con aria interrogativa e quello gli rispose:
«I ragni hanno aspettato che fossi concentrato sul cadavere per circondarmi e spingermi verso le gallerie: se voi vigilate mentre io mi metto all’opera forse li dissuaderemo dall’attaccarci».
«Perché non hanno mangiato la Manticora?», chiese Söth.
Edh scosse il capo:
«Forse sentono il veleno che l’ha uccisa. Ora è meglio che mi sbrighi. Ci vorrà qualche ora».
«Ore?», Elsiathir era stupito. «Dobbiamo solo vedere cosa c’è nella pancia.»
«Sapere cosa ha mangiato è utile a voi, ma io devo recuperare molte parti che valgono oro al mercato di Iliad.»
Quell’informazione lasciò interdetto Elsiathir, che aveva pensato che l’Uomo facesse quel lavoro per missione, accontentandosi di qualche taglia. Ciononostante si mise di guardia con Söth. Accesero altre torce e le lanciarono in vari punti scuri ed all’imbocco delle gallerie, sia per vedere che spaventare eventuali assalitori. Alcune ragnatele presero fuoco e dei versi simili a fischi confermarono che avevano l’attenzione degli aracnidi. A giudicare da quei versi, dovevano essere qualche tipo di malmignatte delle caverne.
Edh aprì per prima cosa il ventre della bestia. Ne estrasse i resti di pecore non digerite ed un braccio ed una gamba umani, quelli mancanti al pastore Elfo ucciso una decina di giorni prima. Era stata una coincidenza che un cacciatore di mostri venuto da Iliad si fosse imbattuto nell’assassino che gli Elfi cercavano: Elsiathir era grato agli Dèi. Dopo di che Edh iniziò a prendere le parti che gli occorrevano, lamentandosi perché senza un cavallo non avrebbe potuto portare la pelliccia, che da sola valeva quanto il resto. Troncò con l’accetta la punta della coda aculeata, ricercata per il suo veleno; poi la zampa anteriore destra, che mostrata con la coda sarebbe valsa la taglia messa a disposizione dal primo Municipio cui si fosse rivolto; poi passò ai denti da squalo del mostro, disposti su doppie file, che sarebbero stati utilizzati per frecce magiche; ed infine occhi ed artigli, che gli alchimisti utilizzavano in diversi composti. Mentre faceva scempio del cadavere, Elsiathir lo osservava, dispiaciuto per l’avidità che gli leggeva negli occhi, che tanto lo allontanava dalla perfezione che la sua gente attribuiva agli Uomini. Rifletté che la sua comunità era troppo isolata, distante dalla realtà per giudicare, e che sarebbe stato bene per loro rendersi conto che gli Uomini sono infine umani come gli Elfi. Tornato al villaggio, si ripromise, li avrebbe convinti a formare una delegazione che visitasse Iliad. Così pensava Elsiathir quando vennero attaccati.
I ragni fischiarono orrendamente mentre correvano all’assalto. Sembrava che un’intelligenza calcolatrice avesse coordinato le loro azioni, schierandoli lontano dalle luci delle torce verso l’uscita della grotta, per poi muoverli tutti assieme. Le torce ne rivelarono i corpi chitinosi neri e lucidi, con addomi gonfi grandi come meloni, con macchie rosso acceso sul dorso. Elsiathir e Söth, sudando freddo, mulinarono a casaccio spade e torce respingendo i primi animali, scagliati indietro feriti a morte. Questo sembrò spaventare per un attimo lo sciame ed Edh ne approfittò per bere un’ampollina di liquido verdastro estratta di getto dalla bisaccia, poi balzò davanti a tutti e ne soffiò il contenuto sulla fiamma della torcia: una vampata rossa abbrustolì venti o forse più malmignatte, mentre molte scappavano fischiando con il corpo infuocato.
«Non ve l’aspettavate questa», sì vantò l’Uomo fomentato. «In tre non siamo prede facili!»
Le fiamme evitarono un nuovo assalto, ma le bestie erano almeno un centinaio, tutte intorno in attesa.
«Cosa aspettano?» chiese Elsiathir.
«Guardano qualcosa che sanno di non poter mangiare», gli rispose Edh.
Lo stallo si protrasse a lungo, con i tre umani a pensare un modo per uscirne. Infine dalle gallerie arrivò un rumore forte e ritmato che ricordava quello di un piccone contro la roccia. Il terrore serrò lo stomaco dei tre prima ancora che l’incubo si mostrasse.
Aveva il corpo di un ragno grosso quanto un cavallo, nero e lucido, ma dove sarebbe dovuta essere la testa s’ergeva il busto d’una donna bellissima e mostruosa, dalla pelle lattea, con sei floridi seni ben torniti ed un viso angelico incorniciato da lunghi capelli corvini, con occhi gialli luminosi e sottili labbra esangui. Elsiathir era atterrito e morbosamente affascinato allo stesso tempo, sentiva brividi che non sapeva se fossero di paura o tentazione. La creatura guardava i tre maliziosamente e parlò loro con la voce suadente che si sarebbe attribuita al viso grazioso:
«Siete dunque voi che avete ucciso la mia Manticora… Già una volta siete sfuggiti ai miei servitori venefici. Eppure essi non vi avrebbero fatto alcun male: avevano solo l’ordine di catturarvi», disse. «Il mio nome è Hanelore, qual è il vostro, voi che entrate nella mia casa uccidendo e depredando?»
Hanelore era un nome dal fascino antico, che ricordava tempi dimenticati. Edh fu l’unico a prendere la parola, come se fosse gravato dai sensi di colpa:
«Il mio nome è Edhar Manhak, da Riva di Mezzogiorno, Dama Hanelore, e questi sono i miei compagni Söth ed Elsiathir. Non immaginavamo di violare la casa d’una gentildonna e d’averne ferito ed ucciso i servitori».
Elsiathir comprese che il fascino di Hanelore doveva averlo soggiogato. Ammesso che non recitasse…
«I miei fedeli soldati non assomigliano a quelli d’altre dame più fortunate», rispose Hanelore annuendo. «Purtroppo il loro aspetto non li aiuta, eppure non sono meno docili dei ragni che ospitate nelle vostre case, che vi liberano dai topi senza chiedere in cambio nulla se non placidi nascondigli. Ed io poi? Condannata in un corpo in parte deforme… avete paura di me come di loro?»
Tutti e tre rimasero in silenzio, imbambolati.
«Siete tre bei giovani, affascinanti… La mia Manticora non era una conversatrice interessante: troppo schiava degli istinti. Inoltre solo di rado portava in dono un bel giovane, e ben più raramente uno in vita. Sono qui sola… Non vorreste restare?»
Aveva accompagnato l’invito con languidi movimenti del corpo, carezzandosi i seni turgidi con le piccole mani eleganti. Elsiathir, con un brivido di consapevolezza che gli percorse la spina dorsale, temette con orrore d’essere rimasto l’unico a non trovare piacevole la compagnia del mostro. Parlò senza rendersene conto:
«LAMIA!…», l’accusò. «Metà fanciulle e metà fiere dicono i racconti: irretisci gli esseri umani per nutrirti di loro!»
Hanelore, con una smorfia d’irritazione e rabbia, gli rispose maligna:
«E se così fosse? Preferiresti giacere al mio fianco, abbandonandoti nel piacere senza più riaverti, od essere masticato lentamente dai miei schiavi? Tu, quello che io trovo più affascinante…»
Elsiathir era immune alle sue parole suadenti ed alzò spada e torcia per difendersi, ma Edh e Söth sollevarono le armi guardandolo come un nemico. No, purtroppo Edh non recitava e Söth sembrava ugualmente ammaliato.
Hanelore lo incalzò:
«E’ così dunque: odi la mia natura ed il destino che non mi sono scelta. Io, che un tempo ero una donna che ti avrebbe donato solo piacere. Vuoi uccidermi? Non sei te il mostro?»
I visi di Edh e Söth si deformarono guardandolo con disprezzo. Elsiathir seguì l’istinto, volendo che quel mostro si rivelasse per quel che era:
«La vostra storia dice che sceglieste, Hanelore, incuranti delle conseguenze. La storia dice che faceste la scelta sbagliata e poi viveste d’odio. Sei tu il mostro!»
E così dicendo le scagliò contro la torcia che languiva, mirando al volto. La Lamia schivò e ringhiò, mostrando denti candidi con canini affilati. Edh si preparò allo scontro con Elsiathir, ma Söth rimase immobile, non lucido, combattuto sul da farsi: fissava la Lamia ed i suoi compagni contrito, non volendo schierarsi.
La creatura alzò le braccia al soffitto ed Elsiathir comprese che stava per sommergerli con il suo potere, scatenando loro contro tutta la magia a cui aveva, secoli prima, sacrificato il suo destino.
«MORITE SCIOCCHI!», urlò.
All’urlo risposero centinaia di fischi furiosi, mentre una luce verde e viola s’accendeva pulsante tra le mani diafane. Poi tutto precipitò in un inspiegabile caos, quando ombre fulminee si scagliarono contro la pelle candida della creatura, che lanciò acute grida di dolore, contorcendosi.
Tutte e venti le unghie di Kyriphal erano penetrate nella schiena del mostro, che già spillava sangue nero, mentre Bäst, ancor più crudele, scalava i seni bellissimi deturpandone la carne tenera. Elsithir ne approfittò: spintonò Edh, distratto dalle urla della sua padrona, e caricò con la lama dritta di fronte a sé, infiggendola dove l’ombelico si fondeva con la nera chitina di ragno. La Lamia si piegò, ma Kyriphal e Bäst mantennero la presa, ed anzi il rosso approfittò d’uno di quegli spasmi per balzare sul grazioso viso già piegato dalla sofferenza. Un’artigliata calcolata e precisa le chiuse per sempre l’occhio sinistro e le sfregiò la guancia.
«NOOO!», pregò la voce di donna atterrita.
Con uno scossone scagliò via Bäst e scansò Elsiathir, le cui spada le rimase infissa nelle carni, e poi si diede alla fuga nella galleria dalla quale era venuta, con i suoi soldati che si mossero per coprirle la fuga. Kyriphal lasciò la presa solo dopo altre due profonde artigliate della zampa destra, saltando a terra e ponendosi a guardia dell’oscurità dove erano spariti gli abomini.
Hanelore era fuggita, ma difficilmente si sarebbe ripresa dalle ferite, ed Elsiathir era felice d’aver sacrificato la sua spada per questo. Edh si riprese dalla malia di cui era caduto vittima solo per ritrovare tutto il suo timore nei confronti dei Gatti, che guardava con gli occhi sbarrati. Elsiathir e Söth non poterono far nulla per tranquillizzarlo e non riuscirono a fermarlo quando, carico del suo bottino, corse via di buon passo sparendo per il sentiero. Mentre se ne andava, Kyriphal lo osservò senza tradire alcuna emozione. Bäst era tranquillo lì vicino, giocava con uno dei ragni morenti. Il piccolo mostro ferito provava a morderlo, ma il Gatto lo rigirò con un’abile zampata e con un’altra gli recise di netto la piccola testa. Poi si chinò sulle zampe chitinose, che iniziavano a piegarsi su se stesse, e ne stacco una con i denti, masticandola rumorosamente, appagato dal pasto sugoso e croccante.
“Esaltato a Dio, Iarai ebbe un potere immenso, così come i Fratelli che per Sé aveva creato. Essi insieme crearono molte cose del mondo che conosciamo e diedero vita ad una gran varietà di esseri, diffondendo i doni dell’intelletto e del senno. Eppure confermarono l’Uomo tal qual era. Non è dato a noi stessi sapere se ciò fu per amor nostro, per orgoglio delle Loro origini o perché agli Dèi piace giocare ai dadi. Intuisco un disegno od almeno una scommessa, ma nella trama di Aemagar solo il mio ruolo mi è dato sapere.”
Da “Preludio alla Guerra Più Grande”,
appunti del Maestro di Studi Emith-Frael dell’anno 770.
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