Le venti giornate di Torino

“Guardava con occhi privi di pupille come se scrutasse negli abissi del passato”

 

Non è una novità che il racconto fantastico, specialmente orrifico, in Italia, sia sempre stato considerato un tipo di letteratura minore, poco approfondito, se non addirittura deriso.
In una realtà come quella dell’editoria italiana contemporanea, le librerie offrono poco al lettore più maturo del genere. Interi scaffali dedicati a King, a ristampe degli immortali Lovecraft e Poe o saghe interminabili di vampiri e cacciatori di mostri, che fin troppo spesso tradiscono la loro natura di opere dai fini puramente commerciali.
Questo perché, all’infuori dei soliti mostri sacri, l’orrore nel Bel Paese semplicemente non viene apprezzato.

Può capitare, quindi, che alcuni libri nostrani, per quanto interessanti o semplicemente belli, vengano dimenticati, e che ci voglia una casa editrice estera, in questo caso la statunitense Norton, per gettare luce su un libro ingiustamente accantonato, come Le venti giornate di Torino.
Le venti giornate di Torino è stato scritto nel 1976 da Giorgio De Maria, critico, scrittore e musicista. Ultimo libro dell’autore, venne pubblicato nel 1977 dalla casa Il Formichiere, ricevendo una pessima accoglienza, e solo nel 2017, ben quaranta anni dopo, gode di una seconda edizione italiana per merito della Frassinelli.

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1966, una ondata di insonnia colpisce la città di Torino, le persone cadono in stati ipnotici, e si riversano di notte per le vie della città in stato quasi catatonico, girovagando senza meta e con la psiche messa a dura prova. In queste notti vengono compiuti omicidi e stragi tra gli insonni, le persone vengono massacrate, gettate contro muri o schiacciate da potenti forze invisibili. Mentre le persone, che possono permetterselo, lasciano la città, viene fondata la Biblioteca, associazione senza fini di lucro che opera con lo scopo di raccogliere gli scritti anonimi, confessioni e desideri della popolazione di Torino, con l’apparente intenzione di unire i pochi abitanti rimasti, sempre più isolati.
L’epidemia di omicidi e insonnia finisce improvvisamente, e, mentre la città torna alla normalità, la Biblioteca viene dismessa e dimenticata.
A dieci anni di distanza il protagonista del libro, di cui non viene mai detto il nome, intraprende un’indagine amatoriale per scoprire la verità sui tre eventi. Le indagini metteranno a dura prova la sua sanità mentale, e si troverà imprigionato in una rete di bugie e occulto.

“Sì, però nelle ghost-stories alla fine le allucinazioni si rivelano fondate: i fantasmi ci sono davvero”

La trama da subito tradisce le varie anime del racconto, sospeso tra orrore lovecraftiano e racconto noir, tra distopico ed epistolare, riuscendo persino a prevedere l’avvento dei social network, declinandoli in un’ottica fin troppo reale.
La Biblioteca, infatti, viene gestita da giovani di bell’aspetto e gentili, pronti a venire incontro ai bisogni dei vari utenti. Ognuno è libero di scrivere qualcosa e portarlo, ma anche di leggere quello scritto da qualsiasi altra persona. Tutto viene accettato e catalogato, gli utenti sono anonimi, ed è solo attraverso i giovani che due persone possono mettersi in contatto, creando amicizie e connessioni reali.
Protetti dall’anonimato i vari utenti della Biblioteca svuotano loro stessi nelle pagine che scrivono, raccontando all’inizio di eventi quotidiani, ma col tempo mostrando le parti più abbiette del loro animo, mostrando psicosi e perversione, come quella di un vecchio ossessionato dalla brama di possedere la sua nipote adolescente. La Biblioteca degenera, creata per unire le persone in realtà non fa altro che amplificare le ansie di una popolazione già duramente messa alla prova. Alcuni utenti si mettono a seguirne altri per le strade di Torino, e a loro volta vengono seguiti da altri utenti. L’opera viene quindi distrutta, i testi abbandonati e la psiche cittadina decide di dimenticare l’esistenza della Biblioteca, fonte di paranoia e disordine cittadino.

“Ma se la pazzia c’è, in questo caso ha carattere collettivo e implicazioni in qualche modo ideologiche”
Il gang stalking e la sindrome di connettività che colpisce l’uomo moderno è ancipato dallo scrittore, vera e propria Cassandra. Oramai a mezzo secolo di distanza dalla pubblicazione del libro, non si può più parlare di racconto fantastico. La visione di De Maria è più moderna di quella della televisione come cattiva maestra di Pasolini, e mostra una realtà contemporanea. Il suo Social Network è fonte di disagio e fogna della civilità, amministrata da forze banali ma allo stesso tempo eteree, con motivazioni sfuggenti e nefaste. L’intenzione degli utenti non è quella di connettersi alle persone per creare legami duraturi, ma di cedere ad un più basso spinto voyeuristico, pervertendo un sistema che all’apparenza mostra le migliori intenzioni.

 

Se la struttura della biblioteca come fonte di sapere quasi infinito dei suoi utenti è un rimando a Borges, la struttura del racconto, e l’ambiente in cui si muove il protagonista, ha forti influenze del Lovecraft più nichilista.
Il libro è pervaso da quel senso di angoscia tipico di quel tipo d’orrore e anche se ci troviamo lontani dal New England, la Torino al centro del racconto non è per questo meno misteriosa o scevra di pericoli occulti.
Torino è famosa per essere la capitale esoterica d’Italia, e la Torino del racconto non tradisce questa nomea. Viene descritta come una città rovinata, opprimente, che non riesce a confrontarsi costruttivamente con quello che ha subito. Anni dopo i massacri il ricordo tra la popolazione rimane, e l’impossibilità dello Stato di trovare un colpevole soddisfacente, un capro espiatorio,  ha aperto le porte ad ipotesi più esoteriche, tra le leggende dei pazzi deformi di Cottolengo, alle testimonianze di esseri mostruosi che inseguivano le persone, fino alla creazione di veri e propri culti escatologici che strisciano non visti, se non all’occhio dell’iniziato, tra le strade.

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I torinesi sopravvissuti al decennio prima hanno visto l’impossibile, e incapaci di trovare una spiegazione razionale hanno preferito tacere, nascondendosi nei meandri del pensiero quotidiano, trattando con antipatia ed ostilità chi provi a cercare la verità.
Il protagonista viene minacciato, sviato, pedinato da una associazione terrena che cerca di nascondere la mano soprannaturale dietro gli omicidi.
Il sovrannaturale si mostra del tutto incurante della società, le forze mostruose non si chiedono se rivelarsi o meno, agiscono liberamente ed è solo la società razionale che decide di non vedere, di non seguire certe tracce, di non farsi le domande giuste. Le risposte ai misteri di Torino sono in realtà ovvie, sono le implicazioni ad essere sconvolgenti.
Lovecraft ritorna anche attraverso l’uso della tecnologia che viene utilizzata per mettere in contatto il mondo superficiale con quello ctonio, permettendo di sentire le voci di questi esseri che in condizioni normali solo persone con un animo particolare potrebbero ascoltare.
Il popolo di Torino non è considerato da questi esseri, se non come semplice mezzo improprio, del tutto fisico, un oggetto inconsapevole attraverso cui portare avanti sfide e duelli tra esseri immortali.
I culti che il popolo ha dedicato a questi esseri agiscono liberamente e cospirano contro chi vuole fare luce, le loro ombre si spandono ben oltre la città e il consiglio cittadino, suggerendo che lo Stato stesso possa essere in qualche modo in combutta con queste forze. Gli omicidi e i depistaggi, cosi come la costruzione della Biblioteca, sembrano essere opera quindi di un mandante terreno, ma troppo in alto per essere identificato e stretto in un legame, se paritario o meno non è dato saperlo, con le forze occulte. Da questo accordo i poteri forti sembrano trarne la capacità di poter plasmare un vero e proprio ordine nuovo.

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“Ricordo benissimo l’atmosfera di morte che regnava a Torino in quel periodo”
Le venti giornate di Torino, per quanto racconto orrifico, non può non mostrare l’humus culturale che l’ha generato, ovvero la situazione italiana nei cosiddetti anni di piombo.
Come il mistero degli omicidi è ovvio una volta accettato di vedere semplicemente le cose come sono, anche il libro può assumere un altro punto di vista se letto tenendo a mente gli anni 70.
Infatti, nei giovani della biblioteca, pettinati, rigidi, dall’atteggiamento marziale, che a distanza di anni continuano l’opera di dossieraggio, nascondendosi tra comuni passanti, si rivede facilmente lo spettro del Neo Fascismo di quegli anni.
Nella Torino diversa, e a detta stessa del protagonista, nelle fasi finali del libro, più moderna, si possono vedere gli effetti della strategia della tensione applicata con gli omicidi di dieci anni prima.
L’amichevole avvocato potrebbe non essere altro che un agente dormiente della cospirazione.
Nel silenzio del popolo e dei media potrebbe non esserci paura, ma compiacenza ed omertà.
A Colui che vuole mostrare la verità non rimane nulla se non vederla riflessa in uno spettacolo di marionette, nei bassifondi della città, consumati dalla sconfitta e dalla necessità di fuggire.
Il pericolo non si trova alle spalle, ma davanti, cosi vicino da non poter essere messo chiaramente a fuoco.
Al protagonista, senza nome perché non rappresenta più un singolo ma una categoria di persone, non resta quindi che scappare, vinto dalla paranoia e dalla certezza dell’inutilità del suo compito, ed andare incontro ad un finale nero, privo di qualsiasi accenno di speranza, figlio del vero romanzo distopico di Orwell e Zamyatin, ma allo stesso tempo così assurdo da anticipare Barker e Ligotti.
La cospirazione ha avuto successo, e se il controllo si espande sui media tradizionali non rimane altro che raccontare la verità attraverso una forma di letteratura inferiore, come le marionette.
O forse, meta narrativamente, attraverso un libro fantastico che è stato troppo facilmente dimenticato.
Giorgio De Maria non può godere oggi della rinnovata nomea del suo libro, morto, dimenticato dal mondo, nel 2009, per un esaurimento derivato dalla pazzia e dalle crisi mistiche di cui era vittima.

Le venti giornate di Torino è quindi un libro di una freschezza e bellezza quasi sorprendente, una lettura che non dovrebbe mancare a nessun appassionato della letteratura in se, capace oggi, a mezzo secolo di distanza, di essere ancora potente e pregno di spunti di riflessione. Resta solo l’amaro di non aver potuto celebrare in vita un autore cosi ingiustamente dimenticato.

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