
Per “I racconti di Satampra Zeiros” torna a farci visita Giuseppe Cerniglia, scrittore e membro dell’Associazione Culturale ItalianSword&Sorcery, che ci propone “Ordalia”, racconto di sword and sorcery di circa 22.000 battute spazi inclusi, appartenente al Ciclo degli Annali Apocrifi.
Se volete leggere anche gli altri episodi di questa serie, li trovate qui:
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Cerniglia, Giuseppe – I mangiatori di ferro
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La torre degli spergiuri
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La verità sul caso Rashan Kharr

Maciej Kuciara
Ordalia
di Giuseppe Cerniglia
Il prigioniero si reggeva a malapena sui palmi e le ginocchia. Aveva il volto tumefatto e per un attimo sollevò gli occhi esitanti verso il nano che lo sovrastava. La luce rosata del tramonto illuminava per metà il viso di Valdak Rowin, immobile come una maschera d’alabastro. Una spilla raffigurante una testa di gigante cornuto ne fermava il mantello di pelliccia sopra lo spallaccio dell’armatura. Tremante, l’elfo si prostrò fino a toccare il suolo con la fronte.
Valdak fece una smorfia. Quella figura insignificante serviva solo a ricordargli il disonore della sconfitta subìta. Gli tornarono in mente sprazzi della battaglia: l’avanzata ordinata dei cavalieri elfici, con le lance in resta e il luccichio fastidioso delle armature smaltate di bianco; e ancora: i nani stretti fianco a fianco, l’attesa protratta all’inverosimile e poi lo schianto delle asce sugli scudi avversari, con il lezzo del sudore che si mischiava all’odore del sangue caldo.
Valdak strinse le spalle del prigioniero, ossute sotto la tunica a brandelli, e indicò davanti a sé con un gesto perentorio. L’elfo percorse a piccoli passi lo sperone di roccia su cui si trovavano. In lontananza, le cime innevate dei monti riflettevano il bagliore accecante del sole. L’elfo strizzò gli occhi, poi calò lo sguardo in basso. Sulla valle aleggiava una bruma opalescente, attraverso cui le ombre della sera avanzavano grigie e contorte fra i boschi. Valdak precipitò il prigioniero nel vuoto sottostante e rimase a fissare il punto in cui il corpo aveva bucato la superficie immota della nebbia.
«Nel nome di Raukhur, il Grande Grigio, io ti invoco: Khudin!»
Un refolo sussurrò all’orecchio del nano, sollevandone le ciocche bianche dai riflessi azzurri; insieme al vento anche la nebbia risalì la valle, portando con sé l’odore umido della terra. Fra le sue spire Valdak avvertì la presenza del dio. Il corpo di Khudin era morto tempo addietro, ucciso per mano degli elfi, ma lo spirito era sopravvissuto, simile a un fantasma annidato nella nebbia.
Pago del sacrificio, Khudin si fece avanti strascicando il piede sinistro storpio.
«Nobile Valdak» disse con una voce che suonava stranamente vuota, simile a un’eco continuata. «Una battaglia. Un manipolo di elfi istupiditi da una vittoria. E adesso tu.» Sogghignò, dondolando la testa bitorzoluta. «A cosa devo il tuo sacrificio, rampollo della Casa di Rowin?»
«Sangue per il sangue. Una vita per una vita.» Valdak sostenne con occhi di ghiaccio lo sguardo animoso del dio. «Curhan Norhol» continuò, nominando l’elfo che lo aveva sconfitto. Non poteva tornare indietro a Ran G’hor senza aver vendicato la sconfitta, ne sarebbe valso del suo nome e del prestigio dell’intera Casa.
Khudin alzò le spalle storte.
«Potrei farlo» ammise. «Ma non sarebbe per niente divertente.» Si grattò la barba sparpagliata in ciuffi radi sul mento. «No, per niente.» Valdak divaricò le gambe e strinse le mani sui fianchi; Khudin gli girava intorno, infine si fermò parlandogli faccia a faccia: «Ti offro una prova, Valdak Rowin.» Aprì e chiuse le dita callose, tornando a sorridere in modo sfrontato. «Una notte, una sola notte. Una prova il cui esito dipenderà unicamente dal tuo avversario.»
«E sia.» Valdak odiava le scommesse, ma non poteva che accettare le condizioni del dio: «Abbiamo un patto, dunque.»
Khudin non aggiunse altro. La sua sagoma sfocò nella nebbia. L’ultima cosa che si trattenne fu il sorriso malizioso. E gli occhi luccicanti, cui Valdak voltò le spalle fremente di rabbia.
Curhan Norhol sbatté le palpebre, sconvolto da quanto lo aveva svegliato di soprassalto: occhi che lo spiavano. Per un attimo rimase disteso a puntellarsi sui gomiti, irrigidito in una sensazione di pericolo poi, lentamente, riconobbe la grotta in cui stava bivaccando con i propri uomini. L’aria era umida e il vento mischiava la nota selvatica del pino all’odore di legna bruciata. Quando si fu abituato all’oscurità, scorse il cerchio di guerrieri distesi attorno al fuoco spento e, più oltre, i cavalli impastoiati che spazzavano l’aria con la coda. Raggiunse la parete cui erano addossate le provviste. È stato solo un sogno, si disse Curhan. Bevve alcuni sorsi d’acqua da un otre. Si accorse di non essere l’unico a essere sveglio: alcuni elfi bisbigliavano stringendosi nei manti di pelliccia, mentre Andher tergiversava sul ciglio della caverna.
Turbato da quell’insieme di dettagli, Curhan raggiunse Andher. I guerrieri seguirono il suo passaggio con gli occhi privi di sonno, qualcuno svegliò chi stava ancora dormendo, ma nessuno si mosse dal proprio giaciglio.
Andher osservava i fiocchi di neve che solcavano in diagonale l’aria.
«Questa notte ci sarà una bufera» mormorò.
La pineta stormiva e un uccello notturno si librò fra le foglie che mulinavano nell’aria. Curhan ne seguì il volo per tutta la lunghezza della valle, fino all’orizzonte incorniciato dalle pareti rocciose. Il freddo gli sferzava il viso, sparpagliandone i capelli cinerei. Quei dettagli risvegliarono qualcosa nel suo animo, che pure stentava a riaffiorare nella sfera cosciente. Gli elfi formarono un capannello alle spalle di Andher. Curhan li guardò brevemente, poi tornò a osservare la distesa di nuvole sulla sommità dei monti.
«Dobbiamo metterci in marcia» disse.
«Questa notte?» Andher scosse la testa, incredulo. Gli elfi si mossero con riluttanza, aprendo un varco per far passare il proprio comandante. Anche Andher fece alcuni passi dentro la grotta. «Non c’è abbastanza luce per una marcia» insistette.
«La tempesta non aspetterà che sorga il sole» tagliò corto Curhan, senza guardarlo in viso. Tornò al giaciglio su cui aveva passato la notte e raccolse la cintura con la propria spada. Riesaminò quanto ricordava della giornata: con il sopraggiungere della notte non aveva visto la rugiada brinare sugli aghi di pino, né gli scoiattoli correre a interrare le provviste. Estrasse Zehir dal fodero e ne apprezzò il peso stringendola da entrambe le estremità. Si soffermò sulla parola Giuramento incisa a caratteri elfici lungo la lama. La spada bastarda gli restituì il riflesso arcigno dei suoi occhi azzurri.
Occhi, si disse, ripensando a quanto aveva sognato.
Si riebbe con l’impressione di essere braccato, come se la tempesta stesse sopraggiungendo per lui. Non si sarebbe fatto prendere, decise; poi giurò. Giurò che li avrebbe riportati a casa, tutti vivi, i suoi ragazzi. Fra le dita avvertì Zehir riscaldarsi, segno che la spada aveva accolto la sua promessa.
Si prepararono in fretta: alcuni guerrieri radunarono i cavalli, gli altri preparando fagotti con le provviste residue. Curhan indossò l’armatura e tornò sulla soglia della grotta, con l’elmo sottobraccio e il mantello che si divincolava nel vento. Andher gli porse le redini del destriero.
«C’è magia nell’aria stanotte, Curhan» gli disse. Aveva le guance arrossate a causa del freddo.
Curhan non rispose.
In posizione arretrata, il resto dei cavalieri si scambiavano battute scherzose.
«Tu lo sai» proseguì Andher, asciutto. «Ma ci stai portando lo stesso lassù.» Fece una pausa, poi aggrottò le sopracciglia. «Spero tu sappia cosa stai facendo.» Senza attendere risposta, montò in sella al proprio cavallo. Accigliato, Curhan spinse all’aperto la propria cavalcatura, seguito a breve distanza dal resto dei cavalieri.
Discesero la china seguendo una pista che si muoveva irregolare fra i pini. Di tanto in tanto rocce muschiate emergevano dal sottosuolo, coperte sulla sommità da un soffice strato di neve. All’ombra di quelle pietre, un gatto selvatico osservava la colonna elfica sfilare in una successione ordinata. La pista si allargò in una radura e Curhan spinse al galoppo il proprio stallone; dietro di lui i cavalieri si aprirono a ventaglio, con Andher al centro appena più avanti degli altri. Gli zoccoli scricchiolavano, lasciando impronte nitide sulla neve fresca. Il vento aveva mutato direzione e adesso soffiava alle spalle degli elfi. Con i capelli sfrangiati ai lati dell’elmo, Curhan rallentò l’andatura fino a fermarsi quando la radura riprese a salire. Non c’era alcun passo agevole davanti a loro: per scavalcare i monti sarebbero stati costretti a inerpicarsi per una pista larga a sufficienza per un elfo alla volta.
«Smontate» ordinò Curhan. «Continueremo a piedi, tirandoci dietro i cavalli.»
La tempesta fischiava in grosse raffiche che limitavano la visibilità. Gli elfi arrancarono con gli stivali completamente sprofondati nella neve, incoraggiandosi a vicenda quando qualcuno scivolava. Il sentiero procedeva tortuoso, con un fianco coperto dalla montagna e l’altro aperto su un dirupo. Curhan iniziava a perdere la sensibilità a causa del vento che si insinuava sotto l’armatura come una lama gelida: allora cercava il morbido tepore di Zehir e rammentava a se stesso che la cima non poteva essere lontana.
Prima di raggiungerla, tuttavia, la colonna elfica ebbe un incidente. In un punto avverso, uno dei cavalli si rifiutò di proseguire. Nitriva, con le froge dilatate, opponendosi all’elfo che ne strattonava le redini; la tragedia si consumò in pochi attimi: il cavallo scalciò con le zampe anteriori, precipitando il proprio cavaliere nella valle sottostante poi, mostrando il bianco degli occhi, scosse la criniera e spiccò un salto, seguendo l’elfo nella morte.
Curhan lottò contro il vuoto che gli premette lo stomaco. Il resto degli elfi non riuscì a distogliere gli occhi esterrefatti dalla forma disarticolata che giaceva in basso. Andher si fece avanti, tremante, proteggendosi il viso con un braccio. Il vento segnava l’oscurità con strascichi di neve argentata.
«Non possiamo continuare così» urlò, la voce rotta dalla rabbia. Afferrò Curhan per la cotta di maglia: «Non possiamo.»
«Non possiamo tornare indietro» ritorse Curhan, allontanando Andher. L’elfo si tolse l’elmo e sostenne con astio lo sguardo di Curhan, il fiato che condensava ad ogni respiro.
Caparbio, Curhan ordinò che fosse ripresa la marcia. Andher lasciò che i compagni passassero avanti infine, furente, riprese egli stesso il cammino.
Finalmente, il sentiero sboccò in un altopiano.
Una quercia giaceva inclinata, con le radici divelte e il tronco appoggiato alla roccia, offrendo un riparo naturale, così Curhan decise per una sosta. Gli elfi si assieparono sotto l’immenso albero. Accucciato sui talloni, Andher distribuì alcune croste di pane dal fagotto che aveva appena tirato giù dal dorso del proprio destriero. Quando Curhan gli s’avvicinò, s’irrigidì.
«Rimanere non sarebbe stato meglio che mettersi in marcia» disse Curhan, appoggiandosi con le spalle alla roccia ricoperta da un sottile strato di ghiaccio.
Andher se ne stava zitto, lo sguardo duro rivolto davanti a sé. Curhan aprì la bocca, poi la richiuse. Non si sarebbe scusato, decise: stava cercando di salvare le loro vite da qualcosa. Incrociò le braccia al petto. Zehir aveva smesso di vibrare al suo fianco.
Poco lontano, il destriero di Curhan scrollò la criniera, e colpì col muso un cavallo che gli stava a fianco. Andher guardò il compagno negli occhi. Fece per parlare, ma Curhan lo anticipò: «Questa marcia non piace a te come non piace nemmeno a me, è chiaro?»
Andher chinò la testa sul petto.
«Mi dispiace» sbottò Curhan. Era quanto gli era rimasto da dire: «Mi dispiace, sì. Tornerei giù a prendere il suo corpo se potessi.» Curhan fece per sollevarsi, ma Andher gli bloccò il polso: «Non essere troppo severo con te stesso.»
Col viso nascosto dall’ombra, Curhan indugiò. Era esausto. Ebbe l’impressione che se si fosse fermato troppo a lungo, non sarebbero più riuscito a mettersi in marcia.
Andher tese una mano e Curhan lo aiutò a sollevarsi.
Un cavallò pestò la neve con lo zoccolo e prese a rovistare il terreno col muso cercando i germogli coperti dalla neve. Appartati nell’angolo formato fra la roccia e la quercia, gli elfi parlavano sommessamente passandosi di mano in mano una fiaschetta di liquore. Controvoglia, uno fra loro lasciò il rifugio per recuperare la propria cavalcatura che si era allontanata di una dozzina di passi. Raggiunse il destriero ma invece di tornare indietro rimase lì dov’era, titubante, a scrutare le ombre aggrovigliate nella nebbia.
«Curhan, c’è qualcosa laggiù.»
Andher guardò allarmato gli elfi che avevano smesso di parlare. Curhan sfiorò la lunga impugnatura di Zehir, avvertendo ondate di calore emanare dal fodero. Seguì con gli occhi l’elfo che avanzava cauto nella notte. Il vento soffiava per il passo montano intrecciando nell’aria disegni di neve.
«Sì, c’è qualcosa.» L’elfo ritornò indietro urlando: «Una bestia, una bestia.»
«Presto» urlò Curhan. «Su per la montagna.» Erano stati colti alla sprovvista, ma la decisione era stata altrettanto immediata: avrebbe affrontato qualsiasi cosa riservava loro la tormenta pur di non lasciarsi tagliare l’unica via per cui potevano proseguire. «Non badate ai cavalli»
Gli elfi eseguirono l’ordine alla spicciolata: qualcuno era riuscito a portare con sé la lancia e lo scudo, ma alcuni rimasero armati soltanto di spada. Curhan era in testa, ma temporeggiava incitando gli uomini a proseguire. Lo raggiunse Andher, con la celata dell’elmo sollevata e il volto accaldato.
«Sembra un leone, Curhan.»
«Impossibile» rispose Curhan, secco.
Non c’erano leoni in Scandia, eppure Curhan non riusciva a dubitare di Andher. Questa notte tutto è possibile, si disse, ansimando. Zehir scuoteva il fodero con un impeto violento, e Curhan fu costretto a proseguire tenendo stretta a sé la spada. Anche attraverso il guanto, il suo calore iniziava a farsi insopportabile.
«Presto, presto.»
La bufera di neve infuriava in gorghi che avvolgevano gli elfi, rallentandone il passo. Alle loro spalle giungevano i nitriti dolorosi dei cavalli divorati dal leone. Il sentiero si fece indistinto al punto che tutto sembrava una distesa di neve compatta. Picchi lontani bordavano l’altopiano, sfumati nella notte avvolta da una caligine argentata. Gli elfi lanciavano richiami, cercando di non smarrire nessun membro della compagnia. Curhan si rese conto che proseguire avrebbe portato ciascuno allo stremo delle forze. Il leone li avrebbe raggiunti, era inevitabile. Ci sarebbe stato uno scontro.
«Fermi» intimò, estraendo Zehir dal fodero. La lama sibilò nell’aria, illuminando la notte con un bagliore rosato. Curhan ne strinse l’elsa con entrambe le mani, sollevandone la lama affinché i volti dei suoi compagni ne fossero rischiarati, poi chiuse la celata dell’elmo e voltò le spalle agli elfi.
«Preparatevi ad affrontare la bestia».
«Il leone, il leone» fu l’eco che gli rispose e in uno sferragliare metallico gli elfi si disposero in formazione. La belva avanzava lentamente, con un ringhio che vibrava dal profondo della sua gola. Adesso riuscivano a vederne il movimento sinuoso delle spalle muscolose, la criniera spruzzata di neve, l’alito caldo che condensava e il muso che dondolava, sporco di sangue. Era un esemplare albino, alto quanto ciascuno di loro. Per un attimo il leone s’arrestò, muovendo la coda in movimenti nervosi, irregolari. Curhan strisciò indietro, flettendo le gambe divaricate. Gli elfi si disposero in una doppia raggiera attorno al proprio comandante, coloro con gli scudi che proteggevano i compagni.
Il leone sollevò la testa, ruggendo la sua sfida nella tormenta, poi s’avventò in avanti con un balzo sorprendentemente agile. Curhan si gettò di lato, rotolando lontano dalla bestia, poi si rialzò. Un elfo sollevò lo scudo proteggendosi dai denti acuminati, un altro cercò il fianco dell’avversario con un affondo della lancia; dietro di loro gli elfi si mossero in modo da circondare il nemico. Il leone distese il corpo sulle zampe anteriori e caricò nuovamente l’elfo con lo scudo, fracassandone una buona metà della protezione. Andher si gettò in avanti, trascinando in salvo il compagno disteso sulla neve. Curhan e un altro elfo chiusero il varco aperto dal leone. Il suo alito caldo impastato di sangue giungeva anche attraverso l’elmo, pizzicando le narici. Curhan non vi badò e brandì Zehir, sferrando un colpo al muso con l’elsa. Due elfi provarono ad attaccare il leone alle spalle, ma la bestia scalciò, ferendo alla gamba uno dei due e scivolò di lato, voltandosi a fronteggiare i due assalitori. Curhan ringhiò, spalleggiando i suoi uomini mentre cercavano di approfittare di ogni apertura dell’avversario. La sua spada descriveva ampi cerchi, ora colpendo di fendente ora di rovescio, la lama arroventata di un vivido colore arancio. In preda alla frenesia della battaglia non avvertiva più né il freddo né la stanchezza. La neve non ne impacciava i movimenti. Anche il leone bianco si muoveva con poderosa eleganza: affondava le fauci su un avversario, poi balzava indietro; si voltava, frustando con la coda chi gli stava dietro mentre calava su un elfo la zampa possente come un maglio.
La lotta continuò a lungo. Il leone aveva riportato diverse ferite, ma l’impeto con cui si era scagliato contro gli elfi si era ormai esaurito. Indietreggiò nella neve macchiata di sangue passando gli occhi blu, simili a zaffiri scintillanti, da uno all’altro degli avversari. Alcuni elfi erano caduti e molti agognavano in lunghi lamenti; chi era ancora in piedi teneva le spalle curve a causa della stanchezza. Curhan contò oltre la spalla i guerrieri rimastigli, poi tornò a guardare l’avversario chiedendosi se sarebbero riusciti a resistere a un’altra carica. Digrignò i denti e abbassò Zehir fino a sfiorare la neve con la punta insanguinata. Può ancora farcela, si disse, ma ogni carica è meno travolgente della precedente. Adesso, tuttavia, Curhan temeva per i suoi uomini, perché avevano perso la forza del numero. Può balzare addosso a chiunque, giudicò. Si fece avanti di un passo rispetto agli altri, slacciò l’elmo e scrollò i capelli cinerei.
«Fatti sotto, maledetto.»
Il leone socchiuse gli occhi e mosse la testa, disturbato dall’iridescenza abbagliante di Zehir. Teneva la testa bassa e il corpo in tensione. Stranamente, Curhan non provava paura per sé. La tensione della morte gli scivolava addosso come un brivido, rafforzando il riflesso dei muscoli tesi sotto l’armatura. Poteva, invece, leggere il terrore sconvolto sui volti degli altri elfi.
Il leone emise un ruggito arrochito. Piuttosto che accettare la sfida di Curhan, rivolse la sua attenzione contro Andher. Curhan rimase paralizzato nei pochi attimi in cui il leone balzava addosso all’elfo. Andher evitò la zampa e cacciò con tutta la sua forza la lancia nel ventre della bestia. Un primo, un secondo affondo: colpi sgraziati, dati con forza, che mandarono in frantumi l’arma. L’elfo rimase inerme e il leone lo travolse affondando le zanne fra il collo e la spalla.
Andher cadde riverso indietro nella neve, senza urlare. Non urlò nemmeno Curhan. Non ci riuscì, avvinghiato com’era da Zehir. La spada pulsava nel pugno, facendogli provare lo stesso dolore di Andher; calda, sempre più calda. Divenne rovente, virando su un colore scarlatto. Curhan si morse le labbra, rigettando su Zehir quell’acredine mista di dolore e rabbia. Scattò in avanti, la spada levata in un bagliore fulgido che tracciò una scia fiammeggiante per l’aria. Il leone ruggì in viso all’elfo, ma non fece in tempo ad evitare il colpo del guerriero. Curhan andò a fondo fino all’elsa, imprimendo a Zehir una rotazione che squarciò il fianco dell’avversario. La bestia mutò il suo ruggito in un rantolo. Stramazzò, una gigantesca forma candida da cui fiottava sangue scuro.
Curhan avanzò sulle gambe traballanti verso Andher, lasciò la presa su Zehir, e cadde sulle ginocchia. Tolse l’elmo all’amico e si piegò su stesso, incurante della bufera che proprio in quel momento raggiunse il suo apice. Gli elfi accorsero, guerrieri dai visi pallidi, con le armature luccicanti a causa della brina depositata sulle decorazioni d’argento. Insieme volsero la bestia sul fianco che non era stato ferito, poi qualcuno trascinò per un braccio Curhan. Si ripararono sotto il manto riccioluto del leone e lì rimasero per tutta la notte, finché il vento non cadde sulla piana in cima alla montagna.
Quando emersero le nubi era svanite e all’orizzonte il sole li accecò, brillando su un cielo striato viola e arancione. Rimasero in silenzio, assorti in una preghiera corale: il sole finalmente era giunto a scacciare la notte, che ancora persisteva in ombre simili a lunghe pennellate sulla neve. I caduti vennero raccolti e trasportati sulle lance. Qualcuno pensò pure a scuoiare il leone, il cui manto fu gettato sulle spalle di Curhan. Quindi si avviarono, insieme, e in testa alla colonna veniva Curhan, con gli occhi arrossati, i capelli cinerei sparsi al vento e il manto del leone bianco avvolto come un drappo. Al suo fianco pendeva un fodero istoriato: Zehir era tornata a riposare, offrendo finalmente sollievo al suo austero portatore.
La nebbia pendeva dai rami di pino in stralci fluttuanti che si estendevano in ogni direzione. Valdak Rowin girò su se stesso, ascoltando il responso di Khudin che echeggiava in ogni angolo della pineta. Tese un angolo della bocca.
«Il tuo nemico ha superato la prova» disse il dio, soffocando un gorgoglio di soddisfazione. «Oltretutto, è stato acclamato dalla sua gente perché ha sconfitto un leone bianco.» Eruppe in una risata malevola e insolente:«Tutto grazie a te, Nobile Valdak della Casa di Rowin.»
Valdak sostenne il proprio corpo con un pugno appoggiato a un tronco. Una parola lampeggiò nella sua mente, rapida come una coltellata e altrettanto dolorosa: inadeguato. Fu un pensiero deludente. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dal corso tumultuoso dei sentimenti. Qualcosa d’irrefrenabile risalì l’animo del nano. Un’energia antica, dura quanto la roccia, gli dette le vertigini.
«Kharud tri r’ham izaad» disse con voce altera.
La nebbia indietreggiò al suo cospetto, aprendo uno spiraglio attraverso cui Valdak puntò con sfida il cielo, infinito sopra la sua testa.
Sarebbe riuscito.
Lì dove anche un dio aveva fallito