
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , torna a trovarci Andrea Guido Silvi che ci propone “Il Nero”, secondo racconto fantasy (di circa 44.000 battute spazi inclusi) del Ciclo dei Gatti.
Se volete leggere la precedente storia, la trovate qui:
Buona lettura.
Autore
Classe 1981, sono nato a Rieti, dove il verde non manca e si respira ancora un po’ di magia tra boschi, laghi e santuari. Ho sempre viaggiato molto, sin da ragazzo, alla ricerca dell’incanto di paesaggi diversi ed ho continuato a viaggiare per studio (ho studiato in tre continenti), per lavoro e per passione (amo il trekking e la vita all’aperto). Nelle descrizioni delle mie ambientazioni, fantasy e non, c’è infatti poco d’inventato, perché non c’è nulla da aggiungere, se non la giusta storia, alla bellezza del grande nord o delle creste vulcaniche d’isole quasi incontaminate. La magia che non ho potuto vivere direttamente l’ho cercata nella lettura, e ho chiari numi cui ispirarmi: H.P. Lovecraft, E.A. Poe, E. Salgari, C.A. Smith, J.R.R. Tolkien. A questi s’accompagnano tanti altri che, anche con un solo racconto, mi hanno fatto dono di esperienze irripetibili (come King, Chambers, Howard…).
Come scrittore ho un’unica ambizione: mettere davanti agli occhi del lettore il mio mondo, trascinarlo al suo interno e coinvolgerlo. Questo non solo per fargli dimenticare il suo mondo per qualche ora, ma per consentirgli di vivere avventure, sfide, contesti morali e punti di vista diversi con cui confrontarsi. È questo il motivo per cui, a mio avviso, si scrive ancora oggi fantasy con draghi, cavalieri e castelli nella nebbia: la promessa di un mondo onirico, diverso e distante dal giornaliero, predispone al meglio la mente del lettore a regole per lui inusuali o aliene, consentendogli esperienze uniche che si aggiungono al suo bagaglio in maniera del tutto simile a quelle del suo vissuto ordinario.
Bocconiano, nel mio vissuto ordinario lavoro a Roma, dove mi occupo con soddisfazione di marketing per una delle principali compagnie assicurative in Italia, creando prodotti d’investimento destinati alla distribuzione bancaria.
Prefazione del Ciclo dei Gatti a pubblicazione periodica su Hyperborea
di Andrea Guido Silvi
La Guerra tra Divinità e Demoni s’approssima, sostiene Emith-Frael, mago e veggente fedele ai Giusti Dèi degli Uomini. I mortali sono le pedine che, mosse sulla scacchiera, preparano gli schieramenti al conflitto, e il loro posizionamento prende anni, decenni, forse secoli. Ladri, guerrieri e mercenari vivono le loro vite, mentre il veggente li indirizza sulla la strada che dovranno percorrere. Edhar “Edh” Manhak (“I Gatti e i ragni”, “Il Nero”) non ha mai conosciuto il veggente, eppure lui ha segnato la sua strada. Edone, lo sgraziato guerriero dalla braccia lunghe (“Il Nero”, “Ynghwamokka”, “La Sfinge” e altri racconti), è allo stesso tempo pedina ed amico di Emith-Frael, che lo spinge verso il suo destino impresa dopo impresa. I Gatti, animali ambigui, sono parte attiva nella lotta alle forze demoniache che minacciano il Creato, ma si muovono perlopiù nell’ombra, vittime ed artefici della superstizione che li circonda.
Il filo conduttore della raccolta è dato dalla predestinazione dei personaggi nella trama decisa dalle divinità, il cui disegno però non è mai chiaro. Attraverso il racconto di vicende tra loro collegate, si scoprono motivazioni e storia dei vari protagonisti, coinvolti in una sorta di staffetta che procede lentamente verso un obiettivo ignoto. Ogni racconto è un tassello del puzzle.
Nota: nei racconti i nomi di alcune creature o animali, come avviene per i Gatti, vengono scritti con l’iniziale maiuscola per indicare che si tratta d’esseri appartenenti a specie dotate d’intelletto o dalla natura oltremondana. Allo stesso modo si parla di Uomini, con l’iniziale maiuscola, così come di Nani, Elfi e Gnomi, che insieme compongono l’insieme dei comunemente detti “esseri umani”.
Sinossi de “Il Nero”
Edone, guerriero Uomo veterano d’innumerevoli battaglie, ha saputo che Emith-Frael, il veggente un tempo suo amico con cui aveva troncato ogni rapporto, è morto. Il mago aveva promesso di rivelargli il suo destino e un sogno ha turbato le ultime notti del guerriero, che vi riconosce il luogo ed il tempo della sua morte. Edone, insieme al giovane Edhar “Edh” Manhak, suo scudiero, si prepara ad affrontare la sua nemesi nelle profondità d’un’antica città-fortezza nanica, tra le colline colorate della Malaterra. Entrambi gli Uomini dovranno riflettere sul significato dell’ineluttabilità del destino, essendone attori solo in parte consapevoli.

Il Nero
Ciclo dei Gatti
di Andrea Guido Silvi
Berdor del Nord, Rossa Malaterra, nei confini del regno nanico caduto di Rahk’al-Duum. Dal 15° al 17° giorno di Grandesemina dell’anno 777 dal Mare Ritirato.
Le colline colorate
15° giorno di Grandesemina
Il gambesone gli dava caldo e faretra ed arco lungo in spalla parevano essersi fatti pesanti. Il giovane, poco più che un ragazzo, con capelli corvini corti ed un accenno di baffi, alzò gli occhi neri scrutando il paesaggio, brullo e alieno nella caligine rossastra che velava il cielo pomeridiano. Le guglie e i pinnacoli di roccia erosi dalla pioggia mostravano fasce di diverse tinte pastello: oltre al cinabro predominante, si vedevano zafferano, mogano, pesca, verde oliva. Solo lo stramonio e pochi arbusti rinsecchiti crescevano tra i sassi e sulle scarpate, concentrandosi alle falde dei calanchi e nelle forre asciutte dei torrenti stagionali, dove l’ombra poteva concedere qualche goccia d’umidità. Era così da diversi giorni di marcia ed Edh, superato l’iniziale stupore per le terre colorate, trovava quella vista ormai deprimente. Il cielo poi quel giorno era particolarmente strano e a lui quel soffuso rosso-arancio pareva innaturale. Gli ricordava il cielo che preannunciava la neve in montagna, ma il colore era sbagliato.
I Nani che stavano seguendo, scelti come guide nel baluardo kalinstadiano di Camaria, avevano detto che erano le tempeste di polvere che si sollevavano dalle colline, ricche di ferro, la causa del cielo rosso. Erano in quattro, veri purosangue alti due braccia e con spalle quasi altrettanto larghe, con esuberanti capigliature nere, lunghe barbe brizzolate ed occhi scuri. Si capiva che dovevano essere combattenti temibili. Edh non aveva perso tempo a memorizzare i nomi, qualcosa tipo Krondrag, Kandrug e simili, grevi e ruvidi come le pietre smosse: era più facile pensare a loro riferendosi alle differenti acconciature e fogge delle barbe, e lo era ancor di più guardare ai copricapi. Il capo della banda aveva un vistoso cappello rosso a tesa larga, gli altri dei berretti: Berretto Viola era il più socievole; Berretto Blu il meno; Berretto Verde pareva vivere in un mondo suo. Per i Nani del clan Cavapoggi quel posto era casa, ma per i regni degli Uomini quella era la “Malaterra” o, per il colore lì più diffuso, la “Rossa Malaterra”: un’estesa area sterile, butterata da colline brulle, alle falde settentrionali delle Montagne Blu.
Edh si voltò a guardare il suo compagno d’avventure, il massiccio mercenario corazzato che avanzava pesante dietro di lui. Edone avrebbe potuto essere suo padre per età, ma, guardando al resto, nessuno avrebbe mai potuto ingannarsi pensando ad una parentela: l’Uomo, robusto e sgraziato, non era basso, anzi, ma le sue proporzioni, le spalle troppo larghe e le braccia troppo lunghe, sembravano più quelle di un Nano, un robusto combattente voluto dal Dio della Guerra Khaene. Certo, se non si pensava ai gorilla: Edh ne aveva visto uno, anni prima in una gabbia a Kanedia, e si ritrovò a pensare che il paragone con la bestia avrebbe descritto meglio la forza del guerriero, decisamente oltre la media. Pure le mani parevano quelle del gorilla. Edone aveva qualcosa di ferale anche nell’aspetto, coi lunghi capelli ingrigiti e disordinati, la barba scarmigliata, e gli occhi neri severi, incassati sotto un unico folto sopracciglio. La sua figura, che già incuteva soggezione, pareva ancora più minacciosa per l’equipaggiamento: indossava usbergo e brigantina realizzati su misura e portava sulla schiena, oltre ad arco e frecce, un impressionante spadone dalla lama dorata.
«Questo deserto è deprimente», sbottò Edh, non venendogli in mente nulla di meglio per scambiare qualche battuta.
«Non hai mai visto il deserto, ragazzo», gli rispose lui serio. «Io l’ho visto. Te oggi non saresti pronto.»
In quella risposta il ragazzo riconobbe la nota di stanca tristezza che lo accompagnava da settimane, da quando aveva saputo della morte del mago, Emith-Frael.
Edh non aveva mai conosciuto il mago e ne aveva sentito parlare solo raramente e a mezza bocca. Uno screzio doveva aver allontanato i due anni prima, ma la notizia della sua morte aveva turbato Edone profondamente. Pareva fosse invecchiato di colpo, anche le grandi bevute e il costante scialacquio di denari in case di piacere erano terminati. Lui però non voleva parlarne ed Edh non insisteva.
Preannunciata da un falso colpo di tosse, sentirono la profonda voce del capobanda Nano in testa alla comitiva, nascosto sotto il suo vistoso cappello:
«Prima che gli Uomini proseguano nella loro discussione» disse senza voltarsi, «è giusto che sappiano che noi amiamo le Colline Ferrose e che non esistono nel continente giacimenti migliori. Comprendiamo però che la loro diversa fibra possa impedirgli di cogliere la bellezza di queste terre colorate, generose dei minerali più vari. Forse avrebbero preferito essere accolti dai nostri parenti lontani sulle spiagge assolate dei Tre Picchi».
Edone aggrottò l’unico sopracciglio ed Edh decise di zittirsi, nel timore di poter dire ancora la cosa sbagliata.
«Non manca ormai molto alla vostra meta», aggiunse Cappello Rosso. «A breve ci separeremo.»
Edone, già scuro in volto, ebbe un moto stizza e obiettò:
«Avete avuto la vostra paga in anticipo e manca almeno un altro giorno di marcia a Rahk’al-Duum!»
«Questo è vero: raggiungerete la città-fortezza perduta nel tardo pomeriggio di domani», confermò il Nano ancora senza voltarsi. «Ma, come da accordi, quando vi lasceremo sarete in vista delle rovine. Non potrete sbagliare.»
Edh ricordò il gioco di parole utilizzato da Cappello Rosso a Camaria. I Nani non erano soliti utilizzare trucchi del genere, pareva più una trovata da Gnomi. In ogni caso c’era poco da fare ed anche Edone sembrava aver accettato subito la cosa. Lo conosceva bene e sapeva che era già con la testa alla soluzione del problema. Lo serviva come scudiero da un paio d’anni e ormai erano legati da un’amicizia sincera. Edh non era però al corrente dei dettagli di quell’ennesima impresa, sebbene da giorni avesse cominciato a capire che non si trattava d’una semplice caccia al mostro. Non riuscì a non cercare conferma di quel che già aveva intuito:
«Amici Nani, cosa nascondono le rovine di Rahk’al-Duum per intimorirvi tanto?»
Cappello Rosso si fermò e così gli altri tre Nani. Finalmente si voltarono a guardare i due Uomini scambiandosi occhiate dubbiose, poi Berretto Viola chiese:
«Davvero ci avete chiesto di portarvi alle rovine di Rahk’al-Duum senza conoscerne la storia?»
I due Uomini restarono in silenzio, quindi Cappello Rosso gli raccontò i fatti, con sintesi didascalica:
«Sono trascorsi sette anni dalla caduta di Rahk’al-Duum. La città cadde in una sola notte, senza che alcun nemico la cingesse d’assedio. Due Draghi ne difendevano le porte e oggi si vedono biancheggiare le ossa d’uno di loro davanti ai cancelli. Sono state mandate più brigate ad indagare sul destino dei nostri parenti lontani, e nessuna ha fatto ritorno».
Edh pensava che ben poche sfide potessero impensierire una brigata nanica ben armata:
«E oggi? Di quali pericoli siete a conoscenza?»
«Diffidiamo delle nuvole scure nei dintorni, perché si dice che nascondano mostri alati», rispose berretto Viola.
Nonostante quelle notizie, il ragazzo vide che Edone era freddo e calmo, come se fosse preparato a quanto il Nano stava dicendo o il saperlo non potesse fare per lui differenza. Il guerriero si rivolse a tutte e quattro le guide:
«Ricordate gli anni prima della caduta?» chiese. «Avete avuto notizie di un mezzo Elfo che aveva chiesto ospitalità ai Signori di Rahk’al-Duum?»
Fu Berretto Verde a parlare:
«Un mezzo-Elfo, un mago: Amara Dreogon si chiamava, ma molti lo chiamavano semplicemente “Lo Stregone”».
Edone annuì e quello continuò:
«S’era diffusa voce della sua bravura come alchimista e speziale… Io lo ricordo perché Rahk’al-Duum era la casa dei parenti di mia moglie. Lasciai lì la mia famiglia, partendo per un breve viaggio, ed al ritorno non trovai nulla».
«Sarà morto con tutti gli altri», intervenne Berretto Blu. «La vostra spedizione riguarda lui?»
«Lui e le sue opere», rispose Edone.
Edh cercò di memorizzare ogni parola che sentiva.
«Se cercate tesori» continuò Berretto Blu, «forse dovreste fermarvi a riflettere se la vostra anima ne vale il prezzo: solo un Demone può aver portato tanta morte in una notte.»
«È il destino a fissare il prezzo: la mia anima è sul tavolo e non temo nulla», fu la risposta secca di Edone.
Una scintilla di fredda follia era balenata negli occhi del guerriero e i Nani parvero farsi di pietra per un istante. Poi Cappello Rosso riprese la marcia, accelerando il passo. Edh non faticò a capire che voleva liberarsi di loro il più presto possibile.
Nelle terre dimenticate
Dal 15° al 17° giorno di Grandesemina
Raggiunsero il bivio sul far della sera. Erano saliti sul dorso di una collina colorata e s’affacciavano su un’ampia vallata, segnata da profonde gole e guglie, picchi e pareti scavate da venti e pioggia. Era un labirinto di pietra policroma. Dall’altro lato della vallata, lontano ad est, vedevano delle rovine alle falde dei colli.
«Come faremo a non perderci in mezzo ai calanchi?» chiese Edh.
«Girandogli attorno», rispose secco Cappello Rosso. «Seguirete la strada che costeggia la valle a sud. La via tra i calanchi è più breve, ma nota a pochi, e noi non siamo tra questi.»
Edh guardò Edone. Sperava almeno in una sua battuta sagace, invece lo sguardo del guerriero si fissò nel suo:
«Non sei costretto a venire con me, giovane Edhar Manhak», gli disse guardandolo con occhi stanchi, chiamandolo nel modo con cui normalmente lo canzonava. «Puoi proseguire sulla strada per le Montagne Blu. Questa è una storia di maghi e Dèi.»
«Edone, io…» tentennò lui.
Non aveva mai visto il guerriero così: sicuro dell’ineluttabilità del destino, questo sì, e sempre pronto a fare quello che riteneva dovesse esser fatto, senza alcun dubbio, ma l’Uomo che aveva davanti era oltre, rassegnato.
Mentre i Nani li guardavano in attesa, Edh si scoprì preoccupato per lui:
«Da quanto tempo non parlavi con il mago?»
«Da troppo», rispose Edone. «Io ed Emith-Frael non ci siamo salutati da amici, anni fa… Ma lo eravamo, oltre ogni dubbio, anche se in un modo che te non puoi capire. Lui mi ha usato, in più d’un’occasione, senza mai tradirmi… Potrai capire solo se la tua strada dovesse incrociare un giorno quella d’un veggente, potente come era diventato lui: era l’amico più strano che si possa avere.»
Edh stette in silenzio per un istante, quindi chiese:
«E quale sarà il mio destino?»
«Qualsiasi scelta tu faccia, Aemagar già la conosce. Per questo ti dico di fare ciò che senti: tutto andrà come deve. Ti ho insegnato molto e sulle Montagne Blu non mancano occasioni di guadagno per te.»
Il ragazzo sussultò. Non era mai stato un cuor di leone né lo sarebbe diventato, anche perché non ambiva ad esserlo, però gli ultimi due anni avevano un significato per lui e non era pronto ad un addio. E poi a darsela a gambe avrebbe fatto in tempo anche più tardi. Seguì quindi cuore ed istinto e, nel balenio d’un pensiero, gli parve d’essersi già trovato lì, in quel preciso istante, e che anche per lui fosse previsto un ruolo nel disegno del destino.
«Io voglio venire con te», gli disse.
«Così sia.»
Quelle parole non erano suonate felici o infelici: Edone aveva accettato il fatto, in maniera quasi meccanica.
«Buon cammino, Figli di Iarai», sentirono augurargli i Nani, che si rimisero in marcia senza guardarsi alle spalle, come a volerli subito dimenticare.
Edh alzò lo sguardo verso Dinas O’ Bearth, la stella più luminosa dopo il Sole nel cielo diurno, e si chiese se quell’augurio avrebbe fatto sì che Iarai si curasse di loro nel suo sonno. Di certo c’era solo che il Dio Aemagar guardava il mondo da quella stessa stella… e conosceva quanto sarebbe accaduto in seguito.
Decisero di trascorrere la notte poco distanti dal bivio, senza accendere fuochi, facilmente visibili dalle rovine della città-fortezza nanica.
Mentre mangiavano carne secca, seduti sui loro sacchi a pelo, Edh cercò di passare la serata come ne avevano passate altre, tra una caccia ad un mostro e un imboscata a dei banditi, ma Edone non era dell’umore adatto. Ebbe la sensazione che Edone non fosse solo preparato alla morte, ma che dava il trapasso per scontato: ognuna delle sue poche parole suonava come un addio al mondo. Edh, dal canto suo, sapeva bene che Edone era un combattente capace: lo aveva visto affrontare schiere di briganti barbari, Orchi e Orchetti, e anche mostri come Arpie e Viverne.
«L’importante è non arrivare lì come agnelli al macello», disse d’un tratto, per vedere la sua reazione. «Se si dà per scontato di non poter sopravvivere si rischia di morire troppo presto.»
Edone annuì e sollevò il capo orgoglioso:
«Questo non accadrà: dovrà strapparmi alla vita a rischio della sua anima. Non vado nella tana del mostro rassegnato: vado pronto».
«Sì, deve essere una cosa lenta: godiamocela fino in fondo.»
Edone però non rise ed Edh, pur sapendo di non poterselo permettere, rischiò quasi di perdere la pazienza:
«Sono qui con te, non puoi far finta che ti faccia piacere? Ho deciso di restare, perché credo in te: non potresti vuotare il sacco ora che siamo finalmente soli?»
«Perdonami», brontolò l’altro, poi lo guardò prendendo il fiato. «Ti dirò quello che so: molto poco. Ho avuto una visione in sogno, frammenti d’eventi, e so che è stato Emith Frael ad inviarmeli. Credo lo abbia fatto in punto di morte. Aveva fatto una promessa, prima dell’ultimo diverbio: aveva detto che appena fossi stato pronto, mi avrebbe rivelato il mio ruolo nel disegno di Aemagar e come sarei morto. Il nome di Rahk’al-Duum sulla mappa a Kalinstad e i Nani che ci avrebbero fatto da guida: li avevo già visti in sogno. C’è stata anche una visione del passato, fumosa: un mezzo Elfo, un potente demonologo che ingannava la fiducia dei Nani, e un potere immenso, uno mostro d’ombra che si scatenava nella città-fortezza divorando chiunque, condannandolo all’oblio. E poi di nuovo il futuro, limpido: io che affronto l’oscurità informe e, infine, cado a terra sulla schiena, coperto del mio sangue, con lo sguardo fisso e le lacrime che segnano le mie guance…»
Edh si grattò il capo e gli chiese:
«E non si può cambiare?»
Edone rilassò il faccione con un sorriso da maestro paziente:
«Solo il destino mostra visioni così chiare. Il mago mi ha, ancora una volta, indicato la via più breve per la mia meta: affrontare la nemesi di Rahk’al-Duum».
Con il sorgere della Luna piena, il cielo si liberò della foschia. Illuminando il paesaggio come un faro, il candido disco di luce perlacea che era la casa di Tee-Kha, Madre dei Draghi, consentì agli Uomini di guardarsi intorno quasi come fosse giorno. Erano in territori abbandonati, che gli esseri umani avevano preferito dimenticare. Solo il frinire di un grillo gli dava l’impressione di non essere soli.
Entrambi svegli prima dell’alba, si mossero con passo veloce. Il tratturo che percorrevano era in più punti scavato nelle pareti colorate che circondavano la valle del labirinto di calanchi.
Nel primo pomeriggio, quando la strada incominciava a scendere marcatamente, giunsero finalmente ad avere una vista chiara dei quartieri all’aperto di Rahk’al-Duum. Si fermarono ad osservare l’area, immaginando la passata grandiosità della città-fortezza nanica.
Intagliato in un’alta parete rocciosa incassata tra le falde delle colline, al termine d’uno stretto pianoro, si vedeva il maestoso portale di pietra scolpita della città sotterranea e, davanti ad esso, v’erano palazzi, piazzali e colonnati in rovina, protetti da quanto rimaneva delle fortificazioni poste all’accesso della valle. Quelli erano i resti del ricco mercato all’aperto e degli alloggiamenti della guarnigione. Le mura esterne, benché robuste, mostravano crepe e crolli che parevano il risultato di ben più di sette anni d’abbandono. Invece le due torri a guardia dell’unico varco, largo una trentina di braccia, s’ergevano fiere. Sembravano ancora pronte a sostenere il grandioso cancello di metallo che un tempo chiudeva l’accesso, ma esso giaceva abbattuto, ad arrugginire tra le erbacce. Diversi massi biancastri, che stonavano con le rocce del paesaggio e la pietra delle costruzioni, stavano davanti all’apertura. Compresero che erano le ossa del Drago di cui gli avevano parlato i Nani, un Guardiano morto mentre difendeva la città.
Avanzarono per un’altra ora, poi s’arrampicarono tra rocce e sterpi e s’appostarono su una cresta rocciosa, poche braccia sopra il sentiero. Si rivelò un ottimo punto d’osservazione, che li avrebbe nascosti anche agli occhi d’eventuali viaggiatori che si fossero mossi sul loro stesso percorso.
Iniziarono a scrutare l’area con attenzione, ma non scorsero nessun movimento tra le rovine o nei pressi del cancello abbattuto. Non v’era traccia di vita che si vedesse, ma Edone ed Edhar avevano la pazienza di cacciatori ed attesero. Quando giunse il tramonto, decisero che avrebbero aspettato l’alba dell’indomani, sia per osservare eventuali luci e movimenti notturni che per essere freschi e pronti allo scontro. Avrebbero dormito alternandosi come la notte precedente, sgranocchiando carne secca.
Il disco candido ed immacolato della Luna piena illuminò di nuovo la notte tersa, consentendo agli occhi acuti dei due Uomini di spaziare sull’intero paesaggio. I fianchi dei calanchi e gli spogli dirupi d’alcune alture, che erano durante il giorno colorati di policrome tinte pastello, con il buio avevano tutte le sfumature dell’indaco.
Edone credeva che Edh dormisse quando decise di distogliere lo sguardo dalla vallata e dai dintorni per pochi minuti. Con le dita, prese a scavare una piccola buca nel terreno polveroso, profonda un pollice. Restò lì a guardarla per un istante, poi vi versò un sorso dalla sua piccola borraccia di liquore d’anice, che centellinava ogni sera. Sottovoce disse:
«A te, Emith: che possa raggiungerti sottoterra».
Quindi ricoprì la minuscola fossa. Edh lo aveva osservato in silenzio. A parte sparuti rovi e cardi mossi dal vento, nient’altro pareva muoversi. Neppure un grillo tenne loro compagnia.
All’alba, inatteso, scorsero un filo di fumo salire tra le colline alle loro spalle, sulla via da dove erano venuti. Se durante la notte era stato acceso un fuoco, i crinali dovevano averlo nascosto alla loro vista, ma il fumo era evidente. Edh commentò:
«Sembra che vi sia chi affronta questa strada senza paura di farsi notare…»
«Già. Credo che la nostra attesa stia per dare i suoi frutti», convenne Edone.
Occorsero poco più di due ore, poi comparvero cinque figure incappucciate con sai amaranto. In pochi minuti sarebbero passati sotto il loro nascondiglio. Edh guardò Edone e gli chiese:
«Nella tua visione, di che colore erano le tue vesti mentre affrontavi il “mostro d’ombra”?»
Edone cercò di ricordare, poi un sorriso famelico gli si aprì sul volto:
«Brandelli amaranto».
I cinque parevano pellegrini in viaggio e avanzavano chiacchierando, ritenendosi al sicuro da qualsiasi minaccia. Da voci e mosse, non dovevano essere giovani. Quando si trovarono sotto la cresta, il primo della fila cadde colpito da una freccia, seguito dopo un istante da quello in coda. I tre superstiti si guardarono intorno tremanti, poi furono abbattuti dal peso dei due assalitori, che gli si erano lanciati addosso. I colpi d’un pugnale d’argento e d’uno spadone con la lama illuminata di luce viola li finirono. Poi la luce dell’arma s’affievolì, spegnendosi quando tutti erano finalmente cadaveri.
Edh non era abituato ad uccidere altri esseri umani, ma non aveva esitato:
«Mezzi Demoni e traditori del sangue di Iarai», disse sputando a terra. «Se la lama di Sethethi non ci avesse rivelato cosa eravate, sareste ancora vivi.»
I volti ed i corpi erano umani, di gente comune, forse kalinstadiani o kanediani, ma lo spadone di Edone non poteva sbagliare e aveva rivelato che i loro cuori mortali erano stati donati agli spiriti corruttori di Demoni. Le due vipere di bronzo, con occhi di rubino, che s’attorcigliavano a formare il manico di Sethethi parevano vive, dividendosi per creare la guardia e poi voltandosi a guardarsi, in un rompilama. Era un’arma di fattura eccezionale.
«Aiutami a spogliarli e nasconderli», chiese Edone mentre ringuainava la spada incantata.
Di nuovo attesero la notte, poi, in vesti da pellegrini ma furtivi ed accorti, ripresero la strada verso la città-fortezza. Discesero nel pianoro senza trovare ostacoli o riconoscere minacce ed avanzarono così fino alle ossa del Drago. Si fermarono giusto il tempo per chiedersi cosa lo avesse ucciso. Molti erano i Draghi che, a conferma della loro fedeltà ai Giusti Dèi, giuravano obbedienza a monarchi per difendere i loro regni, ed erano creature potenti sia per stazza che per padronanza d’arti magiche. Quello di cui vedevano i resti sbiancati doveva essere alto al garrese dieci braccia e il suo cranio semisepolto era lungo tre.
Superate le mura esterne si fecero ancor più cauti. Dopo poco però, Edone s’avvide d’uno strano fenomeno che non aveva notato prima: nel cielo terso, una piccola nuvola scura si muoveva sopra di loro e sembrava seguirli. Si bloccò indicandola ad Edh e lui capì subito che non significava nulla di buono. Ciononostante non estrassero le armi e rimasero composti, mettendosi in attesa.
La nuvola calò veloce di fronte a loro e sembrò acquistare massa e solidità, tanto che tocco terra con un tonfo. Due luminosi occhi azzurri li guardarono tra le volute fosche, che si addensarono nella forma d’ali nere membranose e d’un corpo d’ossidiana delle dimensioni e fattezze d’un grosso cane, ma con un collo da cigno sormontato da una testa ornata da corna e creste. Era un mostro d’ombra rappresa che aveva le forme d’un Drago, sebbene non potesse esserlo. Edone ed Edh erano basiti: s’aspettavano il trucco di qualche mago, ma non quello. L’essere gli parlò con una voce profonda e rauca:
«Benvenuti novizi», e poi aggiunse chiosando vanesio: «Avete di fronte a voi Arasulazure, della prima generazione dei Draghi Neri, figlio del Glandraug Aphofargaùd, detto Il Nero, e Selanamat La Redenta. Così ha voluto Amara Dreogon, che voi adorate e servite».
I due rimasero in silenzio. Era dunque possibile che un demonologo avesse tanto potere da corrompere il sangue dei Draghi, tra le creature più potenti volute da Iarai? L’abominio di scaglie d’ossidiana che avevano di fronte era certamente molto giovane, e non aveva avuto il tempo d’accelerare la crescita divorando quanto più poteva, per questo non doveva essere in grado di leggergli nella mente e padroneggiare incantesimi. Si sarebbe comunque potuto rivelare un avversario potente.
«Siete pellegrini strani, diversi dai soliti», iniziò a dire il mostro. «Siete ben armati, sotto le vostre vesti…»
Mentre Edh restava imbambolato, iniziando a sentire il sudore colargli lungo la schiena, Edone rispose quasi ringhiando:
«V’attendete solo villici o topi di biblioteca come accoliti? Non sono graditi combattenti? Con rispetto ai Demoni cui abbiamo donato i cuori, facci strada, Arasulazure».
E quello si mosse senza replicare, forse serbando rancore, ma obbediente. I due gli si misero ai fianchi, scrutando il cielo in cerca d’altre nuvole e pronte a colpire. Appena si sentirono sicuri, tra le rovine d’un colonnato coperto, colpirono. Edone si buttò di peso sulla bestia, stringendole il collo tra le manacce e bloccandola a terra, mentre Edh, rapido, colpiva più e più volte con il pugnale d’argento, spesso respinto dalle scaglie robuste. Ci volle tutta la forza del guerriero per torcere il collo del mostro impedendogli di ringhiare o soffiare, mentre gli artigli gli riducevano a brandelli le vesti e rovinavano l’usbergo. Edh perse il conto delle pugnalate, riuscendo infine a infilzarlo al collo. In pochi istanti la vita abbandonò il Drago Nero, fluendo via con il sangue violaceo. Edone, con odio, schiantò la testa del mostro sotto una pietra. Era ferito solo superficialmente, ma carico di rabbia. Edh si scosse con un brivido:
«Se questo era uno dei lacchè all’ingresso, che mostri potremo trovare dentro?»
«Selanamat è un nome da Drago», gli rispose Edone risistemandosi i brandelli del saio. «Quindi almeno una femmina di Drago adulta. E poi c’è “Il Nero”, il nome non lo ricordo, che non sappiamo cosa sia ma escludo che sia un Drago, vista la progenie.»
«Ha detto di essere “figlio del Glandraug Aphofargaùd”, ti viene in mente nulla?»
«No… ma presto scopriremo di cosa si tratta.»
Il guerriero era deciso ad andare avanti.
Proseguirono tra le costruzioni dirute fino al grandioso portale scolpito della città sotterranea, alto più di trenta braccia. Lo ornavano grandi lastre d’alabastro ambrato, con altorilievi raffiguranti Nani a grandezza naturale, disposte in dieci fasce separate da travature d’acciaio. Per tutta l’altezza dell’impressionante opera, le figure rappresentate gioivano del benessere e della ricchezza della città-fortezza. Alla base del portale, dissimulata tra i Nani danzanti nell’altorilievo, v’era una porta di dimensioni comuni. Era socchiusa e l’attraversarono guardinghi, senza che niente o nessuno li ostacolasse.
Il nero sotto le colline colorate
17° giorno di Grandesemina
Torciere di ferro battuto illuminavano tenuemente un lato dell’ampia via principale che s’apriva oltre il portale, lasciando l’altro perso nell’oscurità. La via li portò ad un grande ambiente di cui non si vedeva la volta rocciosa, dove s’ergevano case e palazzi costruiti come se fossero stati all’aperto. Lì si divideva subito nelle stradine e nei vicoli rischiarati da torce di quello strano borgo sotterraneo, che pareva abitato almeno in parte, perché v’erano luci alle finestre di alcune costruzioni.
S’inoltrarono in quel primo quartiere profondo, sicuramente dimora dei mercanti Nani più facoltosi, immaginandone la vita passata. Non era facile orientarsi in quei meandri e presto non furono più sicuri della loro direzione. D’un tratto, un brusio davanti a loro li spinse a schiacciarsi contro una parete. Per evitare d’esser visti, decisero di salire la scalinata d’un palazzo che pareva abbandonato, nascondendosi dietro al portone malandato. Videro passare una dozzina d’esseri umani in sai amaranto, probabilmente non tutti Uomini, che parlavano e scherzavano tra loro. La lama di Sethethi emanava di nuovo una tenue luce viola.
Edone ed Edh si mossero per cercare un posto nascosto da cui osservare cosa stava accadendo. Giunti al parapetto d’un terrazzamento, s’affacciarono su una piazza tondeggiante cinta, dal loro stesso lato, da ricchi palazzi più o meno malmessi, e dall’altro dalla parete della grossa caverna. Lì s’apriva il passaggio per i quartieri più profondi della cittadina, un arco alto trenta e più braccia che dava sul nero assoluto. Cinque bracieri erano posti a chiudere un cerchio di fronte all’antro oscuro, come a delimitare la platea d’un teatro di fronte alla scena. Lì stavano seduti sul pavimento di pietra una trentina d’accoliti del culto, presto raggiunti dalla dozzina che aveva quasi scoperto gli intrusi. Erano un pubblico ridotto rispetto allo spazio, che avrebbe potuto ospitarne molti di più. Tutti guardavano verso il buio assoluto del varco per la città profonda e, quando si quietarono, si levò una tenue sinfonia di flauti.
In un primo momento Edone ed Edh non riuscirono a scoprire la provenienza della musica. Avevano cercato di individuare quali delle figure sedute nello spiazzo tenesse uno strumento tra le mani, poi, finalmente, videro i suonatori: stavano intorno alla zona illuminata, quattro grosse chiazze amorfe più scure nel buio oltre la luce dei bracieri, vicine al bordo dello spiazzo. Una di loro era spaventosamente vicina, sotto il terrazzamento dove erano appostati, e certamente una qualche magia doveva giocare con le luci di quell’ambiente, perché le fiamme dei bracieri parevano aver la forza d’illuminare solo in direzione degli accoliti, lasciando in ombra le mostruosità flautanti e le mura degli edifici che chiudevano la piazza. La Spada delle due Vipere brillava di una luce viola fortissima, tanto da non consentire di fissarla. Edhar non l’aveva mai vista brillare così.
«Veri Demoni…» commentò Edone.
«Che facciamo?»
«Vediamo chi o cosa aspettano.»
Non passarono che pochi istanti, poi sentirono un muggito e videro altri tre adepti in sai amaranto trascinare con forza una vacca bianca e smunta nel cerchio di luce. L’animale muggiva terrorizzato, ma non aveva la forza d’opporsi. Mentre i tre la portavano subito davanti all’apertura, legandola per la cavezza ad un anello di ferro infisso nella pavimentazione, una quarta figura si fece avanti seguendoli. Indossava una tunica amaranto, una stola nera ricamata d’argento ed era l’unico a volto scoperto. Era un Uomo corpulento, con il cranio ed il volto totalmente glabri e con la pelle ingrigita.
A quel punto tutti gli adoratori dei Demoni iniziarono a cantilenare una nenia inquietante, accordata all’alienate flautare dei mostri d’ombra. La figura in tunica avanzò e si pose di fronte all’antro, a pochi passi dalla vacca, pronta per il sacrificio.
Si levarono le braccia del sacerdote alla nera volta della caverna e s’udirono le sue parole:
«Oh Aphofargaùd, glorioso Glandraug, tu che con il sorgere del Sole Nero mostrerai le scaglie d’opale azzurra e le corna di sangue, tu che hai posto il seme dei divoratori di Uomini che saranno l’infamia di Tee-Kha, tu che sulla groppa condurrai Amara Dreogon Il Liberatore, La Bilancia che riporterà equilibrio restituendoci ciò che ci fu tolto, noi ti preghiamo: vieni a noi e nutriti del Creato, assimilane la natura e fai un altro passo dall’Oblio verso la realtà che vi fu negata, giacché la guerra s’avvicina e tu dovrai esser pronto».
In risposta alle parole del sacerdote, l’oscurità dentro il grande arco parve animarsi ed una zampa amorfa calcò la pietra della piazza, e le luci dei bracieri non riuscivano ad illuminarla, come fosse priva di profondità e non più spessa dell’ombra su un muro. La mucca muggiva disperata, al limite dello spasimo.
Entrambi gli osservatori, impreparati ad una simile scena, erano stupefatti ed intimoriti. Un brivido gelato percorse le loro schiene, mentre la forma gigantesca, alta forse venti braccia, si delineava ed avanzava, sembrando uno strappo nel tessuto stesso della realtà. Intuirono che stava su quattro zampe, aveva due grandi ali ed un lungo collo con sopra una testa cornuta. Non aveva occhi che si vedessero.
L’ombra calò il capo mostrando il profilo d’una bocca che s’apriva. La mucca scalciava e cercava di liberarsi, ma il mostro ne troncò i quarti posteriori con un morso, subito svaniti nel nero. Poi, prima di divorare il resto, parve aspettare per godere degli ultimi istanti di sofferenza e cieco terrore della bestia, di cui sangue ed interiora si spandevano a terra.
Edh era terreo e sentiva mancargli il fiato, sovrastato dall’aura di paura arcana del gigantesco Demone. Allungò la mano a toccare la lama di Sethethi, che Edone già impugnava con sicurezza, e si riebbe. Edone assisteva invece alla scena torvo, aggrottando il folto sopracciglio:
«Ecco il mostro: la nemesi di Rahk’al-Duum».
«Dovremmo aspettare Edone: non sappiamo se vi siano altri pericoli, né cosa nasconda la parte profonda della città. Potrebbero esservi prigionieri.»
«No Edahr: non c’è nessun altro», rispose il guerriero con lo sguardo perso. «Ha divorato tutto: i Nani, le loro provviste, i loro armenti… anche la compagna che aveva sottomesso. Dopo che ella aveva deposto le uova della prima generazione di Draghi Neri, l’ha assalita e squartata, nutrendo con la sua carne se stesso e i suoi figli: è stata questa la redenzione di Selanamat. E quegli abomini sono ora le nuvole nere che s’addensano sul futuro dei Sette Regni della valle del Faudyvia, mentre le parole d’Amara Dreogon si diffondono come vento freddo, avvelenando i cuori di tutti i popoli del nord.»
Edh scosse la testa guardandolo confuso:
«Come lo sai?»
Il guerriero era innaturalmente calmo e freddo:
«Non so spiegarlo… ma ne sono certo come se l’avessi visto. E devo andare adesso: accade ora».
Il ragazzo rifletté un istante, poi disse:
«Quindi questo è l’ultimo atto: Edone compirà l’ultima volontà di Emith-Frael».
Il guerriero annuì:
«È quello che devo fare: forse era già scritto prima che mia madre mi scodellasse sul pavimento del bordello, o prima che lei e quel cane ignoto di mio padre nascessero. Gli Dèi hanno pensieri lunghi secoli».
Edh aveva un groppo in gola, ma impugnò pronto l’arco:
«Ti aiuterò come potrò da qui».
Il volto di Edone s’addolci e gli sorrise:
«Tu non sei nella mia visione Edh: va’ via appena puoi, non unirti al mio destino».
«Me la darò a gambe quando non ci sarà altro da fare», promise il ragazzo.
Poi Edh iniziò ad estrarre le frecce speciali, con ampolle colorate o strane pietre al posto delle punte, disponendosele al fianco per averle tutte a portata.
Il sacerdote era in piedi dinanzi all’ombra ed allo scempio che essa aveva fatto del sacrificio offertole, estasiato. Lui e gli altri adoratori si preparavano ad una nuova lode al Glandraug, quando il fuoco esplose.
Le prime due frecce esplosive Edh le aveva scoccate assieme, senza troppo curarsi della precisione, mirando al mucchio. Un boato rimbombò nelle viscere della montagna, mentre gli eretici ricadevano in pezzi o scappavano in fiamme urlando. Se il mostro d’ombra aveva subito ferite non lo diede a vedere, né il fuoco l’aveva avvolto. Edh comunque non se ne curò ed incoccò la prima freccia con la pietra rossa ed un sacchettino sulla punta.
Edone prese la rincorsa e si lanciò dal terrazzamento noncurante della quindicina di braccia che lo separavano dal suolo. La lama di Sethethi lampeggiò mulinando e affondò con facilità nel corpo gelatinoso ed umido del Demone suonatore di flauto più vicino, caricata di tutto il peso del guerriero. Quando il guerriero toccò terra, l’abominio amorfo era stato squarciato per tutta la sua altezza.
Le frecce di fosforo e polvere d’argento donarono una morte di candida luce e dolore ad altri due Demoni suonatori. Edh faceva in modo che Edone non dovesse preoccuparsi d’altro se non del Glandraug, e lo vedeva avanzare verso l’abominio scansando o finendo gli eretici con la spada. Aphofargaùd pareva attenderlo.
E forse Aphofargaùd era a sua volta simile ai Draghi voluti da Iarai, o forse ne aveva preso abbozzate fattezze e poteri divorando le carni della Figlia di Tee-Kha, Selanamat, sta di fatto che ne mostrò i poteri, quando il suo soffio nero divampò, vaporizzando ciò che restava dei cadaveri nella piazza. Edone lo schivò con una capriola e caricò, tenendo alta la luce viola del suo spadone.
Edh continuava ad incoccare e tirare frecce, ma ormai nulla più minacciava di disturbare il duello tra il guerriero Uomo e il campione del Tartaro. Anche l’ultimo suonatore di flauto era vinto, crivellato di frecce d’argento, e giaceva morente in una chiazza d’icore bluastro che s’allargava. Aphofargaùd pareva invece non accorgersi neppure delle frecce che lo colpivano.
Edone avanzò sicuro e tornò con la mente ad Emith-Frael, l’amico perso proprio a causa degli abomini del Tartaro. Odiò il suo avversario con tutto il cuore e non ne ebbe paura, perché era pronto a tutto pur di ferirlo e farlo soffrire, e non si curò del fatto che quello scontro fosse o meno alla portata d’un mortale. Il suo istinto di combattente fluì dai nervi ai muscoli naturalmente e, abbandonandosi alla battaglia, ogni suo gesto pareva già scritto ed incontrastabile.
Scartò una zampata e colpì con un ampio fendente di lato, come un tagliaboschi ch’affondasse la propria ascia nel tronco d’una quercia secolare. La lama penetrò incontrando forte resistenza, dimostrando che l’essere aveva una sua massa, e si vide uno schizzo di sangue blu accompagnato da puzzo di bruciato. Il tronco si ritirò, ma non un ringhio o un rumore uscirono dalle fauci del Glandraug, la cui capacità d’emetter suoni doveva essere ancora imprigionata nell’Oblio del Tartaro, come il colore e la profondità delle sue forme.
Edhar assisteva immobile e incredulo, vedendo il guerriero spostarsi con decisione e agilità, muovendo il corpo ad accompagnare la lunga lama di luce quasi fossero tutt’uno, in piroette, scarti e salti. Lo aveva sempre considerato un grande combattente, ma mai aveva visto eleganza e grazia nei suoi movimenti. Eppure lì Edone si batteva con la veloce armoniosità d’un guerriero danzante di Sysua: le zampe artigliate d’Aphofargaùd calavano e spazzavano senza colpirlo, mentre Sethethi fendeva, infilzava, affondava.
«Pare proprio sia questo lo scontro del tuo destino, amico mio», affermò Edhar con ammirazione.
Pian piano l’arciere s’accorse di poter distinguere le ferite del Demone, perché la sua carne carbonizzata era visibile come macchie tra le ombre, e tornò ad incoccare una freccia d’argento.
La lunga coda di Aphofargaùd si rivelò e sferzò l’aria come una frusta. Edone ancora schivò e scartando riuscì a ferirlo profondamente ad una zampa posteriore, che cedette. Il Glandraug s’abbassò e uno squarcio gli segnò il fianco, per tre braccia di lunghezza. Nel silenzioso moto di dolore che ebbe dopo, finalmente colpì Edone con il dorso d’una zampa, scagliandolo a terra. Poi si sollevò, di nuovo pronto al soffio.
La freccia d’argento di Edh giunse appena in tempo, conficcandosi a fondo nella carne già martoria del fianco del mostro. La coda d’Aphofargaùd si mosse battendo la piazza e sollevando schegge di pietra che volarono verso il terrazzamento. Edh si protesse dalle prime accucciandosi dietro la balaustra, ma la parabola d’una delle più pesanti terminò sfiorandogli la fronte. Il giovane cadde a terra esanime. Aphofargaùd tornò a volgere il muso verso il guerriero con la spada incantata appena in tempo per vederlo di nuovo in piedi, sotto di lui, che gli affondava la lama nel ventre fino all’elsa.
Edone usò tutta la sua forza per muovere la lama dentro le carni della bestia, lacerando e squarciando, finché essa si ritrasse con un spasmo ed un potente colpo d’ali. Impazzita di dolore, cozzò contro il soffitto dell’ambiente e ricadde pesantemente a terra. Lì fu finita dall’Uomo con un colpo alla gola e, dopo brevi spasmi e tremiti, scomparve, risucchiata nell’Oblio come un velo attraverso un foro.
Poi il guerriero cadde a terra come un corpo morto, stremato, e lì giacque mentre la luce di Sethethi si spegneva e quella dei bracieri riprendeva vigore. Conscio della vittoria, si preparò a pagarne il prezzo, mentre le lacrime gli riempivano gli occhi.
Eppure non morì. Edone era sì ferito, e il suo sangue bagnava i basoli della piazza, ma le sue ferite erano superficiali. I suoi occhi erano fissi all’oscurità che nascondeva la volta della caverna e, quando realizzò che non sarebbe morto, con la mente tornò indietro nel tempo e cercò un perché. Pensò che quello che aveva creduto essere il suo destino doveva essergli stato negato, anche se lo aveva accettato come ultimo glorioso atto d’onore d’una vita che non gli aveva dato molto, se non la possibilità di distinguersi come combattente. Si sentì smarrito e le lacrime che già segnavano le sue guance si fecero amare. Mentre il respiro si calmava, ripensava ad Emith-Frael chiedendosi se lui gli avesse mentito e perché. Passarono forse ore, poi si rese conto di non essere solo.
Ancora esausto a terra, alzò la testa per guardarsi intorno. Così vide la Gatta calico, che l’osservava a un passo di distanza. Dopo lo stupore, il suo cuore si strusse nel riconoscerla: Frenia, l’antica compagna di Emith-Frael gli era a fianco. Mentre lui la guardava, lei gli saltò dolcemente sul petto, iniziando a leccargli amorevolmente le ferite.
«Frenia, cosa ci fai qui?»
Le aveva parlato più volte in passato e sapeva che lei poteva capirlo, ma solo il mago era stato in grado di connettersi con la mente del suo famiglio. O almeno così pensava, perché d’un tratto percepì la mente e la volontà della Gatta. Sentì chiaramente l’affetto di lei, mentre i suoi pensieri, animali ed istintivi, si fecero parole che poteva comprendere, che gli risuonarono nella testa con la voce d’un’anziana istitutrice:
«Emith-Frael ci ha mandato. Siamo qui per proteggerti».
Solo allora s’avvide della moltitudine di Gatti che li circondavano: erano centinaia, forse migliaia, ed erano rossi, bianchi, neri, grigi, a macchie, a pelo lungo o corto. Stavano nella piazza alla luce dei bracieri e ancora oltre, cerchio dopo cerchio, e tutti lo fissavano.
«Siete tantissimi.»
Frenia gli comunicò la determinazione e la sicurezza d’una cacciatrice esperta a capo del suo branco:
«Abbastanza per affrontare gravi minacce».
«È così dunque: la guerra s’avvicina», le disse.
La Gatta lo guardò con rispetto:
«No Edone: abbattendo Aphofargaùd, tu l’hai allontanata, ma le schiere dei Gatti sono pronte. Ora occorrerà tempo, più della vita d’un comune Gatto, prima dell’avvento degli eroi che il veggente aspetta. Nel frattempo Emith-Frael avrà bisogno del tuo aiuto. Noi ci muoveremo tra le ombre».
«Lui… È vivo?»
Felicità:
«Sì.»
Edone aveva ancora tanti dubbi e domande: ne aveva sempre quando c’era di mezzo il veggente. Ma si lasciò vincere dalla stanchezza e cadde nel sonno, perché, riconobbe, era contento d’essere stato ingannato ancora una volta.
Edh finalmente si riebbe, con la sensazione che il cervello gli pulsasse contro il cranio cercando d’uscire. Portò una mano alla fronte e s’avvide del sangue mezzo rappreso che gli bagnava il viso e i capelli. Impiegò qualche tempo a ricordare tutto quanto era accaduto nell’ultimo giorno e si sentiva confuso. S’alzò lentamente, battendo le vertigini, e s’affacciò alla balaustra del terrazzamento.
Dapprincipio pensò d’avere le traveggole, poi mise meglio a fuoco. Edone era a terra, esamine e sporco di sangue come aveva predetto, ma null’altro di ciò che Edh vedeva, inaspettato ed inimmaginabile, aveva per lui senso. Sul petto del guerriero stava un Gatto con macchie bianche, nere e ruggine e, tutto intorno, in cerchi concentrici, centinaia e centinaia d’altri Gatti sedevano immobili, alcuni illuminati dai bracieri ed altri come ombre oltre la loro luce. Le piccole creature non distoglievano lo sguardo da Edone e tutto pareva sotto l’influsso d’un incantesimo, tale era il silenzio. Non v’era alcuna traccia del gigantesco mostro fatto d’oscurità.
La mente di Edhar a quel punto vacillò, perché troppe cose strane si raccontavano sui Gatti e la superstizione ne parlava come d’esseri malvagi, mossi da scopi misteriosi. Certamente mai nessuno aveva visto tanti di quei mostriciattoli tutti assieme o era vissuto per raccontarlo. Ma il ragazzo non perse il senno e, mentre una lacrima gli scorreva s’una guancia, sussurrò in direzione dell’amico e maestro:
«Ti saluto Edone, avrei voluto che il tempo passato insieme fosse stato più lungo. Tutti sapranno che sei morto con onore, affrontando gl’incantesimi più terribili».
E detto questo scappò via senza far rumore, senza più guardarsi indietro, e non si fermò se non dopo ore di marcia, quando era certo che la strada tra lui e le rovine di Rahk’al-Duum bastasse a scoraggiare un inseguitore, sia che avesse gambe, zampe o ali.
“Siamo ingranaggi d’un meccanismo più grande, di cui è difficile immaginare ogni movimento. Ma in questo ordine siamo pur sempre esseri umani, mossi da sentimenti e pulsioni. È impressionante capire come sia l’irrazionalità che regge i nostri destini. Forse il destino non si può vedere con la mente, forse sì può intuirlo con il cuore. Se così fosse, tutti dovrebbero riconoscere un peso alla fede in ogni sua forma.”
Da “Domande sul Destino”,
appunti del Maestro di Studi Emith-Frael dell’anno 786.
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