Spada, Stregoneria e Cinema – Le Fatiche di Ercole (1958) / Ercole e La Regina di Lidia (1959)

Una donna perde il controllo della biga ma per sua fortuna un uomo giunge in suo soccorso. I due si presentano tra uno sguardo seducente e l’altro: la donna è Iole (Sylva Koscina) figlia del sovrano Pelia mentre il baldo giovane è Ercole (Steve Reeves), chiamato per rimettere in riga il riottoso fratello della bella appena conosciuta. La giovane però racconta anche di tristi morti e maledizioni che aleggiano sulla sua sempre più grigia città.

Pietro Francisci mescola con garbo le celebri Argonautiche di Apollonio Rodi con le 12 (anche se qui sono poco più di 4) fatiche di Ercole.

Dapprima avviene lo scontro col terribile Leone di Nemea, un ottimo gioco di montaggio tra Steve Reeves col pupazzo (molto realistico) e l’addestratore col suo leone. Poco dopo aver rinunciato alla sua aura divina ed essere al pari di qualunque altro mortale tocca al Toro di Creta vedersela con Eracle (anche qui un montaggio accorto tra animatrone/pupazzo e vero toro). Poi con Giasone e gli argonauti approda nel reame delle Amazzoni, dalle quali però fuggono data la ferrea legge che vieta loro di legarsi agli uomini (anche se non mi è sembrato che Ercole rubasse la cintura di Ippolita, una delle sue tante fatiche). Dopo di ciò i nostri sconfiggono una brutta serie di tangheri e il gigantesco rettile (gran bell’animatrone ad opera di Carlo Rambaldi e Mario Bava) a difesa del Vello D’Oro. In chiusura gli argonauti fanno giustizia presso la corte di Pelia con la celebre scena in cui Ercole tira giù le colonne dell’entrata del palazzo fermando i nemici.

Divertente il siparietto dell’addestramento in cui scoprirete i valori di Ercole ma soprattutto chi è il giovane “il cui fato è segnato dall’arco”.

La riuscita del film si deve sicuramente alle grandi maestranze che collaborarono alla visione di Francisci: dallo sceneggiatore, Ennio De Concini (nome ricorrente del genere e penna dietro a Divorzio all’Italiana di Pietro Germi), capace di divertire e infondere tensione nella trama molto fiabesca, al direttore della fotografia, Mario Bava (segnatevelo questo nome), che grazie allo splendido lavoro dello scenografo Flavio Mogherini tratteggia con grazia l’idilliaco scenario pastorale, le fredde mura della rocca, il mare azzurro e infinito senza nulla togliere alle scene presso l’oracolo con questi colori saturi, da pop-art, molto in voga in quegli anni. Come se non bastasse il buon Bava era a capo anche degli effetti speciali in coppia col giovane Carlo Rambaldi il cui lavoro oggi si è mantenuto su ottimi livelli nonostante tutto.

Questo primo film, costato sulle 180-200 milioni di lire (con cui pagavano giusto gli attori e la manovalanza, visto che gran parte dei costumi, delle attrezzature e degli scenari erano riciclati dai kolossal hollywoodiani che si facevano negli anni ’50 proprio a Cinecittà, la “Hollywood sul Tevere”), incassò 876 milioni e spiccioli diventando uno dei film più proficui dell’intero panorama cinematografico mondiale di quell’anno e in generale del decennio.

Il motivo è semplice: un film peplum raccontava favole ad un pubblico scarsamente acculturato, soprattutto giovane e dal palato facile in cerca di avventure fantastiche e prorompenti immagini erotiche, con buona pace dei parroci che gestivano tutte quelle sale improvvisate della periferia e del paesino sperduto che anche a distanza di anni ingrossavano le casse dei produttori, i quali reinvestivano i soldi in pellicole d’autore prima di buttarsi sul prossimo film commerciale dall’incasso assicurato. Era un’industria intelligente che faceva dell’arrabattarsi il suo cavallo di battaglia (riciclando sia manodopera, sia costumi e scenografie) senza però lesinare sul fascino dell’avventura o del messaggio culturalmente impegnato.

Visto il successo strepitoso di Francisci e compagni, la Galatea in coppia con la Lux Film rilancia l’anno dopo (1959) col seguito, meno avventuroso ma ben più erotico.

Ercole, la moglie Iole e il giovane Ulisse si recano a Tebe, adesso sotto la tirannia di Eteocle che ha rotto il patto di lasciare governare il fratello per l’anno successivo. Tira un’aria di guerra che solo Ercole può fermare…

Pietro Francisci e i suoi collaboratori ci riprovano e questa volta il regista romano mescola Edipo a Colono di Sofocle con I Sette di Tebe di Eschilo.

Il risultato però è inferiore rispetto al precedente lavoro perchè quasi tutta la vicenda si svolge presso la corte della bellissima e cattivissima Onfale (Sylvia Lopez) che seduce Ercole facendogli dimenticare ogni cosa grazie ad una portentosa acqua magica. Tolta una scena di lotta all’inizio dove il nostro se la vede con il gigante Anteo (un ormai vecchio e stanco Primo Carnera) che trae forza dalla Terra obbligando Ercole a buttarlo in mare, è solo sul finale che il nostro eroe flette i muscoli affrontando delle tigri, e diversi plotoni di uomini in una più che decente battaglia. Ma come detto la componente avventurosa qui latita parecchio (e si vede che sono state riciclate e montate alla meglio delle vecchie scene del precedente film, come si nota nel finale dove i costumi di Ercole e Iole sono identici a quelli della prima pellicola).

Tralasciando il fatto che in questa avventura troviamo fianco a fianco Ercole e Ulisse, delle tigri (felini nativi dell’Asia, regioni che l’Antica Grecia del mito neanche conosceva), decorazioni mesopotamiche in Grecia, vestiti dai colori fotonici e qualsivoglia altra crasi storico-mitica-culturale immaginabile (di cui il genere si è disinteressato fin dall’inizio esattamente come il suo pubblico di riferimento), il successo del film eguaglia quasi quello del primo, affermando la rinascita del genere peplum, il cui nome nasce presso i Cahiers du Cinema e riprende il nome-burla che aleggiava a Cinecittà “film coi sandaloni”.

Insomma questi due film di Ercole sono importanti a livello di storia del genere, in quanto mettono su pellicola quasi tutti i grandi temi che negli anni avrebbero inondato le sale di mezzo mondo, ma vi sono altri film ben più belli e culturalmente rilevanti che mi piacerebbe segnalare in questa rubrica, grazie anche all’incredibile lavoro di Vittorio Spinazzola e Goffredo Fofi, gli unici critici nostrani capaci di mettere ordine in questo magma di generi e stili e sottolineare i giusti meriti alle giuste opere.

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