
L’Associazione Culturale Italian Sword&Sorcery è orgogliosa di ospitare su Hyperborea il saggio del prof. Franco Zangrilli, docente alla The City University of New York, recante il titolo Max Gobbo e la riscrittura fantastica di un periodo rinascimentale, dedicato ad Alasia, romanzo di fantasia eroica mediterranea/sword and sorcery, scritto dal nostro socio Max Gobbo.
E’ bene sottolineare che il prof. Franco Zangrilli è un importante studioso di letteratura comparata italiana che ha pubblicato più di quaranta testi di critica sugli scrittori contemporanei. I suoi libri più recenti sono: Un mondo fuori chiave. Il fantastico in Pirandello; Dietro la maschera della scrittura. Saggio su Tabucchi; Il pianeta dei misteri. Il neofantastico in scrittori postmoderni. Dirige diverse collane di critica letteraria e di scrittura e ha vinto numerosi premi per il suo lavoro di critico.

Max Gobbo e la riscrittura fantastica di un periodo rinascimentale*
di Franco Zangrilli
*il saggio è stato pubblicato originariamente sulla rivista Italianistica Debreceniensis del 2017
Max Gobbo, Alasia, La Vergine di Ferro, Roma, Watson Edizioni, 2017, pagg. 202.
Oltre a collaborare su varie riviste cartacee e on line (“Andromeda”, “True Fantasy”, “Barbadillo”, “IF”, “Antarès” ecc.), Max Gobbo ha pubblicato diversi romanzi: Protocollo Genesi (2010), Capitan Acciaio, supereroe d’Italia (2011), una raccolta di racconti, Storie del Necronomicon (2016) e L’occhio di Krishna (2017).
La poetica della riscrittura dei modi fantastici di Max Gobbo si arricchisce con il romanzo Alasia. La Vergine di Ferro. Composto di sei capitoli intitolati, ma solo il quarto capitolo è suddiviso in sottocapitoli, il romanzo si evolve linearmente, anche se qua e là si avvale della tecnica del racconto nel racconto che concede ai personaggi secondari di narrare storie incredibili del loro passato che spesso è in relazione al presente individuale e collettivo, e del flashback teso a ricreare l’infanzia della protagonista Alasia piena di orrori e di incubi deliranti che la accompagnano durante la vita, specie per essere rimasta orfana. Narrato in terza persona, il romanzo dispiega una prosa nitida e scorrevole, ed è sostenuta da una lingua semplice, chiara, laconica, efficace a esprimere la complessità di un mondo di tenebre, nelle mani dei diavoli. Essa è pregna di suspense, di andirivieni, di evocazioni mitiche, come di momenti drammatici e di un’ironia umoristica multitonale. Sa farsi metonimica, mimetica, e finanche manieristica. E si intride di squarci lirici quando descrive la natura straordinaria di un gruppo di personaggi o di una serie di paesaggi, compresi quelli notturni e neogotici.
Il romanzo si svolge nell’Italia di un Cinquecento incredibile, soprattutto quello del Concilio di Trento e cioè della controriforma. Un periodo che ha ispirato l’immaginazione fantastica di una serie di scrittori postmoderni, dal Leonardo Sciascia de La strega e il capitano (1986) al Sergio Campailla, Divorati dal Dragone (2013)1, ad articolare un gioco serio che mescola la cronaca e la fantasia, la realtà e il mito, la storia e l’astorico; una parabola che mette a nudo un rigoroso revisionismo di un secolo passato che metaforizza la realtà contemporanea; una favola raccapricciante della storia dominata sempre dai demoni, non diversi da quelli dell’Inquisizione.
In Alasia questo periodo dà vita a uno scenario inquietante. Soprattutto perché accade un evento misterioso, orribile e più oscuro della Peste Nere: una torma di demoni invade il microcosmo italiano, accompagnati da mostri e vampiri immondi che popolano le notti cercando di nutrirsi del sangue delle persone di ogni età. Nessuno riesce a reagire all’avanzamento delle indomabili nefandezze, del male oscuro. Quando tutta l’umanità sembra scivolare nel seno della dannazione eterna, portentosamente si manifesta una forza morale che si schiera contro i fenomeni loschi, oscuri, mefistofelici. In questo humus si realizzano le avventure e le perizie di Alasia, presentando sempre più il clima di un fantastico neogotico. Una donna indomita ed ardita, una guerriera di alto valore, una giovane candida ed erculea, come implica il suo appellativo: “Vergine di ferro”. Come l’eroe classico, Alasia ha la protezione di uno o più dèi, una straordinaria potenza deifica e soprannaturale dalla sua parte. Simbolicamente vuol essere una messaggera protetta e prediletta dal Dio cristiano o dall’Allah musulmano (come suggerisce la coniazione neologistica del suo nome: Ala / che / sia), attorno alla quale si muove una schiera di personaggi appartenenti ad ordini cavallereschi, strani paladini, monaci guerrieri, individui misteriosi, tutti votati a sostenere o a cacciare gli eretici, i mostri, i seguaci di Satana.
L’apparizione di Alasia nella scena diegetica si fa un referente dell’archetipo della creatura meravigliosa, o se si vuole di Cristo, che porta la speranza e la salvazione. Nell’incipit questa sua apparizione viene preparata con la riscrittura dell’ambiente cliché della taverna popolata da persone rozze, gentaglia e malviventi che affogano nel vino, che sono ben armati e più feroci degli spettri maligni. Tra loro ci sono alcuni forestieri, e la coppia di un padre e una figlia. Mentre tre malandrini si apprestano ad angariare il padre e a molestare la giovane ragazza, a un tratto compare un personaggio misterioso con un mantello nero che blocca la loro azione, non diverso da quello delle favole di ogni tempo che interviene ad aiutare l’eroe in crisi: funzione esaminata con acribia dai testi di Propp2. Gradatamente il lettore scopre che il personaggio aiutante è una giovane donna mascherata da maschio, è Alasia vestita da guerriero, sempre munita di pistole e di spade che apportano rinascite, miracoli, come la soddisfazione che nasce dall’atto della vittoria, di fare o di farsi giustizia. Non mancano situazioni in cui la scoperta della sua identità femminile suscita stupori e meraviglie: “Ma voi siete una donna! […] Già una donna che se ne va in giro armata di tutto”3. Nella narrazione l’autore gioca a lungo, e in modo strategico, con le funzioni di questo personaggio aiutante e con il suo rivestimento del sesso opposto, intrecciando motivi fantastici dell’io che si sdoppia e si raddoppiato, dell’io maschile che in sé ha quello femminile e dell’io femminile che in sé ha quello maschile, dell’io che è un’essenza dell’ibridazione, e finanche dell’io che opera con segretezza e brama di tenere nascosto non solo la propria identità, spesso trascinato dal vortice del perenne mutamento.
Alasia è una creatura avvenente e coraggiosa, descritta spesso con una grande forza fisica che rispecchia quella dell’anima: “il volto d’un giovane bellissimo dai lineamenti perfetti e lo sguardo di ghiaccio. La sua era una figura snella, ma non priva di forza. I suoi muscoli […] guizzavano d’un’energia nervosa, inesauribile” (16). I suoi comportamenti possono essere eleganti e signorili, o possono essere brutali e letali. Con le sue funzioni l’autore riscrive il mito della donna avventuriera e bellicosa, disposta a qualsiasi tipo di battaglia che faccia annullare i fenomeni sinistri, le azioni dei personaggi diabolici e mostruosi purtroppo sempre presenti nei ritmi della vita quotidiana e della storia. Oltre a una riscrittura del mito della Superwoman(-Supergirl-Wonder women) che domina i filoni dei kitsch e delle avanguardie del mondo americano, dal cinema alla letteratura, alla pittura (pop culture, pulp fiction, trailer, action, fantasy, ecc.), Alasia è la compagine di miti differenti della donna guerriera che si rifanno alla mitologia greca; all’epica cavalleresca non solo di Boiardo, di Tasso, di Ariosto; all’identità degli eroi post-moderni quali Superman e Ironman; al mondo favoloso dei fumetti e alla realtà leggendaria del personaggio del Far West. Nella taverna Alasia dapprima spaventa e poi fa fuori i tre bricconi:
prima che potesse levare il suo ferro uno dei delinquenti le era già addosso e con un calcio alla mano le fece volar via l’arma […] I tre ceffi le si lanciarono contro all’unisono cercando di pugnalarla. Ma la giovane era scaltra e si sarebbe detto esperta a ogni tipo di duello […] La donna lo aveva precedentemente ferito con la spada. Il malvivente cadde al suolo con la gola aperta […] La donna mise le mani sulle pistole che aveva infilate nella fusciacca. Il terzo avversario si paralizzò preparandosi a ricevere una palla in petto. (20-21)
Appena uscita dalla taverna, Alasia è assalita da quattro creature nere, demoniche, tanto fameliche che la similitudine evidenzia la loro voglia di sbranarla: “s’accostarono alla ragazza circondandola come una muta di cani braccanti una volpe. L’aspetto di quegli esseri era ripugnante e spaventoso ad un tempo. Volti di morte, sguardi crudeli e taglienti da sciacalli, denti acuminati come pugnali a fuoriuscire dalle bocche distorte in una smorfia diabolica” (22). Sono creature che appartengono al regno dei vampiri mostruosi. Regno che impastato ad altre componenti del fantastico, crea una marcata dimensione neogotica. In una lotta modellata sulla falsariga dei canoni dei duelli cavallereschi, due di essi assalgono Alasia, dando luce a uno scontro feroce, ma vengono eliminati dal fucile della Superwoman, e si “afflosciano in terra come immondi burattini privati di fili” (23). Nel romanzo ritornano le scene in cui la Superwoman si trova in una locanda o una osteria ed è vista come un uomo nemico, che a volte dei malandrini fanno del tutto per annullarlo con bislacchi trucchi ed insidie, mentre lo scrittore si diverte a renderla, pur elaborando sul filo del tragicomico, un segno efebico, ermafrodito e bisessuale, nonché un saldo simbolo del doppio, mostrandolo finanche un angelo con i deboli e una creatura spietata con i malvagi, metà donna mite e metà uomo titanico.
Con il vampiro superstite, le cui mani sono “come artigli di una belva” (23; e anche “come le zampe d’una fiera” 25) e i cui denti sono “come le zanne d’un lupo” (24), Alasia allaccia un dialogo cruento, in cui lo stile persegue la linea della favola allegorica, in cui si intrecciano immagini che denotano il sacro e il profano, il verosimile e l’inverosimile, il reale e il surreale, e in cui il vampiro finisce per essere il messaggero di Satana e Alasia continua a svelare una personalità di paladina della fede in Dio. Tanto straordinaria e virtuosa che è immune da ogni “maledizione” dei poteri misteriosi, occulti, soprannaturali, nonostante agli occhi del vampiro sia “più astuta del Belzebù in persona” (27). In molti aspetti Alesia è una creatura volpina e leonina, non solo nell’abbattere un feroce vampiro o drago ma anche nei modi di pianificare avventure strategiche, di svolgere e terminare battaglie trionfanti: “il suo corpo da pantera non produsse alcun rumore allorché allontanandosi scivolò fra le tenebre che lo ricoprirono come un oceano di pece” (28). Scene del genere ricorrono nel testo colorendosi ora di umorismo ora del ridicolo ora del grottesco: la sua lama con un solo colpo può far saltare la testa di un essere “vampiro”, può squarciare “l’immonda gola” di un altro, può troncare le braccia di un altro (49).
Un costante della scrittura gobboiana è l’uso che si fa quasi di pagina in pagina della similitudine tradizionale e non tradizionale. Essa ritorna al centro della rappresentazione del paesaggio barocco o alchemico, dei personaggi strambi e delle figure del regno occulto, e soprattutto nell’affabulazione di una Alesia in balia di cangianti fattezze, identità. A volte l’accumulo delle similitudini sfocia nella creazione del ridicolo grottesco e dell’assurdo umoristico, e vuol essere uno strumento idoneo a rafforzare i lati oscuri e orrorosi dell’atmosfera neogotica. Spesso in modo incessante l’analogia si rifà al regno animale e nel corpo del romanzo forma un singolare bestiario fantastico. A volte una data analogia è ripetuta tale e quale e altre volte è sottoposta a lievi variazioni: indici di uno stile ripetitivo vagliato dall’autore. Per esempio: c’è un’Alasia che ha i piedi “leggeri come quelli d’un gatto” (19; che ha “occhi abituati alle tenebre come quelli d’un gatto” 47); che si muove “lesta e silenziosa come la pantera” (31; “rotolò in terra agile come una pantera” 24; “i suoi sensi sviluppati al pari di quelli d’una pantera” 47; “cauta come la pantera che rende l’agguato mortale, si ritirò nell’ombra” 78; “i suoi occhi brillavano nel buio come quelli di una pantera” 115); che “era venuta su a quel modo: flessibile e a un tempo coriacea, una tigre dal manto di seta […] Come una fiera che presentendo l’attacco dei cacciatori si pone in guardia, allo stesso modo Alasia si dispose alla lotta. Discese dal letto silenziosa come un lupo […], raggiunta la porta si mise ad origliare con l’attenzione d’una volpe alla posta” (76-77); che avendo gli “occhi da gatta, scintillavano come gemme d’ossidiana. La sua bellezza era perfetta e a completarla, oltre al suo profilo di ninfa perennemente incollerita, venivano fuori un paio di labbra turgide e rossigne come ciliegie mature” (91); che scivola “silenziosa come un gatto accanto alla fanciulla maltrattata dal demone” (108); che “s’arrestò e prese ad annusare l’aria come avrebbe fatto un lupo” e mostra “i suoi denti scintillanti degni d’una tigre in trappola” (119); che lascia delle situazioni “a passi felpati di tigre” (137); che “non le rimase che ringhiare come una tigre in gabbia, furente e impotente in ugual misura” (160).
Andando per una foresta nera pari a un abisso “sotterraneo” e con una velocità pari al “vento”, Alasia scorge una giovane che gronda lacrime, vestita di bianco e legata su una sorta di altare sorretto da due rocce, svelandosi una specie di riscrittura dei miti pagani del sacrifico e della condanna eterna, al punto di echeggiare la sventura di Prometeo e di Sisifo. Le cifre dello stile indiretto libero fanno sentire lo spirito empatico di Alasia che si precipita a liberarla. Uno spirito emblematico di quello che persegue le vie della “Provvidenza”, delle virtù umanistiche ed evangeliche. Essendo uno scrittore che rientra nel filone del fantastico postmoderno, Gobbo sa che tutto è stato scritto e che si devono riscrivere vecchie storie come se il lettore le leggesse per la prima volta, e perciò conduce la protagonista a riflettere sulla vicenda assurda di Melusina. Apprende che è stata sacrifica dalla sua famiglia e dalla gente del suo villaggio che praticano i riti della magia, della tregenda, del blasfemo, realizzando patti orribili con Satana: “aveva già udito di antichi templi pagani ora riutilizzati da congreghe d’eretici per cerimonie immonde e odiosi sabba. In quel tempo oscuro in cui l’ombra del Maligno s’allungava sinistra su ogni cosa minacciando l’umanità intera, torme di streghe e maghi crudeli, avendo venduto l’anima al demonio, compivano scorrerei notturne seminando il terrore e rapendo i bambini in fasce per i loro orribili riti sacrificali” (33). Avendo accompagnata Melusina a casa, Alasia rimane allibita nello scoprire la realtà primitiva e arcana del suo villaggio. La gente vive in preda alla paura perché sono continue le minacce lanciate da ladri, da briganti, da criminali, si sentono soggiogati dai desideri orribili dei “vampiri” e degli esseri “soprannaturali”. Melusina diventa la guida di Alasia e le fa conoscere cose oscene e orribili del luogo, finanche come i paesani hanno abbandonato la loro fede, hanno scaccia via il prete e distrutta la chiesa, come si sono messi a praticare i culti satanici e si sono trasformati in un branco di lupi. Invece quando l’inquisitrice Alasia interpella il padre di Melusina, questi collabora, si fa reticente ed evasivo. Raffigurando questo primitivo villaggio di contadini si ha l’impressione che l’autore stia riscrivendo, come aveva già fatto Tommaso Landolfi in tanti suoi racconti fantastici, una dovizia di miti appartenenti al patrimonio storico-culturale della sua Ciociaria4. Il climax arriva con i paesini indemoniati che si recano all’abitazione di Melusina con l’intento di prenderla e di assoggettarla al rito sacrificale, offrirla al loro dio Maligno. La scena corale si fa scottante con l’intervento di Alasia schierata, pur con un linguaggio etico, contro il male e quindi a difendere la giovane Melusina: “Siete dei codardi, preferite sacrificare le vostre figlie sull’altare di Satana invece di lottare contro i disegni nefandi!” (44).
Avendo ripreso le sue avventure e soggiornando in una foresta, che spesso nelle delle fole è una fonte dei misteri e dei significati infelici, Alasia diventa prigioniera di esseri infernali, viene legata a un albero e abbandonata a morire. Ma poco dopo è liberta dal prete scacciato dal villaggio. Il quale le racconta come il delirio del popolo convertito al credo di Satana lo ha portato a vivere nei boschi, nascondendosi da una parte all’altra. La parlata del parroco si traduce ora in confessione ora in sermone teso a condannare gli ex-fedeli, mentre quella di Alasia si alimenta di principi probi tipici dell’eroe classico che mira a cambiare le cose, e l’autore coglie l’occasione di mettere a fuoco aspetti filosofici del manicheismo e come la spada simbolica della donna di “ferro” stia al servizio del messaggio divino, stia compiendo la missione di estirpare il male dai ritmi della quotidianità e della storia.
Con un approccio taumaturgico Alasia riesce a cancellare lo smarrimento caotico dei cittadini del villaggio; a liberarli non solo dall’idee di essere stato un popolo scristianizzato ma anche da terribili incubi, superstizioni, idolatrie; a ridarne sicurezza e serenità; a restituirne l’animo impegnato a tenere lontano sia le forze sinistre del soprannaturale che gli esseri abominevoli, maligni e vampireschi; a ristabilire l’autorità del sacerdote. Così Alasia sembra plasmarsi quasi una loro regina, dea. Un pizzico di esagerazione e di comico pare emerge quando osserva i contadini che si lanciano a respingere “gli assalti dei vampiri colpendo con falci e forconi […] Erano umani solo per metà, per il resto sembravano diavoli fuoriusciti dal più profondo degli abissi infernali” (60); o quando li sostiene tuffandosi nel duello come un indemoniato Rodomonte: “piombò come un demone tra i demoni seminando panico e distruzione […] Le sue armi tuonarono più volte senza fallire mail il colpo, la sua spada s’abbatté sul nemico storpiando, sventrando e decapitando. In breve intorno a lei si fece il vuoto” (62). I mezzi dell’umorismo semiserio e della caricatura, topoi della scrittura gobboiana, alimentano la portata del fantastico e presentano un’Alasia che recupera l’archetipo dell’essere umano che ha il potere degli dèi e dei fenomeni soprannaturali, ed è spigliato anche nell’uccidere spettri e mostri di ogni genere. Non diversamente da certi cavalieri dell’epica tradizionale, Alasia compiendo le sue imprese e avventure, si trasforma in tanti modi (ad es: “da ninfa si trasfigurò in quello d’una tigre” 65), si manifesta intrappolata in una metamorfosi denotativa di una personalità cangiante e bizzarra, con centomila volti, di cui sono probanti i numerosi sostantivi con cui l’autore si porta di volta in volta a nominarla: per esempio, fanciulla, ragazza, signore, signora, forestiero, straniero, spadaccina, avventuriera, viaggiatore.
L’avventura di un sogno di Alasia immette nell’incontro con un vecchio conoscente, prima un condottiere indomito di Carlo V e poi diventato un santo monaco, Erasmo. È il suo mentore dall’età infantile, la ha addestra a usare la spada e a combinare gli stratagemmi del duello. La loro conversazione si anima sia con Alessia che echeggiando elementi amletici, afferma di odiare a morte colui che ha assassinato il padre e vive solo per vendicarlo, sia con l’intervento di Erasmo tendente a largire una spiegazione filosofica dell’odio. Nel frattempo Alasia rivede nel sogno la scena del passato in cui i suoi cari del mondo regale perdono la vita: “sognava della fuga del castello in fiamme, della morte del padre vilmente assassinato dai suoi diabolici nemici, della fine prematura della madre” (75).
In questo contesto onirico galleggia la visione gobboiana del passato che è eterno presente e quindi della storia che è infinitamente fantastica, e si irrobustisce diventando la linfa delle nuove esperienze dell’Alasia cavaliere sui generis. Più le gesta e le armi di Alasia cercano di allontanare i mitemi dell’orrore, più se li trova sotto gli occhi. A volte glieli fanno conoscere i compagni della dis-avventura. Salim, un saltimbanco girovago, le fa notare le atrocità compiute dai potenti della Santa Inquisizione e dai barberi impossessatisi di un maniero: schiavizzano e malmenano i collaboratori domestici, impiccano le persone negli alberi della foresta, ve li lasciano a perire dentro una gabbia, o un sacco, e a formare un pasto per le bestie. Rivelandosi affabulatore istrionico, Salim narra ad Alasia le sue esperienze di giullare presso le corti di efferati personaggi storici, esperienze che infittiscono la scrittura gobboiana dei contorni fantastici e che fungono da prolessi del loro desiderio di portarsi a visitare il maniero che è un rinnovato archetipo del castello dell’orrore. Grazie alla loro abilità di edificare una serie di meravigliosi trucchi, finzioni, inganni, riescono ad entrare nel castello, ma poco dopo vengono rinchiusi assieme a tanti prigionieri nella cella di un oscuro e sterminato sottosuolo. Dove apprendono che, dopo aver sterminato il conte e la famiglia, una banda di “mostri” cappeggiata da un “grande diavolo” si è impossessata del castello, banda che semina la paura e il terrore anche tra i poveri contadini. Ciò fa rimanere esterrefatta Alasia, la rende irosa e costernata. L’impasto di effigie, mitiche e iperboliche, ne registrano sorprendenti metamorfosi: da creatura “angelica” a una “ninfa” inferocita, da “rosa” splendente a “una selva di spine avvelenate”, da prodiga di “sorrisi ammaliatori” a “dispensatrice di morte” (103). La rappresentazione indugia sulla reminiscenza dell’inferno dantesco con Alasia e Salim che pianificano di liberare i prigionieri negli inferi del castello. Mentre l’amico intrattiene una delle feste anormali del grande demone, Alasia intraprende la fuga che fa assaporare a tutti la luce della libertà. Poi ritorna al castello. Un duro duello scoppia tra la banda dei seguaci di Lucifero e l’Alasia feroce “cavaliere”, configurato con stilizzazioni dei mezzi epici, grotteschi, meravigliosi. Per certi versi il duello appare un evento magico non solo perché Alasia riesce a sconfiggere tutti, a mettersi in salvo con Salim, a osservare come il maniero viene distrutto dal fuoco, fuoco che metaforizza l’annullamento del male e la rinascita del bene.
Lo scioglimento del romanzo si avvia con Alasia collocata dall’autore nella sfera turco-saracena del Nord Italia, ispirata forse dagli avvenimenti orrifici dei nostri tempi tra i fanatici islamici e i cristiani, dell’immigrazione clandestina dei musulmani nel continente europeo. Alcuni di essi si innestano ad eventi storici del Rinascimento filtrati nel tessuto onirico che esprime il punto di vista di personaggi reali e non reale. Come fa il papa Paolo III che, apparendo nel sogno di Alessia, articola un discorso che oltre a essere vergato di ironia pungente, finisce per considerarla un angelo difensore della fede cristiana. Con una rappresentazione che si evolve sui binari dell’ambiguità, del reale irreale, l’autore schizza un’Alasia saracena, e quasi un personaggio delle Mille e una notte, che fa una vita da beduino e vive in una tenda arabesca. Dove è vista nuda ed è assalita da individui misteriosi. Passando vicino la tenda e udendo gli allarmanti echi dello scontro, Alasia è soccorsa da un giovane musulmano, Alì El Kadun.
Tra loro sboccia l’attrazione reciproca, e una conversazione votata a scandagliare secolari questioni storiche relative alle perenni animosità tra i cristiani e i maomettani, alle guerre di religione, al male-Belzebù che è sempre presente in ogni fede e in ogni aspetto della vita. Alasia e Alì si ergono simboli di religioni e di culture diversi che però vivono gli stessi principi: la brama di cancellare il male dalla vita, di rispettare le legge dei nobili valori umani, di vivere in armonia con i popoli del pianeta. Tuttavia Alì non riesce a capire come nella misteriosa Alesia arde la passione di vendicare il padre al punto che si metamorfizza in un “angelo nero”, e come ciò la priva di corrisponde al suo desiderio di amarla e renderla sua sposa.
Quando con un cavallo aereo più veloce del raggio di luce Alasia si reca dal capo della Santa Inquisitore, Padre Assenzio Messeni (chiamato anche “la figura nera” e “il Nero Falciatore”), l’assunto consiste nel volergli estrapolare ragguagli che avrebbero potuto essere utili alla sua missione. Ma tra i due emerge uno scontro molto drammatico e violento, proteso a miticizzare l’una come creatura divina e l’altro come figura satanica. Anzi figura più corrotta e più maligna di Belzebù, abilissima a mettere in atto gli agguati e i trabocchetti possibili per eliminare la nemica. Prima la droga e poi la fa portare sul rogo di legna: funzione che dà vita a uno spettacolo assurdo con il tripudio della folla che la ritiene una strega, e le lancia scherni, accuse, condanne. Nel preciso momento che le fiamme cominciano a sfolgorare, arriva l’intervento miracoloso di Alì e dei suoi amici turchi che liberano Alasia, incendiano la residenza del capo Inquisitore e dandogli la morte. Un episodio che culmina con la separazione angosciosa di Alì e di Alasia tutta orientata a perseguire oltre al suo destino, la sua ultima battaglia. È la battaglia che trionfalmente svolge a Torino contro una sterminata schiera di nemici, dai pirati ai pipistrelli, dai vampiri ai fantasmi, dai mostri ai diavoli, ai morti-vivi, bramosi di conquistare “la Santa Sindone”. La battaglia, come altre del romanzo, è messa a fuoco dall’autore usufruendo i moduli di una serie di generi fantastici, giallistici, spionistici, fantascientifici. Tanto che gli è dolce naufragare nella reminiscenza delle saghe di Tolkien e dei racconti di Asimov, di Bradbury, di Van Vogt. In questo epilogo si ritorna sia a suggerire che nella storia se una cosa cambia, cambia per rimanere la stessa cosa, e che la lotta tra le civiltà, le religioni, e gli ideali sarà eterna perché gli uomini non saranno mai uguali; sia a individuare le note del pessimismo di un autore che osserva appassionatamente la favola della vita.
Note
1 Per ulteriori informazioni a proposito si rimanda a questi miei studi, Romanzi di Sergio Campailla. Una poetica postmoderna, Roma, UniversItalia, 2017; Leonardo Sciascia scrittore fantastico, Siracusa, Sampognaro & Pupi Edizioni, 2017.
2 Si vedano per esempio V. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966; Le radici storiche dei racconti di magia, Roma Newton Compton, 1977.
3 M. Gobbo, Alasia. La Vergine di Ferro, Roma, Watson Edizioni, 2017, p. 90. D’ora in poi il numero della pagina nel testo rimanderà a questa edizione.
4 Per ulteriori informazioni a proposito si veda il mio studio, L’oscura foresta. Simboli del fantastico in Landolfi, Caltanissetta- Roma, Salvatore Sciascia editore, 2012.