Cronache nemediane – Oltre i confini dell’impero romano

OLTRE I CONFINI DELL’IMPERO*

di Adriano Monti Buzzetti

*Articolo tratto da Focus Storia (dicembre 2015)

 

I Romani non sono famosi per le loro esplorazioni. Eppure le loro rotte commerciali, sviluppatesi sull’onda delle conquiste militari, portarono mercanti e viaggiatori fin dove non ci aspetteremmo.

 

Giuristi, militari, urbanisti, letterati…nel medagliere dell’antica Roma, com’è noto, si trova un po’ di tutto. O almeno quasi. Sul fronte delle esplorazioni geografiche – che tanto fascino hanno elargito alle vicende, nel complesso ben più circoscritte, di altri popoli antichi come i Fenici o i Vichinghi – i manuali di storia si soffermano invece ben poco: ne risulta l’immagine di una civiltà pragmaticamente concentrata sulla propria signoria nel Mediterraneo e dintorni, ma poco incline a romantici aneliti verso terre lontane e sconosciute. Niente di più falso, in realtà.

Elio Cadelo, giornalista ed autore del volume “Quando i Romani andavano in America – Conoscenze scientifiche e scoperte geografiche degli antichi navigatori”, dedicato a corroborare con indizi storico-archeologici la suggestiva ipotesi che vede i centurioni sbarcati addirittura nel Nuovo Mondo (v. scheda), sintetizza le radici storiche del grossolano equivoco sulla dimensione “casalinga” dell’Impero romano: “Le esplorazioni si fanno anzitutto per mare. Ma nell’Ottocento, agli albori dell’archeologia, i resti degli antichi porti romani erano praticamente scomparsi per il progressivo innalzamento del livello del mare, mentre le celebri consolari erano ancora ben visibili: nacque così lo stereotipo di una superpotenza a vocazione prevalentemente terrestre. Invece Roma era prima di ogni altra cosa una grande potenza navale; iniziative come quella di Nerone che iniziò il taglio dell’istmo di Corinto, o di Traiano che fece riscavare l’antico canale navigabile tra il Delta del Nilo e Arsinoe (Suez), ci ricordano che i Romani ‘ragionavano alla marinara’. In uno scontro navale come quella di Azio del 31 a.C. tra Ottaviano e Marco Antonio, si affrontarono in mare circa 1300 imbarcazioni. Anche Cesare nel 56 a.C. aveva impiegato centinaia di navi contro i Galli nella battaglia del Morbihan, al largo della Bretagna. Fu il primo scontro navale dei Romani nell’Atlantico, ma il suo De Bello Gallico non si sofferma minimamente sul fatto che i vascelli avessero attraversato stretto di Gibilterra e quindi le mitiche Colonne d’Ercole, antico limite estremo del mondo conosciuto: all’epoca di Cesare normale da tempo”.

Ai viaggiatori della Caput Mundi non mancavano infatti tecnologia e conoscenze scientifiche appropriate: “Nell’epoca di Plinio il Vecchio, scrittore e ammiraglio romano (I secolo d.C.), la forma sferica della Terra era nozione comune in Occidente, e già si parlava di poli ed equatore. Leggendo poi i suoi resoconti sui tempi di percorrenza da un porto all’altro dell’Impero, ci si rende conto che gli spostamenti erano velocissimi: questo perché, contrariamente a quanto si crede, esistevano già velieri con tre  alberi e si conoscevano le tecniche per viaggiare controvento. Inoltre le navi romane erano foderate di piombo, per affrontare indenni viaggi anche molto lunghi”. La civiltà fondata sui sette colli aveva dunque tutte le carte in regola per allargare i propri orizzonti, mandando uomini  e mezzi verso questa o quella “terra incognita” al di là dell’ultimo cippo di confine. Partiamo dalle isole britanniche: a circumnavigarle era stato nel 325 a.C. il greco Pitea, ma furono i Romani a legarle in modo stabile al resto del continente. Le prime spedizioni volute da Cesare (55 e 54 a.C.), crearono avamposti e intese con le tribù locali che avrebbero spianato la strada, nell’arco di quasi un secolo, alla conquista vera e propria. Gneo Giulio Agrippa, governatore della provincia, nell’80 d.C. condusse le legioni romane fino in Scozia e ordinò in seguito una dettagliata esplorazione navale delle sue coste settentrionali, ottenendo la conferma definitiva che la Britannia era un’isola. Due anni dopo, secondo il genero Tacito, Agrippa si imbarcò per mare sconfiggendo “popoli fino ad allora sconosciuti”: per molti storici approdò in Irlanda, l’“isola di smeraldo” dei celti che, a dispetto di tanti ritrovamenti di monete e manufatti romani, è stata a lungo ritenuta inviolata dalle legioni. Almeno fino ad una ventina d’anni fa, quando la scoperta dei resti di un probabile forte romano a Drumanagh, presso Dublino, ha costretto gli archeologi a rivedere le loro posizioni.

Anche le conoscenze geografiche dell’Africa devono molto al mondo romano, di cui solo gli esploratori ottocenteschi riuscirono a surclassare le scoperte. Le manovre militari contro le tribù nomadi dei Garamanti, che imponevano pesanti dazi alle merci in transito, portarono il governatore della Tunisia Cornelio Balbo ad attraversare nel 19 d.C. l’intero deserto libico e a raggiungere poi l’ansa del Niger situata nell’odierno Mali, tra le città di Gao e Timbuctù. Sulle sue orme il legato della III Legione Augusta, Valerio Festo, si inoltrò nel profondo sud del Sahara, tracciando un’altra via verso il grande fiume. Nel 42 d.C. ancora un militare, Gaio Svetonio Paolino, nell’ambito di una missione contro i ribelli in Mauretania divenne il primo romano ad attraversare la catena montuosa dell’Atlante. Ma non furono solo esploratori con elmo e corazza a guadagnarsi la gloria. Giulio Materno, intraprendente cittadino romano –forse un mercante – di Leptis Magna, in Libia, alla fine del I secolo d.C. raggiunse per primo le rive del lago Ciad, e di ritorno dal viaggio portò a Roma la prova concreta della sua avventura: un favoloso esemplare di rinoceronte nero, a cui l’imperatore Domiziano volle dedicare una moneta e Marziale un epigramma. Sconosciuti invece i nomi dei due ardimentosi legionari – scelti forse tra l’élite pretoriana – ai quali nel 62 o 67 d.C. l’imperatore Nerone affidò il comando di una missione per scoprire le leggendarie fonti del Nilo: partita dalla città di Meroe in Nubia, questa spedizione – la prima della storia organizzata da europei verso l’Africa equatoriale – durante la stagione secca riuscì ad attraversare le paludi del Nilo Bianco conosciute come Sudd (Sudan meridionale), malsane ed infestate da coccodrilli, raggiungendo infine il nord di quella che oggi è l’Uganda.

Anche ad Oriente gli esploratori romani furono attivi. Verso il 25 a.C. il prefetto  d’Egitto, Gaio Elio Gallo, guidò per volere di Augusto una sfortunata spedizione navale nel Mar Rosso sulle coste meridionali della cosiddetta Arabia Felix, spingendosi fino ad Eudaemon (Aden);  ben più utile era stata in precedenza  l’impresa di Ippalo, mercante e navigatore ellenico al servizio dell’Egitto romano, ritenuto lo scopritore di una via marittima diretta che dall’Africa conduceva all’India. Grazie alla nuova rotta, i commerci con l’Asia a partire dal I secolo a.C. aumentarono in modo esponenziale: da scali commerciali come quello di Berenice o di Myos Hormos, sul Mar Rosso, il traffico da e verso i porti degli antichi regni indiani situati negli attuali Kerala e Tamil Nadu era stimabile in non meno di 120-150 navi l’anno  per ciascuna tratta. L’indotto includeva anche relazioni diplomatiche, come nel caso degli ambasciatori indiani che secondo lo storico Lucio Cassio Dione furono ricevuti Roma dall’imperatore Augusto, portando in dono tigri ed altri animali esotici. Un esteso compendio di questa rete di contatti è il Periplus Maris Erythraei (“Il periplo del Mar Rosso”), l’antico documento del I secolo d.C. che passa in rassegna rotte, scali e opportunità mercantili tra l’Africa nordorientale, la penisola arabica ed il subcontinente indiano. Dall’isola di Menuthia (Zanzibar) fino a porti oggi scomparsi come Muziris, antico centro indiano di smistamento delle spezie, tutti i poli del commercio con cui imprenditori e funzionari di Roma – ma anche exploratores, cioè ricognitori militari con funzioni di intelligence – ebbero rapporti sono accuratamente descritti in quello che è un vero e proprio vademecum geopolitico dell’epoca. Vi è persino descritta un’annuale fiera al confine tra India e Cina, il che rimanda agli indizi di probabili “incontri al vertice” tra i due più grandi imperi della storia (v. scheda).

Sui Romani globe-trotter, tuttavia, c’è ancora molto da indagare. “Vestigia e monete romane” – ricorda Cadelo – “si ritrovano ogni anno in posti inusitati: dall’Islanda fino allo Sri Lanka, da dove sembra che un re abbia inviato nel I secolo d.C. un’ambasciata all’imperatore Claudio. Di recente, poi, gioielli romani sono stati rinvenuti a persino a Kyoto, in una tomba giapponese del V secolo”. A conti fatti, dunque, i progenitori di Livingstone con calzari e tunica potrebbero aver esteso la “ragnatela” dell’Urbe ben oltre il limite nominale dei suoi domini. Uno slancio verso l’ignoto che ci ha regalato tante conoscenze e…qualche errore, come quello di considerare genericamente come “India” l’intera Asia ed oltre: equivoco secolare che, si sa, ispirò anche  Colombo. Peccato solo che le vere scoperte della Roma esploratrice non abbiano avuto altrettanta fortuna con i posteri.                             

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