
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , torna a trovarci Andrea Guido Silvi che ci propone “Ynghwamokka”, terzo racconto fantasy (di circa 52.000 battute spazi inclusi) del Ciclo dei Gatti.
Se volete leggere la precedente storia, la trovate qui:
Buona lettura.
Autore
Classe 1981, sono nato a Rieti, dove il verde non manca e si respira ancora un po’ di magia tra boschi, laghi e santuari. Ho sempre viaggiato molto, sin da ragazzo, alla ricerca dell’incanto di paesaggi diversi ed ho continuato a viaggiare per studio (ho studiato in tre continenti), per lavoro e per passione (amo il trekking e la vita all’aperto). Nelle descrizioni delle mie ambientazioni, fantasy e non, c’è infatti poco d’inventato, perché non c’è nulla da aggiungere, se non la giusta storia, alla bellezza del grande nord o delle creste vulcaniche d’isole quasi incontaminate. La magia che non ho potuto vivere direttamente l’ho cercata nella lettura, e ho chiari numi cui ispirarmi: H.P. Lovecraft, E.A. Poe, E. Salgari, C.A. Smith, J.R.R. Tolkien. A questi s’accompagnano tanti altri che, anche con un solo racconto, mi hanno fatto dono di esperienze irripetibili (come King, Chambers, Howard…).
Come scrittore ho un’unica ambizione: mettere davanti agli occhi del lettore il mio mondo, trascinarlo al suo interno e coinvolgerlo. Questo non solo per fargli dimenticare il suo mondo per qualche ora, ma per consentirgli di vivere avventure, sfide, contesti morali e punti di vista diversi con cui confrontarsi. È questo il motivo per cui, a mio avviso, si scrive ancora oggi fantasy con draghi, cavalieri e castelli nella nebbia: la promessa di un mondo onirico, diverso e distante dal giornaliero, predispone al meglio la mente del lettore a regole per lui inusuali o aliene, consentendogli esperienze uniche che si aggiungono al suo bagaglio in maniera del tutto simile a quelle del suo vissuto ordinario.
Bocconiano, nel mio vissuto ordinario lavoro a Roma, dove mi occupo con soddisfazione di marketing per una delle principali compagnie assicurative in Italia, creando prodotti d’investimento destinati alla distribuzione bancaria.
Prefazione del Ciclo dei Gatti a pubblicazione periodica su Hyperborea
di Andrea Guido Silvi
La Guerra tra Divinità e Demoni s’approssima, sostiene Emith-Frael, mago e veggente fedele ai Giusti Dèi degli Uomini. I mortali sono le pedine che, mosse sulla scacchiera, preparano gli schieramenti al conflitto, e il loro posizionamento prende anni, decenni, forse secoli. Ladri, guerrieri e mercenari vivono le loro vite, mentre il veggente li indirizza sulla la strada che dovranno percorrere. Edhar “Edh” Manhak (“I Gatti e i ragni”, “Il Nero”) non ha mai conosciuto il veggente, eppure lui ha segnato la sua strada. Edone, lo sgraziato guerriero dalla braccia lunghe (“Il Nero”, “Ynghwamokka”, “La Sfinge” e altri racconti), è allo stesso tempo pedina ed amico di Emith-Frael, che lo spinge verso il suo destino impresa dopo impresa. I Gatti, animali ambigui, sono parte attiva nella lotta alle forze demoniache che minacciano il Creato, ma si muovono perlopiù nell’ombra, vittime ed artefici della superstizione che li circonda.
Il filo conduttore della raccolta è dato dalla predestinazione dei personaggi nella trama decisa dalle divinità, il cui disegno però non è mai chiaro. Attraverso il racconto di vicende tra loro collegate, si scoprono motivazioni e storia dei vari protagonisti, coinvolti in una sorta di staffetta che procede lentamente verso un obiettivo ignoto. Ogni racconto è un tassello del puzzle.
Nota: nei racconti i nomi di alcune creature o animali, come avviene per i Gatti, vengono scritti con l’iniziale maiuscola per indicare che si tratta d’esseri appartenenti a specie dotate d’intelletto o dalla natura oltremondana. Allo stesso modo si parla di Uomini, con l’iniziale maiuscola, così come di Nani, Elfi e Gnomi, che insieme compongono l’insieme dei comunemente detti “esseri umani”.
Ynghwamokka
di Andrea Guido Silvi
Berdor del Nord, Regno di Kanedia, dalla capitale fino ad Ukim e oltre, sconfinando sulla sponda settentrionale del Faudyvia, territorio del Regno di Uvia. Dal 3° al 6° giorno di Primosole dell’anno 768 dal Mare Ritirato.
I vicoli dei dimenticati
Notte del 3° giorno di Primosole
Un odore acre di spazzatura fermentata e bruciata ammorbava i vicoli del Quartiere Sud-Ovest, nella prima cerchia di mura della capitale, Kanedia. Dal Palazzo oltre la seconda cerchia, a mille o passi o poco più, il giovanissimo Re Cænus Ukaned governava uno dei territori più fertili e generosi dell’esteso bacino del Faudivya, il grande fiume che attraversava da est ad ovest tutto il Berdor Settentrionale. Ma in quella parte di città, sporca e degradata, non v’era traccia della genuinità del lavoro della terra, né dell’orgoglio dell’insegna del Cinghiale Rosso, il glorioso Ukaned.
Nel tempo, quel quartiere popolare s’era trasformato in un rifugio di vagabondi e reietti. Non era stato un cambiamento veloce, aveva preso anni, ed era avvenuto sotto gli occhi di tutti gli abitanti, consentendogli d’accettarlo e d’abituarsi a cose che mai, in un passato non molto distante, avrebbero tollerato. Ai piedi degli alti edifici dove vivevano ammassate famiglie su famiglie, con le finestre fiocamente illuminate da candele, s’intrecciava un budello luminoso di viuzze e passaggi resi chiassosi dal viavai di personaggi trasandati, che si spostavano tra taverne e tuguri o erano coinvolti in starnazzii, discussioni e risse con i loro buttafuori. Sui cumuli d’immondizie giacevano prive di coscienza le vittime delle bevande e delle sostanze più forti e, vicino a loro, si muovevano indisturbati grossi ratti, cui nessuno ormai faceva caso. Alla fine quella città nella città, con le sue regole e i suoi tipici personaggi e grugni, s’era guadagnato un nome proprio, “Rusciàm”, che doveva essere la storpiatura d’una parola vera in una qualche lingua, ma nessuno ricordava quale.
In mezzo alla cacofonia di risate volgari, urla e insulti, avanzava una figura in una cappa grigia, col capo coperto. Nonostante la mole, cercava di muoversi senza urtare persone o cose, inoltrandosi sempre più nel labirinto maleodorante. V’erano genti d’ogni razza e colore: Uomini da ogni parte del continente, Nani, Elfi e mezzosangue, pure dei mezzi Orchi, e tutti erano presi tra bagordi e postumi, in un divertimento lascivo che non pareva avere nulla di genuino. Se v’erano, dovevano essere poche le persone lucide che potessero far caso all’Uomo ammantato e, in ogni caso, la sua stazza sarebbe bastata a convincere eventuali curiosi a farsi i fatti propri.
Nascosti dal cappuccio, due occhi neri sotto un unico folto sopracciglio guardavano tutto quanto li circondava con severità. Si soffermarono per un istante su un accattone seduto a terra, con la testa ciondolante, con davanti tre cappelli per raccogliere offerte. Le parole scritte su ogni cappello ne indicavano la destinazione: cibo, liquore, oppio. Un paio di beoni ridendo lanciarono i loro spicci nei cappelli per oppio e liquore, gli unici con dentro qualcosa, e il miserabile sorrise contento.
Continuando ad avanzare, l’Uomo ammantato finalmente vide quello che stava cercando. Era certo d’averne già scorto i segni su un paio di disgraziati svenuti tra le immondizie: lui era alla ricerca d’un veleno particolare e doveva individuare chi ne aveva da vendere. Aveva adocchiato un anonimo mendicante coperto di stracci, con il volto dalla carnagione cinerea e i capelli radi, che stava di fronte ad un giovane, con la chioma bionda disordinata e gli occhi arrossati, evidentemente di buona famiglia. L’espressione del volto di quest’ultimo, poco più che un ragazzo, rendeva chiaro perché si fosse spinto in vicoli tanto malfamati senza aver cura di nascondere la sua estrazione, rischiando d’essere rapinato ed ucciso. I due sembravano sul punto di concludere la trattativa. Vide chiaramente il luccichio dell’argento che le mani tremanti del giovane traevano dalle tasche, così come la mela rossa che ricevette in cambio da una mano lurida, con le unghie quasi nere. S’avvicinò lentamente e sentì il mendicante dire:
«…e ricorda che queste monete sono solo una parte del prezzo».
Il giovane rampollo corse via tenendo la mela come fosse il tesoro più delicato e prezioso che avesse mai toccato, sparendo dietro un angolo buio. Il losco mendicante s’incamminò curvo per una diversa direzione, inoltrandosi nel budello di viuzze.
La figura ammantata prese a seguirlo e capì che nascondeva una piccola cesta, carica di frutti. Lo vide infatti vendere mele a diversi che gliele chiedevano, e ad ognuno faceva pagare un prezzo differente. Sembrava gestire le trattative a suo gusto, senza una logica, ma quelle con i più trasandati e insistenti erano lunghe e si concludevano sempre con il pagamento d’un prezzo alto. Spesso il tono di voce del mendicante diveniva un impercettibile sussurro, mentre chiedeva ai suoi fedeli clienti informazioni e favori. A molti sorrideva con fare bonario e alcuni lo chiamavano “Fratello”.
Gli occhi neri sotto l’unico sopracciglio osservarono con attenzione i compratori che non si trattenevano dall’assaggiare la loro mela, vedendo l’espressione d’estasi ed energia che conquistava i loro volti, mentre un icore nerastro gli macchiava le labbra. Pareva che i pomi drogati gli dessero allo stesso tempo piacere, forza e convinzione, e le facce di reietti e sfortunati tornavano sicure e fiere, come se un’illusione li avesse restituiti ad un’umanità più degna.
L’accorto pedinamento proseguì fino ad un vicolo non illuminato, infestato da ratti e blatte, dove il mendicante bussò ad una porta chiusa e posò finalmente a terra la cesta vuota. Dopo pochi istanti la porta s’apri e, accompagnato dal chiasso di beoni e risatine di prostitute, s’affacciò un omaccione sulla cinquantina calvo e grasso, sbarbato, con un lungo grembiule sporco. Senza dire nulla, l’omaccione prese la cesta e tese un palmo. L’altro gli sorrise e gli diede una manciata di monete, dicendogli:
«Questa è la vostra parte. La domanda aumenta, per cui sarà meglio se tra due notti il cesto sarà più pesante».
«Ho ancora mele per qualche notte, e altre potranno arrivarne, ma non dureranno a lungo…»
«Sono certo che troverete una soluzione.»
«Certamente», rispose pronto l’omaccione. «Venderemo pasticci di carne.»
Il falso mendicante sembrò soddisfatto dalla proposta, quindi lo salutò con un sorriso ed un inchino appena accennato, per poi sparire nell’oscurità del vicolo. L’omaccione contò le monete d’argento che aveva in mano, poi richiuse la porta soffocando il trambusto che ne usciva. Quello era il retro d’una taverna, Il Porco Grasso.
Mancavano circa tre ore all’alba e un solo cliente s’attardava ad uno dei tavoli in mezzo alla sala deserta de Il Porco Grasso, con una cappa grigia drappeggiata sulla sedia al fianco. Era un Uomo tra i trenta e i quarant’anni, dall’aspetto d’un picchiatore. Aveva un fisico da bruto, con spalle larghissime e braccia lunghe in proporzione, tanto che le gambe risultavano piccole al confronto. Il viso rozzo e tondo era quello d’un brigante di strada, butterato, con un unico spesso sopracciglio nero e barba corta e incolta, come la capigliatura, leggermente brizzolata. Indossava tuttavia un’armatura di pelle borchiata che pareva nuova di pacca ed anche il suo armamento doveva valere una fortuna, soprattutto lo spadone, dall’impugnatura modellata nelle spire di due serpenti di bronzo che formavano la guardia poi voltandosi a guardarsi, con rubini per occhi. Edone, così si chiamava il mercenario, e aveva dato alla sua spada il nome di Sethethi, ma il locandiere non conosceva il nome dell’uno o dell’altra, sebbene li avesse già sentiti pronunciare in passato.
Il locandiere, un omaccione sulla cinquantina abbondante totalmente calvo, aveva puntato per ore lo sguardo sulle larghe spalle del mercenario. Il suo viso lucido e privo di peli, con gli occhi perennemente stretti nelle palpebre socchiuse, tradiva intelligenza ed opportunismo calcolatore, uniti alla ruffianeria e untuosità del più truffatore dei mercanti. Sembrava uno di quei tipi che non aveva mai avuto bisogno d’alzare le mani in vita sua, ma non perché non ne avesse la stazza. Intento ad asciugare i boccali di coccio e ripulire il bancone, il locandiere s’era trovato a pensare che poteva succedere che, con un po’ di fortuna, un buon combattente mercenario facesse bei guadagni. Lui ne aveva visti diversi farsi un nome e trovare una paga onesta e altrettanti cadere in disgrazia, e, nella buona e nella cattiva sorte, tutti avevano lo stesso bisogno di birra. O almeno quelli che lui aveva conosciuto: vite vissute faticosamente, votate alle pulsioni d’un attimo e ad una fine precoce, che cercavano sensazioni forti e stordimento. Chino dietro il bancone, si sentì chiamare sgarbatamente:
«Oste! Portamene un’altra.»
Tirandosi su non osò protestare, ben felice delle tante monete che lo straniero gli aveva già lasciato: aveva mangiato salsicce e patate e poi aveva passato ore a bere una birra dopo l’altra. Preparò il tredicesimo boccale di birra scura allungandolo un altro poco con l’acqua sporca del lavello, poi si diresse al tavolo. Lì vide che il mercenario aveva legato dello spago ad un capo del suo robusto arco lungo, con attaccato un turacciolo di sughero, e lo usava a mo’ di canna da pesca per attirare l’attenzione dei ragni domestici che davano la caccia ai topi nel locale. Tre animali, grasse migali dal pelo rossiccio delle dimensioni di piatti da portata, stavano al gioco e si lanciavano a turno all’assalto del tappo, mordendolo con forza. Quando una lo lasciava andare, come avrebbe fatto con un vero topo per aspettarne la morte, il gioco riprendeva con il tappo che si rifiutava di morire e nuovi assalti.
«La vostra birra, signore.»
Il cliente impugnò il boccale di coccio con una delle sue grosse manacce, mentre con l’altra continuava a provocare i ragni domestici agitando l’arco-canna. Mandò giù un primo sorso, quindi lo invitò a sedere con lui:
«Grazie oste, restate qui con me…»
La richiesta era insolita, ma l’unico sopracciglio del mercenario s’era incurvato a sottolinearne la perentorietà. Attribuendo la pretesa alle tante birre, il locandiere sedette con un sorriso.
«Oste, sono qui a giocare con i vostri ragni da forse una mezz’ora», lo informò.
«E la cosa ormai vi diverte?»
«Mi ha divertito forse il primo minuto», fu l’inattesa risposta, cui seguì un’affermazione ancor più inaspettata: «Ho fatto lo stesso gioco con un Gatto una volta, una Gatta per la precisione. Lo credereste possibile?»
L’omaccione non sapeva cosa rispondere al cliente, che lo guardava fisso con i suoi occhi neri: non conosceva nessuno che osasse avvicinarsi ad un Gatto, figurarsi l’idea di qualcuno che potesse provare un simile esperimento. Alla fine gli chiese:
«È davvero possibile?»
«Sì, e con un Gatto è più divertente: i ragni fanno sempre le stesse mosse, non cambiano mai.»
Il locandiere scosse il capo ancora incredulo, poi domandò:
«Ma se non vi diverte, perché continuate?»
«Mi chiedo quanto veleno possano avere ancora in corpo: il tappo di sughero pare ormai una spugna bagnata.»
E detto questo finalmente depose l’arco, strappando il turacciolo dallo spago e posandolo sul tavolo tra i boccali vuoti. Poi, dopo un ultimo sorso, mentre l’oste fissava il sughero pieno di buchi, il mercenario colpì: veloce e preciso, gli fracassò sulla testa il boccale appena svuotato. I ragni schizzarono via ed il loro padrone s’accasciò sul tavolo. In un istante il suo assalitore sguainò un lungo pugnale ricurvo e scattò per bloccarlo. Senza poter far nulla, l’omaccione si trovò con la testa schiacciata contro i cocci; una mano che lo teneva per il collo; un ginocchio sulla schiena e la lama puntata al viso. Davanti ai suoi occhi, il turacciolo stillava veleno verdastro. Iniziò a sudare, ma non osò muoversi o dire nulla.
«La tua birra annacquata mi ha veramente stancato. E la tua carne secca e spugnosa aveva un saporaccio. Hai qualcosa da dire a tua discolpa?»
Finalmente, il furfante s’avvide che il cliente insoddisfatto era perfettamente lucido. Tentò quindi di placarne lo scontento:
«Sarete rimborsato! Vi restituisco il vostro denaro».
Una risatina divertita e sadica preannunciò il cattivo esito della transazione:
«Questo è fuor di dubbio, ma non basta. Ho bisogno d’informazioni, viscido bastardo, e se non me ne darai ti tagliuzzo tutto e ti spremo il veleno dei tuoi ragni nelle ferite: soffrirai come non hai mai sofferto. E poi questo tappo dannato te lo faccio ingoiare».
L’omaccione sbiancò e annuì. Edone andò dritto al punto:
«L’Ynghwamokka, chi te la fornisce?»
Silenzio. Al pallore funereo dell’interrogato s’era aggiunta una sfumatura violacea di pura tensione. Edone scosse il capo con un’espressione di disgusto:
«Non capisco questo posto: non capisco come tante persone possano abbandonarsi a debolezze oltre il poterne apprezzare il gusto; non capisco il mercante che vende cibi e bevande scadenti, né chi beve birra annacquata senza potersene più accorgere, o chi mangia salsicce secche e spugnose, difficili da mandar giù. Capisco la buona birra, la carne succosa, e una o due brave ragazze che sappiano recitare un po’ di passione: tutto quello che il corpo ed uno spirito sano veramente chiedono. Nelle città troppo grandi la gente perde il senno: solo dove la gente è troppa ho visto lo smarrimento di chi cerca piacere nella gozzoviglia. Fino ai veri veleni, come l’Ynghwamokka».
Il mercante provò a difendersi:
«Se c’è la richiesta, occorre qualcuno che la soddisfi».
«E se non c’è la richiesta, è facile creala spingendo le persone giù per la china del bisogno che non ha mai fine. Vale per le bevande scadenti quanto per l’Ynghwamokka, giusto?»
«Esatto non c’è differenza.»
«Ma l’Ynghwamokka crea clienti più fedeli», concluse il mercenario spingendo il viso dell’omaccione sui cocci. «Da dove arriva l’infuso maledetto?»
Di nuovo silenzio. Edone, rapido, gli segnò la guancia con la punta del pugnale, poi infilzò il turacciolo grondante veleno e glielo schiacciò sulla ferita appena aperta. Un urlo strozzato confermò il dolore provato dall’oste che, rantolando, con la lingua intorpidita dalle tossine, cedette biascicando:
«Da Ukim… Un carico ogni tre o quattro giorni».
«Bravo: so che non menti. Dimmi di più.»
«I Goblin del monte Perk, nella Cresta Scura: loro forniscono i funghi agli alchimisti. Le erbe giuste invece gliele hanno indicate gli eretici del Sole Nero. Gli alchimisti preparano il distillato e l’infuso sulla sponda uviana. Quando l’Ynghwamokka è pronta, altri complici la portano ad Ukim, a notte fonda. Hanno un capanno a valle dei moli pubblici, con un pontile privato: li arriva l’infuso; lo mettono nelle mele; impacchettano e organizzano la spedizione.»
Edone aggiunse le informazioni ottenute a quanto già sapeva o aveva intuito e non trovò contraddizioni. Si ritenne soddisfatto.
«Domani notte vi sarà un altro trasporto sul fiume, vero?» chiese per conferma.
«Sì, ve ne è uno a giorni alterni.»
«Bravo oste», lo schernì Edone. «Ora ridammi i miei soldi, comunque raddoppiati per il disturbo, anche se a vederti avevo pensato che sarebbe stato più difficile farti parlare.»
Il corriere del Faudyvia
Notte del 4° giorno di Primosole
Edone era partito in tarda mattinata dopo essersi procurato un buon cavallo, un muscoloso sauro che aveva energia da vendere. Aveva preso la strada lastricata di basalto che portava a nord, verso Ukim e il Faudivya. La primavera s’affermava e sui meli e i viscioli che bordavano la strada sbocciavano i primi fiori, mentre i campi lasciati a maggese si riempivano d’erbe selvatiche e le estese coltivazioni di colza, che sarebbero fiorite da lì a un mese, verdeggiavano sotto il Sole e le altre Luci del Giorno.
Non fece tappe, come aveva programmato sapendo che non avrebbe trovato locande aperte. Gli era infatti stato detto che l’unica locanda sul percorso, a metà strada tra Kanedia ed Ukim, aveva chiuso da ormai più di quindici anni. Raggiunse la struttura abbandonata a metà pomeriggio e, vedendo il solido edificio a graticcio di tre piani coperto d’edera, con attorno stalle e recinti distrutti e divorati dalle erbacce, non poté non chiedersi cosa avesse spinto i proprietari ad andarsene.
Proseguendo, poco più avanti s’imbatté in un menhir, quasi sul ciglio della strada, sul bordo d’un campo non coltivato. Era alto sei braccia e aveva l’intera superficie incisa da rune magiche. Passando a fianco del monumento arcaico, s’augurò che fosse vera la diceria che quelle grosse pietre, che molti chiamavano Sentinelle, proteggessero i viaggiatori. Tra le rune v’erano dei Gatti stilizzati e sperò che anche quel segno fosse beneaugurante. Ripensò a quanto gli aveva detto Emith-Frael sul lavoro che gli aveva affidato:
«Capirai che ogni giorno ogni essere umano fa delle scelte e che, anche se esse non assicurano la sua fortuna, definiscono infine la sua persona».
Sulla sommità del menhir, la Triplice Spirale dell’Universo era posta a ricordare la complessità della realtà, pienamente definibile non come sola affermazione, ma anche come potenziale e negazione.
Giungendo di notte, sotto il cielo terso senza Luna ma affollato di stelle, il bastione di Ukim apparve come un’ombra severa che incombeva sui bassi tetti di canniccio che lo circondavano. Il baluardo kanediano, monolitico ed imponente, presidiava da circa due secoli la sponda meridionale del Faudivya, confine del regno. Con il tempo era stato circondato da stalle e case di piccoli allevatori e contadini, poi da botteghe d’artigiani e mercanti. Negli ultimi anni, con il crescente diffondersi d’un senso d’insicurezza e sospetto tra i regni vicini, la fortezza aveva subito modifiche e rafforzamenti, ospitando un numero sempre maggiore di soldati. Il piccolo borgo, sorto quando nulla sembrava minacciare la pace, era cresciuto insieme alla guarnigione, vivendo dei commerci e dei servizi che riusciva a offrirle. Da poco più d’un anno era protetto da un’alta palizzata ed un fosso. Non erano difese pensate per resistere a lungo, ma abbastanza da consentire agli abitanti di mettersi al sicuro dentro la fortezza. Un giorno, forse, la palizzata sarebbe stata sostituita da mura di pietra ed Ukim sarebbe divenuta una città, ricca e popolosa quanto Kanedia.
Edone raggiuse la palizzata prima che tutte e sette le Fortezze della Luce, Case degli Dèi, tramontassero. I militari avrebbero chiuso le porte di lì a poco, non appena Mez e Mahasa avrebbero toccato l’orizzonte, lasciando la luce verdastra di Naini e Maifi, sacre a Orchi e Goblin, risplendere incontrastata. Le stelle dei pelleverde avrebbero brillato per un’ora prima del sorgere di Qeelon, Teelon e Strilon, Case dei Fratelli degli Uomini consacrate rispettivamente ad Elfi, Nani e Gnomi: “l’Ora Verde”, così la chiamavano in quelle terre, e la ritenevano un tempo sfortunato. Le porte sarebbero rimaste chiuse fino all’alba.
Edone entrò e vide che non v’erano strade lastricate oltre quella che portava alla fortezza, né lampioni o altre forme d’illuminazione pubblica. Nel borgo v’erano due locande e lui si fermò alla prima che incontrò, il Gotto d’Argento, evitando d’attirare l’attenzione e di doversi far identificare dai militari di ronda. Lì si rifocillò bevendo ottima birra scura, mangiando carne al sangue e lasciandosi appagare dalla sola vista dei seni prosperosi della cameriera, una bella ragazza dai ricci rossi e gli occhi verdi. Si ritirò presto nella sua stanza, disponendo che fosse svegliato quando Naini e Maifi avrebbero raggiunto un terzo del loro percorso nel cielo.
Edone si coprì con la cappa grigia e s’incamminò verso il grande fiume. Lasciò il sauro nella stalla della locanda, perché non gli occorreva muoversi in fretta. A nord-ovest il borgo raggiungeva la sponda del Faudivya e non v’era alcuna palizzata a proteggerlo: il fiume lì era largo più di mille passi e non esistevano armi da guerra in grado di superare una tale distanza, né sistemi che consentissero ad un esercito un attacco improvviso senza esser visto.
Individuò quasi subito i moli pubblici ed il magazzino con il pontile di cui gli aveva parlato l’oste la notte prima. Non v’erano luci alle finestre, ma si tenne a distanza. S’appostò dietro una siepe.
Ben presto scorse dei movimenti furtivi ed il baluginare di lame, intorno e dentro la struttura, avendo così prova che i mescitori di veleni e i loro complici erano preparati ad accogliere visitatori indesiderati. Poteva essere che attendessero lui? Era improbabile ma non impossibile, perché i suoi movimenti a Kanedia potevano essere stati notati da qualcuno. Ne contò quattro ad attenderlo: v’erano dei capelli biondi su una tettoia sull’ingresso est dell’edificio; una figura tozza tra dei barili sotto la stessa tettoia; un’ombra dietro una finestra e un’altra acquattata dietro delle casse, a pochi passi dall’ingresso ovest. Pensò che evidentemente non s’aspettavano d’essere aggrediti da più di una o due persone. Impugnò l’arco lungo e tra le sue frecce ne contò tre con limpidissimi cristalli di quarzo al posto delle punte. Dovette riconoscere che Emith-Frael lo aveva ben equipaggiato, una buona volta: erano Frecce del Silenzio, pensate per creare piccole bolle senza suono e non per uccidere, ma Edone confidava sulla forza del suo braccio.
Sulla tettoia stava sdraiato un Elfo biondo, forse un reietto scacciato dal Regno di Sysua. Era la vedetta del gruppo. Sentì un sibilo nell’aria e poi quello che gli parve un palo penetrargli tra collo e clavicola, fino al cuore. Urlò, ma nessun suono uscì dalla sua bocca, né gli spasmi convulsi della sua sofferenza fecero rumore. Una comune freccia lo fini perforandogli il cranio.
La figura tozza nell’ombra sotto il primo morto non si mosse, non essendosi accorta di nulla.
La punta di quarzo d’una nuova Freccia del Silenzio s’andò ad infrangere vicino alla finestra, poi una freccia normale ne sfondò il vetro colpendo al volto l’Uomo appostato subito dietro. Anche la seconda uccisione non aveva potuto essere notata dai due compagni rimasti.
Il Nano sentì una goccia cadergli sul capo e si passò la mano tra i capelli bruni arruffati, vedendola poi sporca di sangue. Alzò subito lo sguardo allarmato e, in quell’attimo, una freccia gli trapassò la gola squarciandogliela. Mandò un sonoro grugnito ed un rantolo, cadendo rumorosamente a terra, cercando di tamponare il sangue che schizzava a fiotti. Il suo ultimo compagno schizzò verso di lui silenzioso come una lince, ma, trovandosi a passare sotto la finestra sfondata, si fermò guardando la strana freccia a terra lì davanti. Nei pochi istanti che gli occorsero per capire, si ritrovò addosso un bruto ammantato che lo caricava con un lungo spadone sguainato. Provò a parare con la sua sciabola, ma l’affondo sgraziato dell’assalitore fu troppo forte e preciso, e tutto prese a girare mentre la testa troncata dal collo ruzzolava tra le erbacce.
Nonostante avesse ormai rinunciato al pieno silenzio, risparmiando una freccia dalla punta di quarzo per ogni evenienza, Edone si mosse guardingo esplorando la struttura. All’interno, al fresco, v’erano alcune casse di mele rosse, tenute al riparo dalla luce con pesanti teli, e altre casse con piccole anfore vuote, accuratamente lavate. All’esterno, sul pontile, v’era una comoda panca che guardava al fiume, con al fianco una lanterna cieca accesa ma chiusa per non lasciar uscire luce. Quello doveva essere lo strumento che i trafficanti utilizzavano per comunicare tra le due sponde. Sapeva che se avesse lasciato in vita uno dei sorveglianti avrebbe potuto interrogarlo, ma era un rischio che non aveva voluto correre, temendo che potesse in qualche modo dare l’allarme.
Recuperò in fretta il cadavere più vicino, per abbandonarlo alla corrente del fiume. Mentre lo trascinava sul molo, scorse un grosso rospo bruno peloso che lo osservava con i suoi occhi gialli. La strana bestia lo fissò per un istante, poi sparì con un tuffo tra le canne. Edone portò subito la mano al cavallo dei pantaloni borbottando, perché vedere un Rospo Irsuto era un cattivo presagio. Fosse stato realmente superstizioso, sarebbe dovuto tornare di corsa alla locanda, per evitare il male all’opera quella notte. Invece calò lentamente tutti i corpi nel fiume, quindi tornò alla panca e sedette in attesa, osservando la sponda opposta, senza far altro, sperando che il segnale dovesse giungere da lì.
Attese almeno un’ora, poi vide balenare tre volte una piccola luce, probabilmente una lanterna cieca identica a quella che aveva a fianco. Il segnale veniva da una macchia di salici al termine d’una strettissima insenatura aperta tra le canne, certamente un corridoio artificiale. Quelle accortezze, forse insieme a dei pannelli, dovevano impedire che la luce fosse scorta dai merli del bastione di Ukim, da dove sarebbero altrimenti immediatamente partite guardie armate per un controllo. Rispose con lo stesso segnale ed aguzzò la vista. Dopo poco vide uno strano rigonfiamento sotto il pelo dell’acqua muoversi verso di lui, come il dorso d’un qualche mostro fluviale. S’alzò in piedi pronto a sguainare Sethethi, ma rimase calmo.
Giunto a pochi passi dal pontile, il rigonfiamento si sollevò e s’aprì, rivelando una piccola imbarcazione malmessa, carica di casse stipate d’anfore, e una grande creatura antropomorfa che la spingeva a braccia, semitrasparente e gelatinosa come una medusa. Edone non aveva mai visto un Troll d’Acqua, pur avendone sentito spesso parlare. Nonostante non potesse uscire dall’acqua, si capiva che era alto almeno il doppio d’un Uomo. Era vero, poté osservare, che aveva un volto vagamente umano, nonostante il lungo naso adunco e le grosse orecchie triangolari, ed era anche vero che sarebbe stato difficile distinguerlo se si fosse immerso del tutto, tanto la sua sostanza ricordava l’elemento da cui prendeva il nome. S’intuivano organi ed ossa in trasparenza, con deboli sfumature colorate, ma non fu facile distinguerne gli occhi nella notte, sfere leggermente più scure del resto del cranio. Il cervello, piccolo rispetto alle dimensioni della testa, era una netta ombra rosata.
La creatura spinse la chiatta fino ai piedi dell’Uomo, restando poi a guardarlo con l’espressione dubbiosa. Edone decise d’improvvisare, confidando che fosse vera anche la voce che voleva che i Troll non brillassero per acume:
«Buon lavoro amico mio», gli disse con un larghissimo sorriso. «Siamo tutti molto soddisfatti di te.»
«Chi sei?» chiese il Troll.
«Uno nuovo: il tuo ottimo lavoro consente ad altri, come me, di potersi unire alla squadra. Puoi chiamarmi “Nuovo”, perché qui tutti mi chiamano così.»
«Nuovo… Io sono Glodringli.»
Il suo nome era suonato come il gorgoglio d’una sorgente.
«Sono davvero felice di conoscerti Glodringli. Ma ora torniamo a parlare di lavoro: per prima cosa scarichiamo le casse.»
«Certo Nuovo.»
Edone cercò d’essere d’aiuto, ma in realtà fu il Troll a farsi carico di tutto il peso. Nonostante la sua sostanza sembrasse gelatinosa e molle, i suoi muscoli erano forti e in pochi istanti tutte e tre le casse erano sul pontile.
«Porti tu dentro?» chiese Glodringli.
«No amico, ci pensano gli altri adesso. Invece tu dimmi: ci sono altri carichi stanotte?»
«No, solo uno.»
«Bene! Aspettano il tuo ritorno sull’altra sponda?»
«No, tutti via.»
«Oh, peccato», disse Edone dimostrandosi dispiaciuto. «Avrei dovuto parlare con loro…»
«Goblin andati verso montagne», lo informò Glodringli.
«Allora posso chiederti un passaggio? Devo raggiungere gli alchimisti.»
«Io devo caricare anfore vuote», obiettò la creatura.
«Giusto, ma non c’è spazio per me e per le anfore: porta me, per favore. È molto importante che io raggiunga i nostri amici in fretta. E poi ti dovrò un favore.»
Il Troll annuì ed Edone saltò a bordo del barcone. Il guerriero aveva avuto riprova della lentezza della mente della creatura, ma comprese anche che la sua ingenuità era innocente e benevola. Dubitò che la creatura sapesse cosa gli facevano trasportare, così glielo chiese:
«Glodringli, tu sai cosa c’è nelle anfore vero?»
«Sì Nuovo: il liquore che piace tanto a Kanedia, anche se puzza.»
«Bravo Glodringli: te non devi bere mai quel liquore perché ti farebbe male.»
«Sì Nuovo. A volte porto anche carne di maiale.»
«La carne non ti fa male: puoi mangiarla se vuoi.»
Il Troll annuì, quindi iniziò a spingere. Mentre accelerava l’acqua prese ad aprirglisi davanti in un modo che ben pochi umani avevano mai visto, annullando qualsiasi resistenza fino ad accogliere l’imbarcazione dentro di sé, velandola. Edone si spiegò quel fatto strano pensando che Glodringli sfruttasse appieno la sintonia con il suo elemento.
Raggiunsero la sponda uviana del Faudyvia in fretta e il velo d’acqua subito s’aprì. Edone dissimulò lo stupore e saltò sul molo nascosto nel canneto, trovando subito la lanterna spenta. Dal piccolo molo partivano due sentieri ben battuti, uno diretto a nord e l’altro che seguiva il corso del fiume, tra canne e salici. Indicando verso nord, si rivolse al Troll che lo guardava dall’acqua:
«I Goblin sono andati da questa parte, vero Glodringli?»
«Sì Nuovo, verso montagne.»
«Allora io raggiungo il capanno: grazie amico mio. Ora torni a riposare?»
«Sì. Io dormo qui sotto la barca.»
«Bravo Glodringli», lo salutò. «Sei il più bravo di tutti. Dormi ora: meriti un buon riposo.»
La bocca di Glodringli si piegò in un sorriso: era felice per i complimenti che aveva ricevuto quella notte e che non aveva sentito neppure una volta nei mesi passati. Salutò Nuovo con la grossa mano semitrasparente e sperò di rivederlo presto.
Il gracidio delle rane copriva ogni altro suono. Edone s’era incamminato per il sentiero che s’inoltrava nel canneto, dove, nonostante la luce delle sole stelle, erano evidenti le tracce di numerosi piedi che si muovevano in direzione opposta. Spesso v’erano tavole a terra a coprire il fango, le profonde pozzanghere e i piccoli stagni della riva. Dopo due o tre centinaia di passi, scorse delle luci fioche e si fece più cauto. Avanzò fino a quando vide il sentiero terminare di fronte ad un grosso capanno galleggiante, con le finestre debolmente illuminate ed un’ampia porta a due battenti chiusa. Era largo una decina di passi e lungo il doppio, costruito con tavole di legno su una chiatta attraccata ad un isolotto. I salici imponenti e le canne altissime lo nascondevano dallo sguardo di chi si muoveva sul fiume.
Edone s’avvicinò silenziosamente e salì sulla chiatta, poi, sfruttando la passatoia non più larga d’un piede sul suo bordo, iniziò a muoversi rasente al muro della struttura. Vicino all’ingresso aveva fiutato alcol e erbe medicinali nell’aria, ma più avanti sentì puzza di muffa, legno marcio, ruggine e forse anche altro: sangue vecchio, in parte coperto dall’odore metallico del ferro che si disfaceva. Voleva affacciarsi ad una finestra, ma ad ognuna trovò delle tende lerce che celavano l’interno. Giunto all’altro capo della chiatta, si trovò a passare sotto le gabbie d’una decina di colombi addormentati, che gli alchimisti evidentemente usavano per comunicare. Aveva quasi concluso il giro, quando qualcosa lo colpì alla nuca. Tutto divenne nero mentre cadeva in acqua. Il freddo che sentì svanì in un attimo e si rassegnò all’idea d’essere morto.
Veleno per l’anima
5° giorno di Primosole
Un forte dolore alla testa gli preannunciò il risveglio, seguito da luci confuse che anticiparono il ritorno della vista. Edone era sorpreso d’essere ancora vivo. Si trovava dentro il capanno, non ebbe dubbi al riguardo, e s’era ormai affermato il giorno, anche se l’ambiente era illuminato da lampade ad olio appese alle travi del tetto. Intorno a sé vide casse piene di funghi dalla cappella rossa macchiata di bianco, accatastate fin quasi al tetto, e fasci d’erbe multicolori, ma anche un tavolaccio su cui erano buttati coltelli, mannaie da macellaio e stracci sporchi di sangue. V’era odore d’alcol lì dentro e sentì il gorgoglìo degli alambicchi a lavoro. Avvertì male ai polsi, stretti in manette rugginose, e comprese d’essere incatenato alla parete di legno del capanno. Anelli di ferro gli tenevano le braccia quasi distese e s’avvide d’essere stato totalmente spogliato. Sapeva che qualcuno l’osservava, per cui si trattenne dal cercare di liberarsi e si finse stanco, debole e stordito.
«Stai rinvenendo… finalmente», senti dire una voce, bassa e catarrosa.
Da dietro una catasta di funghi comparve un Uomo dall’età indefinibile, in una casacca lurida che in origine doveva essere stata grigia. Era totalmente glabro e la pelle era giallognola; aveva un volto comune, ma il cranio allungato ed il collo sottile. Gli occhi cerulei ed acquosi tradivano una qualche maliziosa ingegnosità più che intelligenza. Gli si avvicinò e le narici d’Edone si riempirono d’un puzzo intollerabile di sudore fermentato.
«Sei ancora stordito», riprese l’essere sordido. «Forse i nostri amici ti hanno colpito troppo forte.»
Per tutta risposta Edone decise d’inclinare la bocca facendosi colare bava sul mento, iniziando a far schizzare gli occhi in tutte le direzioni come quelli di un folle. Vide che i suoi vestiti, l’arco e Sethethi erano poggiati contro il muro opposto. Il carceriere lo osservava cupido, non potendo nascondere la voglia di fargli del male: era un predatore che guardava una preda inerme.
«Ti dispiacerà non esser morto», gli disse. «Pensavamo di liberarci di te sull’altra sponda. Tra poco ti costringeremo a dirci come hai fatto e chi sei, e soprattutto chi ti manda. Lasciami però dire che sono contento che tu sia qui, perché potrai comunque essere utile. Infatti hai due scelte di fronte a te. La prima è soffrire ma collaborare. Diventerai uno di noi, dopo che l’Ynghwamokka avrà preso a scorrerti nelle vene: faremo di te un esempio, amico mio.»
Fece una piccola pausa a effetto, poi rivelò i denti marci in un sorriso sardonico:
«La seconda è soffrire e soffrire ancora, fino a morirne, sapendo che nessuno avrà più notizie di te, mai. In questo posto facciamo cose orribili a quei disgraziati che ci vengono mandati, quelli che sono ormai inutili, e l’oste sa che le mele finiranno. Per questo ci ha chiesto di iniziare a inviargli la carne: ora, dopo il successo delle sue salsicce, si faranno pasticci».
Edone avrebbe preferito certamente la morte alla schiavitù dell’Ynghwamokka, ma il ricordo della cena di due notti addietro gli rivoltò lo stomaco. Nonostante riuscisse subito a scacciare quel pensiero, il suo raccapriccio era stato evidente. L’alchimista gli si avvicinò ad un passo, con la smorfia divertita d’uno squilibrato, per deridere la sua vittima spaventata ed inerme. I pettorali d’Edone guizzarono e le sue braccia scattarono chiudendosi; le tavole marce del muro liberarono chiodi e ganci; e la testa oblunga del maniaco perverso quasi esplose, schiacciata con un suono sordo tra i pugni appesantiti dal metallo delle manette. Sangue e cervella rosa colarono da naso e orecchie, mentre gli occhi sporgevano dal cranio deformato. Edone lo lasciò cadere già morto, ma che ancora si scuoteva per i tremiti delle convulsioni, e si mise in ascolto.
Aveva fatto rumore, ma non tanto da far pensare ad una colluttazione. Sentì dei movimenti provenire dallo stesso lato da cui era venuto il primo carceriere, verso l’ingresso del capanno, e s’acquattò a terra. Dei pesanti passi zoppicanti fecero tremare la chiatta e un colosso obeso, con le spalle storte e cadenti, un altro Uomo totalmente glabro con la pelle ingiallita, s’affacciò da dietro le casse dei funghi. Edone lo colpì all’inguine e l’omone cadde in ginocchio guardandolo stolidamente, con un rantolo e le mani tra le gambe, quindi gli agguantò la testa e gli girò il collo. Si sentì un rumore simile a quello di dadi lanciati su un tavolo. Poi Edone corse ad impugnare Sethethi.
Il borbottio degli alambicchi continuava e l’odore pungente dell’alcol dava alla testa, come anche le esalazioni, acri, della poltiglia fermentata da cui era ottenuto il distillato. Immaginò che dovevano esservi botti di distillato da qualche parte ed avanzando verso l’ingresso le vide. Vicino alle due voluminose botti stava il terzo ed ultimo Uomo, un’ombra curva e barcollante, che regolava la manopola d’un grosso alambicco. Quando questi lo vide, totalmente nudo e con l’imponente spadone in pugno, tentò la fuga lanciandosi all’aperto.
Edone lo raggiuse nel sentiero tra le canne e lo colpì di punta ad un polpaccio. L’alchimista ruzzolò nel fango e lui lo bloccò, con un piede sul petto e la lama puntata. Aveva la pelle ingiallita, sebbene forse meno dei suoi compagni, e qualche pelo e capello gli cresceva ancora sulla testa. Anche la sua deformità era meno evidente: le braccia erano storte e le mani piegate, come se soffrisse d’una feroce artrosi. Lì all’aperto il suo viso dagli occhi verdi, che un tempo doveva essere stato bello, sembrò ritrovare pian piano lucidità.
«Sei l’unico rimasto vivo, sgorbio deforme», lo informò tenendolo a terra. «Potrei anche pensare di non ammazzarti se tu ti dimostrassi utile.»
«No!» rispose quello inaspettatamente, con il volto implorante. «Io ti aiuterò e tu mi ucciderai, senza farmi soffrire.»
Edone era sorpreso:
«Tu non vuoi più vivere? Stavi scappando.»
«Ho paura, paura di tutto. E odio… e voglia di fare del male. Sono diventato un mostro peggiore d’una bestia ferita. E non c’è più fuga per me, perché l’Ynghwamokka mi chiama, ogni istante. Se finora l’unica alternativa era essere macellato e servito come carne di maiale, ora forse ho la possibilità d’una morte migliore.»
Edone annuì:
«Così sarà. Ora dimmi: quanto veleno producete qui?»
«Abbastanza da inondarne le strade di Kanedia», fu la risposta data con un brivido. «Ma presto ne avremo troppo per una sola città e guarderemo ad Uvia ed Uruth.»
«Chi mi ha colpito ieri notte?»
«I Goblin. Avevano appena lasciato un carico di amanite e ti hanno visto al molo. Ti hanno seguito e ti hanno steso con un colpo di fionda.»
«E ora dove sono?» l’incalzò Edone.
«Credo siano ormai a metà strada dal Monte Perk, sulla Cresta Scura.»
«Ne arriveranno altri?»
«Non porteranno funghi prima d’una settimana.»
Edone fece una smorfia scocciata e l’alchimista capì le sue intenzioni:
«Tu vuoi ucciderli, mercenario. Tu devi ucciderci tutti».
«Sì, e sembra che a te la cosa stia bene.»
«Sì, e possiamo far tornare indietro i Goblin se vuoi.»
Edone annuì.
«Abbiamo una voliera con dei colombi.»
«So dov’è.»
«Libera quello nella gabbia più a sinistra: liberalo subito e i Goblin saranno qui quando la loro stella sarà all’acme del suo percorso, non più tardi. Non so quanti siano, perché stanotte non ero lucido. Non più di dieci comunque.»
Edone era grato a quel relitto d’Uomo:
«Potresti fare ancora molto per redimerti…»
L’alchimista lo guardò con una smorfia tra preghiera e rassegnazione:
«Tu hai dato la tua parola, ma se io ti dessi la mia, non potrei esser certo che la manterrei.»
Edone lo lasciò allora libero di mettersi in ginocchio, con gli occhi chiusi e il capo chino. La lama di Sethethi calò con un sibilo. Le sette Fortezze della Luce erano sorte da due ore e la giornata era ancora lunga.
Edone non aveva certezza del numero dei pelleverde che sarebbero arrivati, ma aveva avuto un giorno intero per prepararsi. Giunta la notte, aspettò che Naini e Maifi fossero ad un terzo del loro cammino nel cielo ed uscì dal capanno, nudo a parte le cortissime brache. Aveva con sé la lanterna cieca accesa ma chiusa, Sethethi, arco e faretra, e due sacchi: uno con la sua roba e l’altro con le teste degli alchimisti uccisi. Lasciò la porta spalancata e lanciò i sacchi tra i giunchi. L’interno del laboratorio degli alchimisti era illuminato dalle lampade ad olio e i loro tre cadaveri decapitati erano bene in vista. Aveva trascinato dentro anche l’ultimo.
Scelse un nascondiglio tra le canne da dove, nell’acqua fino alle ginocchia, potesse vedere bene l’interno del laboratorio. Si lavò accuratamente, poi si spalmò interamente il corpo e il volto di fango. Pose la lanterna all’asciutto e la regolò al minimo, per evitare che, nonostante le lampade nel capanno, facesse abbastanza fumo e cattivo odore da tradirlo. Quindi, lì acquattato e quasi invisibile nella notte senza Luna, aspettò. Sethethi era infissa nel limo al suo fianco.
I pelleverde giunsero poco prima che Naini e Maifi fossero al loro acme. Erano indubbiamente Goblin, non più alti di Nani ma molto gracili e ossuti, coi volti smunti e le lunghe orecchie a punta tipiche della loro specie. Il gruppo ne contava otto e tutti fiutavano l’aria incerti. Il loro equipaggiamento non era di qualità, limitandosi ad armature di pelle imbottita, sciabole rugginose, archi corti o fionde, ciononostante erano combattenti da non sottovalutare, agili e veloci. Quando videro la porta del capanno aperta ed i cadaveri, quello che doveva essere il Capo con un gesto diede l’ordine di fermarsi. Poi inviò due compagni in avanscoperta.
I due Goblin entrarono e il puzzo forte dell’alcol e delle erbe medicinali li assalì subito. Dentro l’edificio ogni cosa era in disordine: l’alambicco giaceva a terra distrutto; grosse macchie d’infuso segnavano il pavimento e le pareti; stracci intrisi di distillato pendevano da casse e barili; ovunque v’erano cocci d’anfore. Tutto grondava alcol, anche i corpi degli alchimisti decapitati. Ne cercarono le teste senza fortuna, ma trovarono altro: alcune monete d’argento buttate qua e là. Sicuri che non v’erano pericoli, fecero cenno agli altri d’avvicinarsi.
«Deve esserci stata una lotta», disse uno dei due esploratori. «Qualcuno se ne è andato con le teste dei pellegialla. L’Uomo che avevamo colpito ieri non c’è.»
Il Capo annuì:
«Era venuto per ucciderli ed ha finito il lavoro».
«Non deve essere andato via da molto e deve averlo fatto di corsa», disse l’altro esploratore. «Vi sono delle monete d’argento a terra e dentro è tutto bagnato di veleno.»
Gli occhi del Capo brillarono:
«Deve aver fatto parlare uno dei pellegialla, così ha saputo che saremmo arrivati. Quindi è scappato: ormai sarà dall’altro lato del fiume.»
«Che facciamo?»
«Cerchiamo in giro monete e altro da portar via e torniamo alla Cresta. Lì aspetteremo che arrivino altri alchimisti a chiederci i funghi.»
Detto questo, il Capo fu il primo ad entrare nel laboratorio, seguito da tutto il gruppo. In pochi minuti erano totalmente presi dalla razzia.
Edone accese la prima freccia incendiaria e tirò alla lampada più vicina all’ingresso. Il coccio pieno d’olio esplose schizzando il liquido infuocato ovunque, e le macchie d’infuso e distillato avvamparono. Al primo urlo dei Goblin, altre frecce fischiarono nell’aria, diffondendo le fiamme, che già si levavano come un muro di fronte alla porta.
Il Capo, non volendo restare in trappola, sguainò la lama e saltò oltre la barriera, ma cadde fulminato prima ancora d’individuare il tiratore, così come uno dei due combattenti che lo avevano seguito. Il terzo Goblin vide invece emergere dal folto delle canne una figura scura, armata d’un imponente spadone, che gli si lanciò contro in una carica furiosa. Riuscì a schivarlo per un soffio, mentre altri due suoi compagni, gli ultimi che ce la fecero, saltavano le fiamme altissime e, bruciacchiati, l’affiancavano.
Con le urla e i colpi alle pareti degli intrappolati a far da sottofondo, Edone si preparò ad affrontare i tre pelleverde che gli si paravano davanti. I tre si mossero per circondarlo, ma lui glielo impedì indietreggiando fino alla riva limacciosa. Quando scattarono assieme per trafiggerlo, le sue lunghe braccia e la lama di Sethethi gli diedero un vantaggio: respinse l’assalto con un ampio arco che, dando lo slanciò ad una giravolta, gli consentì un colpo micidiale. Un braccio verde, tagliato di netto, volò in aria. Disarmato e mutilato, l’assalitore indietreggiò, svenendo. I suoi compagni si fecero nuovamente sotto e stavolta Edone si concentrò su uno solo, con un affondo di punta che gli trapassò lo sterno e l’immobilizzò prima che potesse nuocergli. Per schivare l’altro fu però costretto ad abbandonare Sethethi, utilizzando l’infilzato come scudo e poi spingendolo, con una pedata, contro l’ultimo Goblin. Lo centrò in pieno, sbilanciandolo e facendolo cadere tra i giunchi. Non gli diede il tempo di rialzarsi, lanciandoglisi addosso di peso e spingendolo con la faccia nel fango a soffocare. Il pelleverde impiegò tempo a morire, sentendo l’odore di terra che scendeva a bruciargli i polmoni. Poi, finalmente, le botti colme di distillato esplosero.
Edone riemerse dall’acqua con le orecchie che gli fischiavano. Il tetto del capanno e le mura erano squarciati ed in fiamme, così come i salici vicini e parte del canneto. Lui era illeso, spinto nel fiume dall’onda d’urto. La chiatta s’inclinava ed Edone si sentì soddisfatto. Il Goblin mutilato era ancora svenuto a terra, mezzo bruciato, e decise di lasciarlo lì: se fosse riuscito a tornare alla sua tribù li avrebbe messi in guardia per il futuro. Perché il messaggio fosse più chiaro, tagliò sette canne robuste per farne dei pali e vi ficcò sopra le teste dei tre alchimisti e dei quattro Goblin che aveva ucciso. Non riuscì ad individuare i resti di quelli che erano stati intrappolati nel capanno, quindi si rivestì in fretta e se ne andò per il sentiero, mentre il relitto avvampava ed affondava.
Edone giunse al molo in pochi istanti. Grazie alla notte tersa, poté osservare la sponda opposta con attenzione e, nonostante la grande distanza, ebbe conferma dell’allarme sulle mura del bastione di Ukim. L’incendio doveva essere ben visibile da lì e certamente v’erano già militari in movimento nel borgo e lungo le sponde.
«Glodringli! Glodringli!» prese a chiamare.
Il Troll emerse dopo pochi istanti vicino alla piccola chiatta e lui lo salutò con un largo sorriso:
«Salve Glodringli, sono “Nuovo”, ti ricordi di me?»
«Certo Nuovo. Pronta spedizione questa notte?»
«Purtroppo no», gli disse fingendosi triste. «Gli alchimisti hanno dato fuoco a tutto. Hai visto le fiamme?»
La creatura parve accorgersi in quel momento del bagliore rosso e del fumo nero che s’alzava dal canneto.
«Perché?» chiese.
«Hanno sbagliato e sono tutti morti Glodringli…»
«E adesso?»
«Adesso è meglio allontanarsi e dimenticare tutto: qualcuno sarà arrabbiato e potranno pensare che è colpa nostra.»
«Ma io fatto nulla.»
«Io lo so: te hai fatto un buon lavoro. Ma loro saranno arrabbiati e io ho paura», gli disse con fare preoccupato. «E ho paura anche per te. Promettimi che dopo avermi portato dall’altra parte te ne andrai da qui, magari a est, verso il Lago Irya. Lì non potranno trovarti.»
Il Troll dovette pensarci per un istante, poi annuì convinto.
«Bene Glodringli! Ora andiamo: mi lascerai lontano dalla fortezza, oltre la palizzata, poi potrai proseguire verso il lago.»
Toccarono la riva a cinquecento passi dalla palizzata, oltre la portata dello sguardo delle sentinelle. Lì Edone salutò Glodringli, ringraziandolo sinceramente per l’aiuto. Gli raccomandò di non parlare con nessuno del liquore e del lavoro che aveva fatto, augurandogli d’unirsi ad altri Troll e di vivere felice, lontano dagli esseri umani per un po’. Lo vide immergersi ed allontanarsi, quindi si mise in marcia per raggiungere la strada prima che facesse giorno.
Farò di te un esempio, amico mio
6° giorno di Primosole
Edone varcò le porte del borgo di Ukim poco dopo l’alba e si mosse sicuro verso la locanda del Gotto d’Argento. V’erano molti militari in circolazione e decise di rimandare la distruzione del magazzino delle mele, dove ancora c’erano le casse di veleno scaricate due notti prima. Avrebbe voluto scoprire l’identità di altri coinvolti in quel traffico malefico, ma aveva tempo e già conosceva i volti di due di quei farabutti. Recuperò in fretta il suo sauro, pagando il dovuto, e ripartì diretto a sud.
Come ogni notte, le vie del Rusciàm, strette sotto gli edifici incombenti, poveri e fatiscenti, erano affollate da disgraziati che si stordivano nelle loro debolezze. Oltre i vicoli ingombri d’ubriachi, v’erano quelli dei consumatori d’Ynghwamokka. Tra quegli esseri umani simili a manichini, che si muovevano come sonnambuli in preda a strani sogni, avanzava di nuovo la figura imponente ammantata in una cappa grigia.
Finalmente vide il mendicante con il volto cinereo e i capelli radi, che distribuiva mele dal cesto nascosto sotto i suoi stracci. Sorrideva a quelli che, vittime del bisogno, gli tendevano le mani, concedendo loro quanto chiedevano con l’espressione d’un magnanimo salvatore. Lui era per loro “il Fratello”, e faceva presto sparire le monete sotto gli stracci logori, e ascoltava, annuendo, le promesse che gli venivano fatte e i resoconti dei favori che aveva chiesto.
Edone non gli si avvicinò neppure, né si annunciò. Il farabutto sorrideva ad una giovane cenciosa, uno spettro di bellezza perduta, e si chinava per porgerle una mela avvelenata. Con un sibilo ed il rumore d’una zucca infilzata, una freccia gli attraversò il cranio, trapassando entrambe le tempie senza incontrare resistenza, ed infiggendosi nel muro a pochi passi. Il Fratello piombò a terra come una marionetta a cui avessero tagliato i fili, tra la paura dei disperati che gli si erano fatti attorno e che si ritirarono, vedendo il suo assassino avvicinarsi. Quando Edone fu su di lui e capirono che voleva le mele, il bisogno insano li spinse a cercare di prenderle nonostante lo spavento. Ma al guerriero bastò rompere un braccio al primo tra loro perché desistessero. Raccolse il cesto e lo nascose sotto la cappa, andandosene senza neppure pronunciare una parola.
La notte era quasi al termine e solamente i ragni domestici sgattaiolavano per la taverna. Il Porco Grasso però ancora non dormiva, perché l’oste era ancora a lavoro nelle cucine, al tavolo di marmo con mannaia e coltelli: doveva essere solo quando preparava le sue salsicce. Era infatti impossibile che qualcuno non riconoscesse l’origine di quei pezzi di carne, che lui disossava con meticolosità e spingeva nel tritacarne più volte, mettendo forza e sudore per ottenere un impasto che lo soddisfacesse. Lo speziò con alloro e pepe prima di insaccarlo. Una volta stese le salsicce, s’asciugò la fronte e decise di concedersi una birra. Il taglio sulla guancia prudeva spesso e la birra lo aiutava a non pensarci. Si voltò per dirigersi al bancone e solo allora s’accorse del guerriero che lo osservava.
L’oste non aveva sentito alcun rumore, eppure il ficcanaso che credeva morto stava appoggiato ad una parete con le braccia conserte a guardarlo, a tre passi da lui, vicino alla porta del retro spalancata. Si capiva che non c’era stato un tentativo di scasso: tutta la parte della serratura pareva essere stata strappata via.
«Sei scrupoloso nel tuo lavoro, locandiere, te lo riconosco», affermò il guerriero.
Lui non rispose ed impugnò la mannaia e un coltello che aveva sul tavolaccio. Grasso, sudato e già affannato, sapeva di non avere molte possibilità: ogni via di fuga gli era preclusa e gli occhi neri sotto l’unico sopracciglio erano freddi come ghiaccio.
Edone non si scompose:
«Volevo osservare il volto di chi, sano di mente, fa a pezzi un essere umano lontano dalla battaglia: senza che sia per difesa o per attacco, né per riscuotere una taglia. Non credevo fosse facile come macellare un maiale».
«Non c’è alcuna differenza: se ti avvicini te lo mostro», minacciò l’omaccione.
«È proprio quello che voglio provare stanotte. E tu mi assisterai: alla fine, giudicheremo il risultato insieme.»
L’oste dapprima non comprese, poi Edone sguainò Sethethi e gli disse:
«Farò di te un esempio, amico mio».
I rubini che le vipere dell’elsa avevano per occhi brillarono sanguigni.
“La storia del Monco del Rusciàm ebbe un certo clamore per qualche tempo. L’incendio di un magazzino sulla riva del fiume nel borgo di Ukim, avvenuto due giorni dopo il ritrovamento dell’oste che serviva carne umana ai suoi tavoli, fu ricollegato alla vicenda solo con il processo. Molti videro nella pubblica esecuzione del Monco un atto d’immeritata compassione. L’Yngwamokka sparì dalle strade di Kanedia per anni ed anche i vicoli del Rusciàm beneficiarono delle maggiori attenzioni della milizia, per alcuni mesi.”
Da “Cronache Kanediane”,
appunti del Maestro di Studi Emith-Frael dell’anno 778.